lunedì 2 marzo 2020

IN ARTE JUAN /1972


Qualche tempo fa, grazie alle magiche combinazioni dei nuovi Social, ho ritrovato un amico, di cui avevo perso tracce e connotati da una trentina d’anni. 
E’ ricomparso sulle pagine di FB e mi ha chiesto la consueta amicizia digitale.
Mi è già successo tante volte, come a tutti, e questa possibilità è certamente un importante bonus di questa tecnologia che favorisce contatti, incontri, nuove conoscenze, dialogo e socialità, sia pure con le dovute attenzioni e precauzioni.
Lo è un po’ meno, quando, attraverso gli stessi meccanismi, si viene a conoscenza di notizie molto meno liete o della scomparsa di persone amiche che, a vario titolo, hanno attraversato e incrociato la nostra vita e poi, nel tempo, si sono dissolte nelle ignote strade del mondo, del tempo e del caso.

Quella volta, per fortuna, mi ha cercato e contattato, con reciproco piacere, il vecchio amico detto Juan, con il quale ho condiviso molti anni della giovinezza, di musica, bisbocce ed avventure varie (fu anche attore-caratterista nel mio film sperimentale, da cui il suo nome d'arte).
Scanzonato, fantasioso, fuori dal coro, un po’ hippy, un po’ figlio dei fiori e un po’ espressione di quell’utopia, che nella seconda metà degli anni Sessanta, proponeva un modello di vita alternativo, contestando in modo non violento la società dei consumi e la cultura di massa.
Juan non amava molto regole e vincoli, sia affettivi che di lavoro, si accontentava dell’essenziale, non aveva pretese, né mire di ricchezza o di successo. Aveva scelto, fin da allora, di vivere con poco, alla giornata, ma soprattutto libero, tra femmine, chitarre e due - tre camicie quadrettate.
Anche nella maturità non ha mai rinnegato questa sua filosofia esistenzial-minimalista ed è rimasto fedele ai suoi principi, come ho potuto verificare quando poi l’ho incontrato.

In quegli anni, un po’ tutti – chi più, chi meno – ci caratterizzavamo esteriormente nel modo di vestire vivace, informale e approssimativo, sia nei colori, che nello stile, freak e sessantottista. Figli della beat generation in campo culturale, politico, soprattutto, musicale. Ho ancora il mio vecchio eskimo nell’armadio.
Ci siamo ritrovati e riabbracciati con gioia e con affetto, come se quel tempo non fosse mai passato, e ci siamo reciprocamente raccontati. Lui era rimasto uguale, con lo stesso spirito, la sua aria casual e la stessa voglia di cantare le sole note della sua libera canzone: tra atarassia epicurea, utopia idealista e anarchia romantica.

Poi, mi ha invitato a partecipare a un incontro–dibattito, fra amici e conoscenti, per discutere liberamente su un tema di attualità, come amava fare almeno una volta al mese.
Ho accettato con piacere: abbiamo parlato di migrazione-evoluzione, con digressioni inevitabili su argomenti a lato o, casualmente, emersi o rilanciati all’attenzione di ciascuno.
Un modo sano per tener allenato il cervello, per riflettere a voce alta, per non sprecare giudizi e considerazioni, per confrontarsi con le idee altrui e col pensiero dominante e omologato, imposto da un certo potere e dalle sue grancasse mediatiche. E, anche, a dirla tutta, per espellere qualche tossina di troppo, accumulata nel Web.
Un bel salottino semplice e spontaneo, fatto di persone intelligenti ed ospitali.

Dopo questo primo incontro, molto interessante e soddisfacente, ce ne furono altri.
Ma col passar del tempo, l’amico Juan, come nel suo stile e nella sua storia, è sparito ancora, non si è fatto più sentire, né vedere. Si è eclissato nel suo mondo etereo, impalpabile, evanescente.
Come una irraggiungibile, effimera meteora.
29 febbraio 2020 (Alfredo Laurano)

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