Qualche tempo fa, grazie alle
magiche combinazioni dei nuovi Social, ho ritrovato un amico, di cui avevo
perso tracce e connotati da una trentina d’anni.
E’ ricomparso sulle pagine di
FB e mi ha chiesto la consueta amicizia digitale.
Mi è già successo tante volte,
come a tutti, e questa possibilità è certamente un importante bonus di questa
tecnologia che favorisce contatti, incontri, nuove conoscenze, dialogo e socialità,
sia pure con le dovute attenzioni e precauzioni.
Lo è un po’ meno, quando,
attraverso gli stessi meccanismi, si viene a conoscenza di notizie molto meno
liete o della scomparsa di persone amiche che, a vario titolo, hanno
attraversato e incrociato la nostra vita e poi, nel tempo, si sono dissolte
nelle ignote strade del mondo, del tempo e del caso.
Quella volta, per fortuna, mi
ha cercato e contattato, con reciproco piacere, il vecchio amico detto Juan,
con il quale ho condiviso molti anni della giovinezza, di musica, bisbocce ed
avventure varie (fu anche attore-caratterista
nel mio film sperimentale, da cui il suo nome d'arte).
Scanzonato, fantasioso, fuori
dal coro, un po’ hippy, un po’ figlio dei fiori e un po’ espressione di
quell’utopia, che nella seconda metà degli anni Sessanta, proponeva un modello
di vita alternativo, contestando in modo non violento la società dei consumi e
la cultura di massa.
Juan non amava molto regole e
vincoli, sia affettivi che di lavoro, si accontentava dell’essenziale, non
aveva pretese, né mire di ricchezza o di successo. Aveva scelto, fin da allora,
di vivere con poco, alla giornata, ma soprattutto libero, tra femmine, chitarre
e due - tre camicie quadrettate.
Anche nella maturità non ha
mai rinnegato questa sua filosofia esistenzial-minimalista ed è rimasto fedele
ai suoi principi, come ho potuto verificare quando poi l’ho incontrato.
In quegli anni, un po’ tutti –
chi più, chi meno – ci caratterizzavamo esteriormente nel modo di vestire
vivace, informale e approssimativo, sia nei colori, che nello stile, freak e
sessantottista. Figli della beat generation in campo culturale, politico,
soprattutto, musicale. Ho ancora il mio vecchio eskimo nell’armadio.
Ci siamo ritrovati e
riabbracciati con gioia e con affetto, come se quel tempo non fosse mai
passato, e ci siamo reciprocamente raccontati. Lui era rimasto uguale, con lo
stesso spirito, la sua aria casual e la stessa voglia di cantare le sole note
della sua libera canzone: tra atarassia epicurea, utopia idealista e anarchia
romantica.
Poi, mi ha invitato a
partecipare a un incontro–dibattito, fra amici e conoscenti, per discutere
liberamente su un tema di attualità, come amava fare almeno una volta al mese.
Ho accettato con piacere:
abbiamo parlato di migrazione-evoluzione, con digressioni inevitabili su
argomenti a lato o, casualmente, emersi o rilanciati all’attenzione di
ciascuno.
Un modo sano per tener
allenato il cervello, per riflettere a voce alta, per non sprecare giudizi e
considerazioni, per confrontarsi con le idee altrui e col pensiero dominante e
omologato, imposto da un certo potere e dalle sue grancasse mediatiche. E,
anche, a dirla tutta, per espellere qualche tossina di troppo, accumulata nel
Web.
Un bel salottino semplice e
spontaneo, fatto di persone intelligenti ed ospitali.
Dopo questo primo incontro,
molto interessante e soddisfacente, ce ne furono altri.
Ma col passar del tempo,
l’amico Juan, come nel suo stile e nella sua storia, è sparito ancora, non si è
fatto più sentire, né vedere. Si è eclissato nel suo mondo etereo, impalpabile,
evanescente.
Come una irraggiungibile,
effimera meteora.
29 febbraio 2020 (Alfredo
Laurano)
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