Lapidi sfregiate e imbrattate, corone incendiate, memorie
offese e vilipese, cortei marziali e disgustosi teatrini di insana nostalgia:
una vile escalation di atti vandalici che si ripetono ogni 25 aprile,
anniversario della Liberazione.
Oggi, per pandemiche ragioni, non sarà forse così. Ma
restano le parole, le dichiarazioni ipocrite, le condanne sotto traccia e la
voglia di cancellare questa data.
E meno male che, secondo molti, il fascismo non c’è più, è
solo pregiudizio, è solo fantasia, folklore, un fenomeno archiviato dalla
Storia.
A molti giovani non interessa nulla: “è una cosa troppo
politicizzata che non mi appartiene”, dicono molti qualunquisti. E’
assolutamente grave e triste: non sanno nemmeno che cos’è e cosa si festeggia in
questa data. Basta ascoltare qualche incredibile risposta che fa accapponar la
pelle.
Il 25 aprile, tuttavia e comunque la si pensi, vive e
sopravvive, come giorno della memoria: per non dimenticare, per celebrare la
fine dell’occupazione tedesca in Italia, del regime fascista, della seconda
guerra mondiale e la vittoria delle forze che hanno partecipato alla
Resistenza. Anche in assenza dei partiti che quella lotta animarono, e che oggi
non ci sono più, e in presenza dei pochissimi partigiani ancora in vita. Anche
se la Sinistra è in profonda crisi, anche se il ruolo della Resistenza nella
vita pubblica italiana è sempre più marginale, desueto o superato.
Il 25 Aprile aiuta a non sottovalutare mai questo pericolo
sempre possibile e incombente: un fenomeno nazionalista, antiliberale e
antimarxista, imperialista e razzista che si chiama fascismo, nei suoi rinnovati
abiti, nei suoi diversi travestimenti, nelle sue diverse proposizioni storiche
e temporali.
“Ogni tempo ha il suo fascismo”, scriveva Primo Levi, uno
che se ne intendeva, suo malgrado e per costrizione e necessità.
Mentre i tedeschi devono ancora metabolizzare la grande,
infinita vergogna che si portano dentro e non hanno di che commemorare, se non
la nascita e la morte di Hitler e l’orrore dei campi di sterminio, non basta a
nessuno voltare tantissime pagine di sangue e atrocità per guardare
candidamente al futuro. Il passato, l’infamia, l’obbrobrio e la Storia non si
cancellano. Non si cancella la memoria.
A settantacinque anni dalla Liberazione, la Resistenza non
è ancora diventata patrimonio comune, una data storica di tutti gli italiani da
celebrare, con spirito di pace e gratitudine, per ricordare chi seppe
combattere e resistere, sacrificare la propria vita e versare il proprio
sangue.
Resta un tema fortemente strumentalizzato e capace ancora
di dividere.
Forse perché siamo abituati all’iconografia di una lotta
armata e ideologicamente strutturata. All’ immagine, mitica e romantica, dei
ribelli, con i mitra in pugno, un nome di battaglia, i fazzoletti al collo e
Bella Ciao.
Ma la Resistenza non è stato solo questo.
Soldati, studenti, preti, suore, operai, intellettuali,
ragazzi, anziani, casalinghe, contadini: sono tanti e diversi i protagonisti e
le storie: la Resistenza è il drammatico racconto della vita di una comunità
intera, non l’epopea di un’esigua minoranza o dei soli partigiani.
Di migliaia di italiani che, anche se non sono saliti in montagna,
anche se non hanno sparato al nemico nazista o fascista, hanno compiuto atti di
valore, di sacrificio, hanno contribuito con la loro azione umile, ma decisiva,
al riscatto di un’intera comunità nazionale.
È la ribellione di uomini e donne comuni, di classe
sociale, idee politiche e religiose diverse, uniti dalla comune volontà di
lottare per la libertà. Non un’antologia di eroi, ma di tante storie di piccoli
e grandi atti di eroismo, che hanno costituito la tragedia di una nazione
chiamata a reagire, spontaneamente, nel momento più difficile della sua storia.
Per cogliere lo spirito autentico della Resistenza, bisogna
uscire dallo schema rigido di quell’immaginario retorico, di parte e di
tradizione, che ha accreditato l’idea di un movimento partigiano totalmente
egemonizzato dai comunisti e dalla guerriglia, per ascoltare voci diverse,
quelle più acute e quelle più sommesse, che alla fine compongono un unico canto
corale da tutti intonato.
Senza santificarla e senza reticenze sulle pagine oscure
che pure l’hanno macchiata, la Resistenza è stato il grande romanzo
dell’esistenza precaria, della solidarietà, del coraggio, della speranza sulla
disperazione.
Dai fratelli Cervi, alle strage di S. Anna di Stazzema,
dall’orrore di Marzabotto, ai trucidati alle Fosse Ardeatine, fino a Salvo
D’Acquisto, alle tante donne torturate e violentate e alle infinite vittime
civili, catturate in rastrellamenti o rappresaglie, ed eliminate in una
spietata politica del terrore.
Tutto ciò, se osservato con onestà e schiettezza, rende più
vivido e realistico il concetto di lotta di liberazione: la sfida
dell’altr’Italia unita.
La possibilità di riconoscersi in una storia comune non
dovrebbe, in teoria, essere difficile. Se non altro per rispetto e gratitudine
verso i tanti piccoli e umili eroi che si sono sacrificati per noi e per la
libertà.
La Resistenza non è il retaggio di una fazione, è un
patrimonio sacro di un popolo e della nazione. Anche di coloro che non lo sanno
o non l’hanno ancora capito.
25 aprile 2020 (Alfredo Laurano)