mercoledì 28 febbraio 2018

L'ATTESA, LO SCONFORTO

In tanti siamo stati con il fiato sospeso, abbiamo atteso con un minimo di speranza un epilogo diverso e positivo del dramma che si stava consumando a Cisterna di Latina, dalle cinque di questa mattina. Abbiamo partecipato con tutta la nostra emotività, ci siamo illusi che la disperazione non arrivasse a tanto.
Dopo lunghe ore di intense, quanto inutili trattative, nelle quali i “negoziatori” avevano cercato di convincere il carabiniere - che aveva già sparato alla moglie e si era barricato in casa - a desistere e arrendersi, hanno fatto irruzione per scoprire quel che tutti temevamo: aveva ucciso nel sonno, fin dalla mattina, le sue due figlie di otto e quattordici anni e si era da poco suicidato.

E la lunga, infinita, angosciante attesa in un attimo è cessata, ha scritto la parola fine, ha lasciato il posto al pianto e all’incredulità, al dolore collettivo di tanta gente e genitori.
Una speranza delusa, un’ennesima tragedia della follia umana, compiuta in nome di una insana teoria del dominio e del possesso, che non ammette rinunce e fallimenti, che distrugge l’esistenza e cancella la vita propria e di chi è più caro, insieme a ogni altro sentimento. 
Povere creature, a cui è stato impedito di svegliarsi e, forse, di capire. 
(Alfredo Laurano)


LA CUCCAGNA


Da Pianto Antico, l’albero a cui tendevi la pargoletta mano, a quello della vita di Expo2015, passando per la quercia e per l’ulivo. Dal verde melograno, da' bei vermigli fior, a questo Albero azzurro delle libertà o dei desideri.
Che, poi, è come quello della Cuccagna, dove tanto si cucca e ognuno ci magna e ci guadagna: prosciutti, salami, pensioni, reddito, niente tasse, cchiù pilu pe’ tutti e zucchero filato.
È un gioco popolare ambito che sopravvive nelle sagre di paese.
Ad Arcore, questi arbusti della felicità nascono spontanei nelle strade e nelle ville, come nello stesso paese di Cuccagna, luogo ideale e favoloso, ricordato nei testi di ogni epoca, fin dal Medioevo.
Lì, il benessere, l'abbondanza, la gnocca e il piacere sono alla portata di tutti: c’è ogni ben di Dio ed è ricco di cose buone e di facile godimento, secondo un rito popolare che si rinnova nel burlesco.
"Il nostro programma - dice Berlusconi-Laqualunque, ormai venerato come santo - l'ho rappresentato graficamente, in modo semplice e chiaro, nell'Albero della Libertà.
E' un bell'albero, che ho disegnato in una notte insonne.
Affonda le solide radici nei nostri valori cristiani e liberali, ogni ramo, una voce del programma di Forza Italia per la prossima legislatura. Lo regalo a tutti gli italiani, arriverà nelle case di tutti.”
E noi lo pianteremo e ci faremo l’altalena o, se si secca per vergogna, legna per il camino.  (Alfredo Laurano) 



lunedì 26 febbraio 2018

SE CE LA FATE

Ci vuole una gran forza, un gran coraggio e molto stomaco per guardare queste immagini e questi video. Ripeto, solo per guardarle, da lontano, al sicuro, dalle nostre calde case, magari, sorseggiando un the. Non riusciamo neanche a immaginare cosa stia provando davvero quella gente, stuprata anche nella coscienza, privata della propria dignità, distrutta, umiliata, bombardata e uccisa. Cosa significhi per loro il senso della vita che equivale solo a difficile sopravvivenza, di giorno in giorno, di ora in ora, scrutando il cielo e l’orizzonte.
Umanità violata, volti segnati dalla paura e dal dolore, morte ad ogni angolo di strada, la tragedia siriana è una tomba che racchiude oltre 450mila persone, in maggioranza civili, vittime di una guerra giunta al suo settimo anniversario.
Fuoco, fiamme, polvere, detriti e distruzioni. Città fantasma, case crollate, strade sommerse da pietre e cemento, niente rifugi, niente cibo, niente acqua. Ospedali fatiscenti, o quel che ne rimane, senza farmaci e personale medico, trasformati in obitori. 

Relitti umani, corpi tra le macerie, urla di donne e uomini feriti, madri e padri disperati, bambini uccisi e accatastati, avvolti in lenzuoli bianchi col fiocchetto o terrorizzati e insanguinati in mezzo alle rovine.
E le bombe continuano a cadere come pioggia, in un paesaggio surreale, in una dimensione senza tempo.
Lo sterminio continua tutti i giorni, nell’indifferenza del mondo che lo guarda sul web e alla TV. Il film dell’orrore ci colpisce quando riusciamo con fatica a vederlo con i nostri occhi. Ma poi prendiamo il telecomando o apriamo un’altra pagina più rassicurante.

L’uomo è l’unico essere animale dotato di parola e raziocinio, è il solo ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del piacere e del dolore, dell’utile e del dannoso. Ma allora, cosa spiega o giustifica la sua ferocia contro gli altri uomini, la sua crudeltà contro altre creature viventi? L’egoismo innato e l’egotismo, la dimostrazione della propria individuale superiorità, la sete di potere e di ricchezza, la voglia o l’esigenza di dominare tutto ciò che lo circonda?
Ma se l’uomo conosce tutti questi significati, perchè compie lucidamente il male?
Forse perché uccide per piacere, per perversione, per godere del proprio sadismo. 
Sono sconvolto
26 febbraio 2018 (Alfredo Laurano)

FIOCCHI CAPITALI

Come previsto, Burian è arrivato anche nella capitale: da un paio d'ore, sta nevicando a Roma.Dalle mie finestre, tutto bianco nel silenzio della notte.Scuole chiuse e riduzioni di bus: saranno circa 120 le linee che saranno attive in città sulle direttrici più strategiche. I mezzi circolanti sono quelli dotati di gomme termiche. La rete metro ferroviaria, sarà invece regolarmente in funzione.





domenica 25 febbraio 2018

IL ROSARIO DI MARCO


Mancano solo sessanta giorni alla sentenza Vannini.
Ne mancano cinquantanove…cinquantotto…siamo a meno cinquantasette…
Come in un’antica, esasperante litania, recitata tutti i dì, contando fra le dita i grani di un rosario laico, che, in teoria, scandisce la speranza di giustizia.
Una profana preghiera, una terapia cronica o un’ambigua medicina, caro amico Marco De Rubeis, che non mi sento di condividere, nei modi e nel principio, perché non esprime solo una legittima attesa, non è il persistente countdown della speranza, come traspare dalle tue pur lodevoli intenzioni, dalla tua assoluta buona fede e onestà intellettuale, di cui non è lecito dubitare.
Perché segna, evoca e soddisfa un rito fortemente ansiogeno e giustizialista, che esalta le tante sedimentate particelle d’odio latente in una comunità ferita, a stento e con difficoltà sopite, che riemergono alla prima occasione, che riecheggiano ad ogni spunto di cronaca o di richiamo TV.
Un conto alla rovescia, incessante e reiterato, che non fa bene a nessuno, anzi sovraccarica di significati estranei all’idea di giustizia, avvicinandoli a quelli di vendetta, senza aggiungere valori e qualità al conto della coscienza collettiva e di ciascuno.
L’attesa di una sentenza giusta non può e non deve essere un’eccezione, una possibilità eventuale o una speranza, né una battaglia condotta in nome del rancore e del disprezzo o di un sommario credo popolare, ma la normale espressione del diritto e della civiltà.
 (Alfredo Laurano)





E’ ARRIVATA LA BURIANA


Molti ricorderanno l’allegra filastrocca, dei primi anni sessanta, cantata da Renato Rascel: "È arrivata la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male / e chi sta come gli par", che, quando fu composta (1939), voleva velatamente sdrammatizzare la possibilità di un nuovo conflitto bellico in Europa. Oggi quella bufera, ma solo in senso meteorologico, sta arrivando di nuovo e non è la prima volta.
Da domenica prossima, gelo, fitte piogge, vento forte e copiose nevicate, anche in pianura, si abbatteranno in buona parte d’Italia, nord e centro in particolare, comprese le Marche e le regioni adriatiche. Qualche spruzzata di bianco potrebbe cadere anche su Roma e il litorale laziale.
Quest’aria fredda di origine siberiana, che alcuni chiamano Burian, altri Buran, viaggiando a 100 km/h tra steppe, monti, valli, fiumi e laghi e gelando qualsiasi cosa incontri lungo il suo percorso, occuperà i nostri spazi e i nostri cieli, restandovi per diversi giorni, anche se non è certo una novità.
Il termometro inizierà a scendere sotto zero, appunto, nella giornata di domani 25 febbraio e le massime non arriveranno oltre i 2 o 3 gradi, tanto da risultare molto inferiori alle medie climatiche di periodo, anche di 10-15 gradi.
Secondo i meteorologi sarà una delle più potenti incursioni del temibile Burian degli ultimi 20 anni.
Il suo nome è collegato a radici popolari-linguistiche che si rifanno a Boreale.
Da secoli, il gergo popolare marchigiano ha assimilato la locuzione russa Burian, indicando con il termine dialettale Buriana la classica bufera portata dal gelido vento di Nord-Est, proveniente dalla lontana Siberia.
A Trieste ed in Friuli, viene chiamata Bora, derivando tutti dal latino e dal greco "boreas", "settentrione", che sul mare, poi, diventa burrasca, dal veneto "borasca". Come il francese "Mistral" deriva dal Maestrale, cioè il vento maestro o principale.
A differenza dell’agricoltore Giovanni della Val d’Ossola - che spavaldamente si definisce amico del freddo e che vive in casa e fuori, in maglietta corta e a piedi nudi, con le finestre sempre aperte anche d'inverno, quando il termometro è intorno a zero gradi - non resta che coprirci, scaldarci e vestirsi a cipolla e, soprattutto, dare aiuto e riparo ai tanti senzatetto che vivono per strada. Può bastare anche una semplice telefonata per segnalare alle strutture pubbliche chi è in difficoltà.
Comuni, associazioni e volontari, pare, stiano organizzando misure straordinarie per far fronte alla prevista ondata di gelo con ripari utili, con posti letto, pasti caldi, coperte e autobus solidali, anche se tutto ciò risulta alquanto precario e insufficiente e non affronta questo triste problema alla radice.
In una società civile, la condizione di quelli che vengono chiamati barboni, clochard o invisibili, spesso oggetto anche di brutali atti di violenza e di macabri giochi da parte di esseri miserabili, è sempre sotto gli occhi di tutti, col freddo, col caldo o con la pioggia.
La loro sorte di emarginati per scelta, per miseria o per destino, non può e non dovrebbe essere legata soltanto all’emergenza, a gesti di altruismo e all'assistenza volontaria della cittadinanza, ma è un disagio da risolvere con un incisivo piano d'intervento istituzionale.
23 febbraio 2018 (Alfredo Laurano)

mercoledì 21 febbraio 2018

SCIACCA: MORTE DA CANI


Non sapevo di questa orribile strage di cani avvelenati (una quarantina), consumata a Sciacca, in questi giorni, da ignoti assassini delinquenti. Un atto gravissimo di crudeltà gratuita, in disprezzo del mondo animale.
Ma sono gravi e inaccettabili anche le accuse al popolo di Sciacca di inciviltà e ignoranza e, soprattutto gli atti intimidatori, le tante minacce e gli insulti contro la sindaca, ritenuta da molti “talebani”, presunti animalisti, responsabile morale della carneficina, per non aver saputo garantire il benessere dei randagi presenti sul territorio comunale e tutelare la loro salute ed incolumità. “Brutta schifosa maledetta… crepaaa…pezzo di fetente tu e tutta la famiglia… la pena di morte a te, brutta stronza di merda… sono solo alcune espressioni di quei barbari integralisti.
Sui social e sulla stampa, come sempre, cresce e si diffonde l’istigazione all’odio, a prescindere, nei confronti di chi ha cariche amministrative e colpe tutte da dimostrare. “Un delinquente spregevole ha ucciso tanti cani randagi - scrive la stessa sindaca - e orde di sedicenti amanti degli animali fanno a gara nel lanciare gli strali più avvelenati. E si professano civili, sensibili e, quindi, indignati si prodigano ad avvelenare una regione, una città, una comunità, una persona che non conoscono affatto. In queste ore mi è arrivato di tutto, anche l’augurio di morire insieme ai miei figli...Chi ama gli animali non può non rispettare gli uomini”.
Intanto si stanno raccogliendo le firme per far annullare la tappa del Giro d’Italia lì prevista, il 9 maggio prossimo, per indegnità civile e sportiva espressa dalla disgustosa mattanza, ma anche, a mio avviso, ingiustificata punizione di una incolpevole, intera comunità, di un ambiente e di persone. Qualche imbecille scrive: “non andate in vacanza in Sicilia”

Ferma la condanna per la vile azione, il dramma del randagismo in alcune aree della Sicilia, stando alle testimonianze di chi lo vive in prima persona, sarebbe arrivato a livelli di allarmismo inimmaginabili. Non si può uscire di casa a piedi, nemmeno per fare quattro passi, perchè i branchi sono affamati e quindi pericolosissimi!
Nemmeno in automobile, pare, si stia tranquilli: i randagi cercano di assalirti, urtando la vettura, con il rischio di sbandare per evitare di investirli, tanto sono aggressivi!
Purtroppo le autorità locali fanno poco e alcuni esasperati arrivano a commettere atti di ferocia come questo, ingiustificabili, folli e macabri.
Non è uccidendoli che si risolve il problema dei cani randagi.
Dopo tanta spietatezza, la questione dovrà essere affrontata con più attenzione, cercando una soluzione che tenga conto della vita di questi poveri animali e della sicurezza dei cittadini. Prevenzione, canili, campagne di sterilizzazione e di sensibilizzazione, come accade in altri comuni italiani che intendono percorrere la strada della civiltà.
19 febbraio 2018 (Alfredo Laurano)

martedì 20 febbraio 2018

L’AMORE SECONDO MONTALBANO


In apertura, l’amore come incubo: il matrimonio di Montalbano con Livia, in riva al mare, sotto un gazebo.
Poi, inizia una bella e triste favola d’amore, raccontata su due piani, attraverso due situazioni emotivamente forti, piene di passione e in diverse dimensioni spazio-temporali, cui si unisce, come terzo effetto derivato, l’inedita gelosia del commissario, che quei fatti vanno a motivare.
Da una parte la tenerissima storia dei due anziani attori che, mettendo in scena - in chiave teatrale e non poteva essere altrimenti, data la loro professione - la prova generale della loro morte, rivelano l’intenzione di non voler l’uno sopravvivere all’altro, perché andarsene insieme non è molto probabile che accada.
Dall’altra, la vicenda tragica della bellissima e sfortunata Michela, che ha incontrato uomini sbagliati, che l'hanno violentata, umiliata e sfruttata, fino a farla diventare una prostituta. Cacciata dalla sua famiglia, col tempo è riuscita a risollevarsi, si è rifatta una vita e ha trovato l'amore totale e incondizionato.

Indubbiamente affascinante l’intreccio che scava, come sempre, nei meandri più intimi e personali dell’animo umano, senza limiti di età, di tempo e condizione, ma inspiegabile e non necessario, a mio avviso, è il sacrificio più che romantico della ragazza che si uccide, avvelenandosi, per rimuovere le ossessioni del suo passato e del suo compagno e per donargli - proprio nel momento che quell’amore ha finalmente trovato - qualcosa che non aveva mai dato a nessuno: la sua stessa vita. Manco fossero Romeo e Giulietta in veste siciliana nell'archetipo dell'amore perfetto e impossibile.

Amore estremo, possesso e gelosia, quindi, alla base dell’adattamento televisivo "Amore" di ieri sera su Raiuno (non ho letto le stesure originali dei romanzi)  che, al di là dell’eccellente interpretazione di tutti, delle caratterizzazioni, della suggestive ambientazioni, dei dialoghi efficaci, non mi ha convinto per due ragioni: 
- l’improbabile sentimento di gelosia, indotto strumentalmente da una provocatrice Livia e scaturito anche dall’ iniziale incubo nuziale, che si riflette in Montalbano; 
- e soprattutto l’eccessiva sovraesposizione del personaggio Catarella, sempre più assurdo, stravagante e surreale e sempre più caricatura di se stesso, che per devozione assoluta al suo “dottore”, sparisce, si dimette, si ritira in campagna a sbucciar patate e sviene di paura. Tutto ha un limite!
Anche le fiction più fantasiose segnano un confine di credibilità.
20 febbraio 2018 (Alfredo Laurano)



CI PENSO IO


Per fortuna o per cultura, per storia o per destino, non siamo (ancora) come l’America, dove si consuma, di media, una strage al giorno di studenti e professori nei college o nei campus universitari. Nel Colorado, nel Connecticut, in Oregon, in Florida o dove capita.
Nelle nostre scuole, per il momento, si aggrediscono, si insultano e si picchiano solo gli insegnanti, tutt’al più i vicepresidi o il personale paradocente, a pugni, calci e costole rotte. Forse perché le armi, da noi, ancora non si vendono al supermercato o all’emporio cingalese sotto casa.
Ma non sono sempre o solo gli studenti a farlo.
Per lo più, i giovanissimi, i gruppetti e le baby gang ci pensano da soli, reciprocamente, ad esercitare un po’ di sana violenza, a perseguitare, minacciare, irretire, brutalizzare - in un solo orrendo neologismo, “stolkizzare” - i loro stessi coetanei, col bullismo di strada, di classe e telematico. Ricorrendo, cioè, a piccole vessazioni quotidiane, abusi e prepotenze che, a volte, però, possono trasformarsi in pericolose azioni di vera infamia e sciacallaggio sociale, con conseguenze drammatiche e imprevedibili.
Dare libero sfogo alle loro maligne pulsioni adolescenziali li aiuta a crescere, a farsi i calli e le ossa, a prepararsi alle regole ciniche della società dei grandi. Una sorta di perfido tirocinio, di allenamento alle sfide, cruenti e impietose, sul ring della malvagità globale degli adulti.
Ma, se per caso qualcuno li rimprovera, li invita a rispettare gli altri o si permette di ricordare le regole di civile convivenza in una comunità, per loro conto e a loro immediata difesa, si ergono, infatti, con arroganza barbara, i propri padri paladini, gravemente offesi nel ruolo e nell’onore, come accadeva un tempo per corna e i tradimenti. Prodi cavalieri senza macchia e senza paura, pronti a lavar col sangue colpe, vergogna e disonore.

Tutti ricordiamo che, in questi casi e in epoca non lontana, tornati a casa si prendevano sberle e resto dai genitori, per aver solo risposto con poco rispetto al maestro o al professore. 
Per mia fortuna, ho fatto questo nobile e difficile mestiere per pochi anni e, soprattutto, molto tempo fa.

Le motivazioni delle tante aggressioni a danno di docenti, messe a segno di recente nelle scuole di Catania, Cagliari, Foggia, Vicenza e tante altre da tali giustizieri di anomala famiglia, che hanno frainteso il proprio ruolo di protettore con quello di Zorro o Robin Hood, non solo a Carnevale, sono ridicole e inesistenti. Mancano di una qualsiasi causa scatenante, se non quella di un semplice richiamo. Perché “mio figlio non si tocca, non si offende, non si umilia in pubblico”, pensano costoro che ritengono di dover vendicare e l’offesa e l’onta familiare.
Ma non sanno che, al contrario, tali atteggiamenti punitivi, tali risposte rabbiose e velenose, indotte da un presunto oltraggio al proprio supposto prestigio, sono sintomi di gretta ignoranza, di incompatibilità sociale e di esagerata autostima. Rivelano una mancanza di equilibrio, un disordine etico e valoriale, come una sommersa boa, naufragata nel mar dell’insipienza
Non sanno e non sospettano nemmeno che questo loro agire, non aumenta il loro credito o salva la loro dignità. Denuncia soltanto una primitiva brutalità che supplisce a quella autorevolezza che pretendono di dimostrare, ma che non hanno.
Se proprio volete prendervela con qualcuno della scuola, fatelo con la dirigenza del Liceo Visconti di Roma, che si fa vanto e pubblicità (classista), affermando che lì son tutti sani, bianchi e belli: “non ci sono poveri, né disabili, la percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente, gli studenti sono italiani (di pura razza) e provengono da famiglie alto borghesi.” 
E tanto vi basti e vi avanzi, cari padri vigilanti, per i vostri sfacciati esercizi di impudenza. 
19 febbraio 2018 (Alfredo Laurano)

sabato 17 febbraio 2018

SINOSSI SANREMESE

A conti fatti, non solo musica e testi che raccontano favole e poesie, leggende quotidiane e metropolitane. Anche lacrime e monologhi, risate e imitazioni, ospiti e super ospiti, duetti e medley di indubbia qualità. E sullo sfondo, le mitiche scale in edizione post moderna.
Dalla scimmia nuda balla dell’altr’anno, alla vecchietta che in minigonna, pure, balla, fino alla sognante o imbambolata Ornella che ancora egregiamente canta, con l’orchestra tutta in bianco.
Dall’etologia canora al successo della gerontofilia da festival.
Senza dimenticare la genialità di Fiorello e Virginia Raffaele, la comicità surreale di Frassica, il sorriso svizzero e stampato di Michelle, le emozioni forti di Favino, l’intima freschezza di Mirkoeilcane, l’importanza del sale di Barbarossa, la presenza velata di Dalla, attraverso Ron, la sensibilità e la competenza del “dittatore” artistico, tirato e ritoccato, con i capelli bianchi e la faccia da bambino.
Una recita riuscita, un evento atteso e popolare, un rito onorato e celebrato, considerando anche quanta banalità e spazzatura c’era e c’è ancora intorno.
12 febbraio 2018 (Alfredo Laurano)


I VIZI DI FABER


Più che quella di un artista, di un poeta, di un musicista che ha segnato un’epoca, il film “De André-Principe libero” sembra la storia di un alcolizzato, con la bottiglia sempre in mano e la sigaretta sempre in bocca. Ripeto, sempre, in ogni scena, in ogni inquadratura, in ogni occasione, in esterno o all’interno, in casa, a letto, al mare, nei locali.
Soprattutto quel fumare compulsivo, quella droga senza pause, si fa dipendenza per raccontare, oltre la realtà, un vizio all’infinito di Faber, principe libero. Di bere e di fumare, neanche fosse questo il messaggio di fondo o il fil rouge del racconto.
Un’esagerazione fastidiosa che si fa ossessione e ossessiona lo spettatore.
Canzoni, ballate, versi e chitarra si inseriscono a fatica tra quelle immagini indisponenti.

E’ vero, per fortuna, c’è dell’altro.
Ci sono anche i pensieri, i dubbi, le passioni, nonché le signorine amorevoli e compiacenti della città vecchia, a tracciare la vita complessa e contraddittoria di Fabrizio De André, tra lusinghe anarchiche, voglia di libertà, tematiche esistenzialiste e timidezza, causa primaria del suo abuso di alcol.
C’è l’uomo alla continua ricerca del suo equilibrio, sempre combattuto fra obblighi familiari, sociali e di lavoro. In bilico tra forza, fragilità, debolezze e paure da palcoscenico, che supererà solo con gli anni, cantando sempre nella penombra e con molto whisky in corpo. C’è il giovane, il figlio, l’amico e il sottile rapporto con il padre, col quale condivide, nella propria individualità, il senso di responsabilità.
C’è certamente il suo lato umano e passionale, l’amicizia con Tenco, Villaggio e col poeta Mannerini, la sensibilità di chi guarda agli ultimi e ai diversi: la memoria collettiva lo ricorda come "il cantautore degli emarginati" o il "poeta degli sconfitti"
Ma c’è forse poco, o non a sufficienza, del suo profilo artistico, poca Genova, poche atmosfere, poca complicità a caratterizzare un poeta sublime e un cantore di rara bravura, attento al sociale, alla pace, alla non violenza.
Il film, sicuramente per scelta narrativa, si focalizza sul De André uomo e meno sull’artista. Viene dato molto spazio ai rapporti parentali, ai turbamenti sentimentali, alle lunghe fasi del rapimento, ma poco alla sua poetica, alla sua ricerca.
Come ricorda Walter Pistarini - appassionato e massimo esperto “deandreano” - viene raccontato che ha avuto successo, ma non si capisce perché: sembra quasi che gli sia piovuto dal cielo. C’è qualche accenno al suo amore per la poesia, ma manca, ad esempio, la sua meticolosità, la sua caccia spasmodica alla parola giusta nei testi, corretta, ma non banale e per di più facilmente comprensibile. Non appare il bisogno della perfezione.
“Principe libero” racconta molto dell’uomo Fabrizio, ma poco della genialità che lo ha reso figura fondamentale nella storia della musica d’autore italiana. Un artista unico che ha spaziato dai Vangeli Apocrifi al Sessantotto, dalla Letteratura alla Storia, dalle prostitute di Via del Campo agli Indiani d'America. Non c'è tema che non abbia affrontato nella sua lunga parabola musicale.
Amato e odiato, da cantautore “di nicchia” a poeta visionario, capace di interpretare con alcune sue metafore il cambiamento dei tempi.  Un artista mai banale e ripetitivo, anche se amava definirsi un cantautore "dalle pochissime idee... ma in compenso fisse".
In un film pur tecnicamente valido - perfette ambientazioni, regia attenta, cura della fotografia, dei dettagli e degli interni - e molto ben interpretato dal protagonista Luca Marinelli e da tutti gli altri attori, la colonna musicale la fa ovviamente da padrona, pur sullo sfondo della vicenda.
Fino al finale, sorprendente e surreale - in verità un po’ troppo prematuro in una sorta di coitus interruptus, fortemente emotivo - dove tutti i personaggi siedono in un immaginario teatro, come in un’ideale famiglia allargata, mogli, figli, amici, critici e Faber compreso, ad ascoltare e applaudire lo stesso Faber, originale, che canta dal vivo Bocca di Rosa.
Secondo Nicola Piovani, “De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano.
 (Alfredo Laurano)



giovedì 15 febbraio 2018

MA MI FACCIA IL PIACERE!


E’ mai possibile, come ci dicono o ci vogliono far credere, che i sondaggi per lui siano tutti positivi e sempre in crescita? Che ogni giorno guadagni uno zerovirgolapercento?
Che un altro bel pacco di italiani, illusi e mai delusi, sostenuti da incrollabile fiducia, o per devozione e masochismo, siano ancora disposti a credere alle sue barzellette, alle sue promesse? Alla Flat tax al 15%, fissa per tutti, alla cancellazione del bollo auto, dell’Irap e Imu agricola, dell’Iva su trasporti e cibo animale e veterinario gratis ogni 15 giorni. Alle pensioni minime, tutte a mille euro, per tredici mensilità, da estendere anche alle casalinghe e all’abolizione di Equitalia.
Che siano tutti pronti a rivotarlo?
Ma l’avete visto il povero, patetico Silvio Berlusconi nel suo intervento fiume alla Confcommercio? Che si confonde, che dimentica, che inciampa in gaffe e strafalcioni, che rivendica di aver alzato le pensioni minime a mille lire, che sostiene che l'evasione fiscale in Italia ammonti a soli 800 mila euro (il doppio del Pil emerso che è di 1600 euro), che propone l'abolizione dell'Irpeg, che non c’è più dal 2004 (ora c’è l’Ires)?
Fa veramente pena il vecchio contafrottole e un misto di compassione e tenerezza. E gli consentono di umiliarsi.
Perchè nessuno interviene, nessuno lo ferma, gli dice qualcosa: un medico, una badante, la sua compagna? Ma la Pascale lo manda solo?

Sembra una statua di cera fuggita dal museo, un umanoide mummificato, con gli occhietti strizzati dalla chirurgia, che arranca coi foglietti in mano, un robot in doppiopetto, con le sembianze somatiche di un cinese, che parla a vanvera e sproloquia. Con fatica.
Gli ultimi suoi comizi, dice Michele Serra nella sua Amaca, rimandano più a Totò e Cleopatra che al Caimano. Nel Berlusconi odierno il tragico è come estinto, prevale una svampita approssimazione di cifre a caso, promesse assurde, vecchie battute da tabarin, vecchi fantasmi (comunisti e giudici), evocati ormai, quasi con cordialità.
Ora circola in versione amabile e senile e non vede l’ora di tornare a casa per togliersi quel cerone, spesso come un parquet.

E ieri sera, tanto per non smentirsi e con la consueta complicità della nota volpe Vespa - per opportunismo, e per l’occasione, più iena o più sciacallo - ha rifirmato un altro finto patto con gli italiani, sulla solita scrivania, sempre pronta all’uso e alla propaganda, nel bianco salottino istituzionale degli imbrogli e delle falsità.
15 febbraio 2018 (Alfredo Laurano)

Vedere per credere:

MONTALBANO, PUPI E COMPARI



Andrea Camilleri, Luca Zingaretti? I due, ormai, sono consustanziali, hanno cioè una sola e medesima identità, di natura e di sostanza, come le (tre) persone della Trinità, nella dottrina cattolica. Anche se la sovrapposizione più corretta sembrerebbe essere quella tra il commissario più amato dagli italiani e il suo straordinario interprete, questa è forse l’unica considerazione azzeccata (e condivisibile) da tale Davide Brullo - epigono o inconsapevole seguace del sedicente marchese Fulvio Abbate - che, come lo stesso, afferma che la falsa Sicilia di Camilleri non si sopporta più. E ci mette pure i carichi da undici!

Che i suoi libri sono un souvenir: dentro, in miniatura, c’è la città di Vigata. Se giri la palla cade una spruzzata di neve e si sente un tizio che dice: Montalbano sono!
Che sono l’idea piuttosto esotica e alquanto inautentica che, un americano di Dallas avrebbe dell’Italia, tutta pizza, mafia e mandolino. Un borgo siciliano ricostruito a Cinecittà (ma dove, ma quando?), in polistirolo, con qualche comparsa che getta là frasi in scombiccherato dialetto, più fittizio di quello ruminato da Montalbano. La scrittura di Camilleri è sempre una partita a bocce tra ottuagenari, un bignè al reparto geriatrico, ha il retrogusto della commedia all’italiana di serie B. I suoi libri sono così. Palle di vetro. Due palle così.
Prima di lui, del Brullo, un anno e mezzo fa, l’Abbate, suo predecessore e presuntuosissimo scrittore, che di acidità, invidia e rancore non poco se ne intende, aveva scritto, sempre su Linkiesta, che Camilleri è solo uno Sciascia decaffeinato che racconta una Sicilia da cartolina, in cui perfino la mafia diventa un souvenir, come il carrettino o la coppola o il grembiule con l’effigie di Marlon Brando nei panni del Padrino. Che descrive una Sicilia ridotta a macchietta, il suo dialetto è da pro-loco, da ente nazionale per il turismo e il suo successo è solo figlio di una bella produzione. Ecco su cosa si basa il successo del creatore del Commissario Montalbano.
Un bel duo di sputtanatori seriali, non c’è che dire!
Viene da chiedersi, e soprattutto da domandare a questi paludati critici e severi recensori - forse, più per invidia e per mestiere, che per competenza e obiettività - come mai anche ieri sera, come sempre, e come accade quando c’è una partita del Mondiale o il festival di Sanremo, oltre undici milioni di italiani (45,1% di share) si sono sistemati davanti alla TV per vedere il nuovo episodio di Camilleri-Montalbano? Per non soccombere, l’Isola dei Famosi, con tutta la sua spazzatura, è scappata dal lunedì e si rifugiata nel martedì.
Come mai milioni di stupidi italiani continuano a comprare e leggere i relativi libri? Perché tanto successo?
Perché è lecito pensare che, più che parlare di romanzi e racconti sceneggiati, di eventi televisivi ben confezionati, si è creato uno spontaneo e ciclico rituale nazionale, con consenso consacrato da vent’anni, che ha dichiarato amore per il vecchio nonno, saggio, Camilleri e una passione sfrenata per il suo Montalbano e i suoi collaboratori, con gli eccellenti Zingaretti, Bocci e Mazzotta sempre più veri, credibili e vicini al proprio personaggio, da far confondere recitazione ed espressione di se stessi,  o da  insinuare in loro possibili problemi di riconoscibilità e di personale identità.
Ma anche, un’attrazione fatale per quelle storie, ingarbugliate e assai complesse, di donne, seduttori, rapimenti, ammazzatine, false piste, scanti, passioni e gelosie, per quelle atmosfere magiche e quegli ambienti affascinanti - tanto da percepirne quasi gli odori ed i profumi - nel solco della tradizione nazionalpopolare, dove la gente è leale e spontanea, dove trionfano i sentimenti sani e l’idea di giustizia e solidarietà, nell’immaginario collettivo di un popolo deluso e stanco degli orrori quotidiani.
Tutto ciò vuol dire, o mi sta a significare, che allora qualcosa di buono, di importante, di valore sociale e di spessore culturale, il bistrattato Camilleri ha suscitato!
Ha creato uno stile, un’etica profonda e di rispetto. Ha raccontato la quotidianità, la realtà, il male, ma anche l’amore e la bellezza, nelle sue diverse, infinite sfumature. Ha dato gloria e arte a una splendida terra, spesso volgarmente offesa e colpevolizzata, da abusati e circoscritti stereotipi, da pregiudizi scontati e stantii.
Non sarà Tolstoj o Pirandello, ma nemmeno un intrattenitore di boccaloni americani di Dallas o un modesto pittore di cartoline siciliane, che gioca a bocce con altri ottuagenari o mangia un’arancina o pasta ‘ncasciata, al reparto geriatrico dell’ospedale di Vigata.
Così, come pretende di dipingerlo qualcuno che non sa nemmeno tenere in mano i pennelli e la tavolozza di colori.
13 febbraio 2018 (Alfredo Laurano)