Più
che quella di un artista, di un poeta, di un musicista che ha segnato un’epoca,
il film “De André-Principe libero” sembra la storia di un alcolizzato, con la
bottiglia sempre in mano e la sigaretta sempre in bocca. Ripeto, sempre, in
ogni scena, in ogni inquadratura, in ogni occasione, in esterno o all’interno,
in casa, a letto, al mare, nei locali.
Soprattutto
quel fumare compulsivo, quella droga senza pause, si fa dipendenza per
raccontare, oltre la realtà, un vizio all’infinito di Faber, principe libero.
Di bere e di fumare, neanche fosse questo il messaggio di fondo o il fil rouge
del racconto.
Un’esagerazione
fastidiosa che si fa ossessione e ossessiona lo spettatore.
Canzoni,
ballate, versi e chitarra si inseriscono a fatica tra quelle immagini indisponenti.
E’
vero, per fortuna, c’è dell’altro.
Ci
sono anche i pensieri, i dubbi, le passioni, nonché le signorine amorevoli e
compiacenti della città vecchia, a tracciare la vita complessa e
contraddittoria di Fabrizio De André, tra lusinghe anarchiche, voglia di
libertà, tematiche esistenzialiste e timidezza, causa primaria del suo abuso di
alcol.
C’è
l’uomo alla continua ricerca del suo equilibrio, sempre combattuto fra obblighi
familiari, sociali e di lavoro. In bilico tra forza, fragilità, debolezze e
paure da palcoscenico, che supererà solo con gli anni, cantando sempre nella
penombra e con molto whisky in corpo. C’è il giovane, il figlio, l’amico e il
sottile rapporto con il padre, col quale condivide, nella propria
individualità, il senso di responsabilità.
C’è
certamente il suo lato umano e passionale, l’amicizia con Tenco, Villaggio e
col poeta Mannerini, la sensibilità di chi guarda agli ultimi e ai diversi: la memoria
collettiva lo ricorda come "il
cantautore degli emarginati" o il
"poeta degli sconfitti"
Ma
c’è forse poco, o non a sufficienza, del suo profilo artistico, poca Genova,
poche atmosfere, poca complicità a caratterizzare un poeta sublime e un cantore
di rara bravura, attento al sociale, alla pace, alla non violenza.
Il
film, sicuramente per scelta narrativa, si focalizza sul De André uomo e meno sull’artista.
Viene dato molto spazio ai rapporti parentali, ai turbamenti sentimentali, alle
lunghe fasi del rapimento, ma poco alla sua poetica, alla sua ricerca.
Come
ricorda Walter Pistarini - appassionato e massimo esperto “deandreano” - viene raccontato che ha avuto successo, ma
non si capisce perché: sembra quasi che gli sia piovuto dal cielo. C’è qualche
accenno al suo amore per la poesia, ma manca, ad esempio, la sua meticolosità,
la sua caccia spasmodica alla parola giusta nei testi, corretta, ma non banale
e per di più facilmente comprensibile. Non appare il bisogno della perfezione.
“Principe
libero” racconta molto dell’uomo Fabrizio, ma poco della genialità che lo ha
reso figura fondamentale nella storia della musica d’autore italiana. Un
artista unico che ha spaziato dai Vangeli Apocrifi al Sessantotto, dalla Letteratura
alla Storia, dalle prostitute di Via del Campo agli Indiani d'America. Non c'è
tema che non abbia affrontato nella sua lunga parabola musicale.
Amato
e odiato, da cantautore “di nicchia” a poeta visionario, capace di interpretare
con alcune sue metafore il cambiamento dei tempi. Un artista mai banale e ripetitivo, anche se
amava definirsi un cantautore "dalle
pochissime idee... ma in compenso fisse".
In
un film pur tecnicamente valido - perfette ambientazioni, regia attenta, cura
della fotografia, dei dettagli e degli interni - e molto ben interpretato dal
protagonista Luca Marinelli e da tutti gli altri attori, la colonna musicale la
fa ovviamente da padrona, pur sullo sfondo della vicenda.
Fino
al finale, sorprendente e surreale - in verità un po’ troppo prematuro in una
sorta di coitus interruptus, fortemente emotivo - dove tutti i
personaggi siedono in un immaginario teatro, come in un’ideale famiglia
allargata, mogli, figli, amici, critici e Faber compreso, ad ascoltare e
applaudire lo stesso Faber, originale, che canta dal vivo Bocca di Rosa.
Secondo Nicola Piovani, “De André non è stato mai di moda. E infatti
la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano.”
(Alfredo
Laurano)