venerdì 27 marzo 2020

QUANDO ERAVAMO UMANI /1999

In pochi giorni, il coronavirus, oltre agli effetti drammatici e devastanti della sua diffusione, ha cambiato la nostra visione del mondo. E, prima ancora, della realtà intorno a noi.
Ha ridefinito la nostra percezione del tempo e i ritmi della nostra esistenza.
Ha già destabilizzato il nostro equilibrio psicologico, demolito ogni sicurezza e messo a nudo la nostra precarietà, la nostra invincibile potenza di cartone.
Ha già sovvertito la nostra insolente superbia, impoverito la nostra protervia, delegittimato ogni forma di arroganza e tracotanza, alla marchese del Grillo del terzo millennio. Nessuno, ora, si sente più degli altri, o superiore, o indifferente e più sicuro. Meno, i soliti imbecilli che, di diritto, entrano nella conta.
Ha già travolto le nostre abitudini, i nostri orari, i nostri riferimenti sociali, di lavoro e anche affettivi. Il domani ci appare scuro, incerto, sospeso sulle nostre teste.
L'unica certezza è che questo tempo senza tempo durerà a lungo.

Occorre uno spropositato impegno per affrontare questa incredibile, inimmaginabile emergenza, facendo ogni giorno del nostro meglio, adattandoci, sostenendoci reciprocamente, anche con un gesto o una parola, lamentandoci meno e alzando il livello di energia e pazienza.
Ci vuole molto realismo perché la situazione è assai più che seria, ma prepariamoci a quando questa situazione finirà, se finirà.
Come diceva un mio amico, la prima cosa da fare sarà uscire di casa e chiedere al vicino se sta bene, se ha bisogno di qualcosa. Potremo goderci la primavera, uscire in bicicletta e respirare le nostre città, in cui l'isolamento forzato ha abbassato i livelli di inquinamento.
Dopo giorni e settimane di soli rapporti digitali, avremo la nausea del virtuale e la voglia di stare insieme. Di toccarci, di abbracciarci, di baciarci e stringerci le mani.
Di tornare finalmente a essere più sociali e meno social. Più solidali e meno indifferenti.
Come accadeva tanto tempo fa! Per un nuovo umanesimo, un’inedita spiritualità, un inconsueto, dimenticato, francescanesimo.
Vero, verissimo, magari!
Lo diciamo e lo speriamo tutti, adesso, perché siamo disperati, perché siamo sommersi nell'epidemia, perché non sappiamo che fine faremo, perché riusciamo ad apprezzare le cose quando ci mancano o le abbiamo perdute. Come la libertà, l'umanità, gli affetti, i piaceri, la bellezza, la leggerezza dell'essere contrapposta all'odio, al rancore e all'egoismo dell’avere.

E che sarà dell’inevitabile crollo dell’economia, della produzione, del turismo, dei consumi e del mercato, nei confronti di ogni singolo Paese? Come inciderà nel mondo del lavoro? Come si rifletterà su chi, non lavorando più (salvo la cassa integrazione e chissà per quanto) ha perso il reddito e l’attività e, tra un po', perdurando l’emergenza, non saprà come comprarsi da mangiare e mantenere una famiglia?
Lo Stato dovrà farsi carico pesantemente, se vorrà evitare il panico, le rapine, la rivolta popolare e la guerra civile. Non a caso, i lungimiranti yankee americani fanno già la fila davanti alle armerie.
Anche perché, per dare modo ai governi di combattere l’’epidemia, la Commissione Europea, per la prima volta nella storia, ha sospeso le regole del Patto di Stabilità, cioè l'accordo sottoscritto dai Paesi dell'Unione, per cui ogni Stato è tenuto a rispettare una serie di vincoli nelle politiche di bilancio, a partire dal deficit pubblico, che non deve superare il 3% del Pil.
Questo significa che i governi possono immettere nella loro economia tutto quello di cui hanno bisogno.
E dovranno sbrigarsi a farlo.
23.3.2020 (Alfredo Laurano)

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