sabato 31 marzo 2018

UOVA SPAZIALI


La sorpresa di domani, giorno di Pasqua, non sarà solo nel classico uovo di cioccolato, ma potrebbe venire dal cielo.
La stazione spaziale cinese Tiangong-1 è in caduta libera e nell'impatto con l'atmosfera andrà in pezzi. E’ possibile però che alcuni frammenti possano arrivare sulla terra ma, al momento, è impossibile prevedere dove.
Non è escluso che possano cadere sul nostro territorio, perché la zona a rischio è attualmente quella attraversata dal 43° Parallelo, un'area vastissima che comprende anche l'Italia, da Firenze in giù, fino a Sicilia e Sardegna: probabilità stimabile intorno allo 0,2%.
Solo da domani i calcoli degli esperti permetteranno le prime esclusioni e allora il cerchio comincerà a stringersi.
La previsione di rientro sulla terra della navicella è stimata quindi per domani, 1 aprile alle ore 11.26, ma è soggetta a continui aggiornamenti, perché legata al comportamento della stessa rispetto all’orientamento che assumerà nello spazio e agli effetti che la densità atmosferica imprime agli oggetti in caduta, nonché a quelli legati all’attività solare.

Sulla base delle informazioni diffuse dalla comunità scientifica, è possibile fornire alcune indicazioni utili alla popolazione affinché adotti, responsabilmente, comportamenti di auto protezione:
- è poco probabile che i frammenti causino il crollo di edifici, che pertanto sono da considerarsi più sicuri rispetto ai luoghi aperti. Si consiglia, comunque, di stare lontani dalle finestre e porte vetrate;
- i frammenti impattando sui tetti degli edifici potrebbero causare danni, perforando i tetti stessi e i solai sottostanti, così determinando anche pericolo per le persone: pertanto, non disponendo di informazioni precise sulla vulnerabilità delle singole strutture, si può affermare che sono più sicuri i piani più bassi degli edifici;
- all’interno degli edifici i posti strutturalmente più sicuri dove posizionarsi nel corso dell’eventuale impatto sono, per gli edifici in muratura, sotto le volte dei piani inferiori e nei vani delle porte inserite nei muri portanti (quelli più spessi), per gli edifici in cemento armato, in vicinanza delle colonne e, comunque, in vicinanza delle pareti;
- è poco probabile che i frammenti più piccoli siano visibili da terra prima dell’impatto;
- alcuni frammenti di grandi dimensioni potrebbero sopravvivere all’impatto e contenere idrazina. Chiunque avvistasse un frammento, senza toccarlo e mantenendosi a un distanza di almeno 20 metri, dovrà segnalarlo immediatamente alle autorità competenti.

Tiangong-1, una sorta di cilindro lungo 10,5 metri, con un diametro di circa tre metri, non è fra i veicoli spaziali più grandi, rispetto ad altri che in passato hanno subito lo stesso destino; è stata la prima stazione spaziale cinese, lanciata nel 2011 e poi raggiunta e agganciata da un’altra navicella (Shenzhou-8) senza equipaggio, mentre i primi astronauti vi sono saliti a bordo, nel giugno 2012 e 2013, trascorrendovi in tutto un ventina di giorni.
Da allora, la stazione ha continuato a essere utilizzata, disabitata, per condurre una serie di test tecnologici, con l’obiettivo di de-orbitarla, a fine missione, con un rientro guidato in una zona pressoché deserta dell’Oceano Pacifico meridionale, una specie di cimitero dei satelliti.

Purtroppo, però, un anno fa, il centro di controllo a terra ha perso la capacità, pare in maniera irreversibile, di comunicare e impartire comandi al veicolo spaziale.
Tiangong-1 ha perciò perso progressivamente quota, perché il continuo impatto con le molecole di atmosfera, a quelle basse altezze, le ha sottratto incessantemente energia.
Ed è questo processo, completamente naturale, che alla fine la farà precipitare sulla terra senza controllo, non potendo essere più programmata un’accensione dei motori per un rientro guidato.
Chiudete, quindi, finestre e balconi e scendete in cantina con l’uovo e la colomba.
31 marzo 2018 (Alfredo Laurano)


giovedì 29 marzo 2018

PERCHE’ TANTA COMMOZIONE

I personaggi televisivi che, più o meno quotidianamente e a vario titolo, entrano nelle case e tra le cose di tutti, diventano spesso amici, parenti, persone di famiglia, in appuntamenti fissi e attesi. Ma solo quelli buoni, quelli amabili, quelli sinceri o, almeno, quelli che così sono spontaneamente percepiti. Come, allo stesso modo, vengono avvertiti, malvisti e rifiutati quelli più odiosi, saccenti, miserabili e volgari: un nome a caso? Provate a immaginarlo, non voglio inquinare questa pagina d’amore.
Il pubblico sa scegliere e non sbaglia mai, le sue sensazioni trovano sempre conferma.
E’, comunque, questa una delle caratteristiche principali della televisione, del suo potere persuasivo e del suo ruolo magico e seduttivo, che svolge per definizione, pur orientando e condizionando, nel bene e nel male, idee, scelte, reazioni, giudizi e pregiudizi.

E quegli amici buoni, quei simboli puntuali e sempre uguali, svolgono una funzione delicata: sostituiscono chi manca, fanno compagnia a chi è solo, a chi è malato. Sono mediaticamente eterni e invulnerabili, non possono invecchiare, non devono e non possono scomparire, come o quasi per dispetto.
Eppure Fabrizio Frizzi se ne è andato, all’improvviso, spegnendo un fitto dialogo a livello nazionale, un rapporto popolare che sembrava non dovesse mai finire. La malattia, veloce e inesorabile, l’ha vinto.
La scomparsa dell’amico gentiluomo della TV pubblica ha provocato stupore e sofferenza vera in tutto il Paese: le cronache di questi giorni lo hanno ampiamente documentato.
Mai vista tanta partecipazione popolare, tanto dolore collettivo, tanta gente piangere, anche per strada.
Mai vista tanta solidarietà e condivisione che ha trasformato una immensa folla anonima in un popolo partecipe, turbato e attraversato da vibranti, autentiche emozioni.
Mai era successo prima.
Ma, nello stesso tempo, l’addio di Fabrizio ha prodotto anche un fenomeno imprevisto e straordinario, ha innescato un fragoroso effetto collaterale, stavolta incredibilmente positivo: quello di aver rilanciato il giusto concetto di umanità, di aver consentito il riscatto dei buoni sentimenti e il diritto a riappropriarsene,  senza vergognarsi e senza condizioni, di aver fatto  ritrovare una voglia di normalità, grazie all'affetto infinito di tanta gente comune che lo ha sentito vero e semplice, che ha ripagato la sua generosità, il suo garbo, il suo stile rispettoso, il suo essere se stesso. A volte è vero che ciò che dai, ti torna.
Inaspettatamente, è scaturito nella coscienza collettiva un bisogno d’amore, di pace e di bontà, che in questa società che non ha tempo, che corre, che insegue miti e varie forme di prestigio e di egoismo, avevamo quasi dimenticato.
E’ stato come riscoprire un mondo emarginato di valori semplici e genuini, già sopraffatto da
forme varie di malvagità, di odio e indifferenza, in ogni settore, ad ogni livello.
Dalla notizia delle sette di mattina dello scorso lunedì, fino ai funerali e all’ultimo viaggio a Bassano Romano di oggi, passando per l’ospedale S. Andrea, per la camera ardente della RAI di viale Mazzini e per le tante parole e pensieri di chiunque. Ovunque, sullo sfondo di una struggente malinconia, migliaia e migliaia di persone a testimoniare gratitudine e partecipazione.
E nemmeno sui social, come sempre accade, sono apparse critiche e commenti impropri del solito esercito di imbecilli, privi di etica e coscienza.

La stessa Rai, tradendo forse un qualche latente senso di colpa (soprattutto, quello di alcuni suoi superati burocrati, non sempre immuni da scelte ipocrite e formali nei confronti di Fabrizio) ha voluto o forse dovuto celebrarlo in lungo e in largo, con speciali, dirette, ricordi, trasmissioni e in ogni modo, sconvolgendo i palinsesti, per assecondare la volontà di un popolo commosso e assai provato.
Ma lui, il ragazzo buono, generoso e dal sorriso vero, lo meritava in ogni caso.
E la sua piccola Stella, crescendo, orgogliosamente, lo saprà.
28 marzo 2018 (Alfredo Laurano)



martedì 27 marzo 2018

ANCORA DUE PAROLE SU FABRIZIO


La notizia della scomparsa di Fabrizio Frizzi che ha aperto stamattina i telegiornali e le pagine del Web ha lasciato di stucco milioni di italiani, attoniti ed impreparati, più della tragedia siberiana che ha provocato decine di vittime innocenti, nell’incendio del centro commerciale.
Nessuno se lo aspettava, anzi, il popolo dei teleutenti era contento del suo ritorno alla conduzione dell’Eredità, di averlo ritrovato, sorridente e apparentemente in forma, sul piccolo schermo quotidiano, che a tanti faceva compagnia nel preserale. Era di casa per moltissimi italiani.
E tutti sono rimasti colpiti, increduli, senza parole.
Basta leggere i commenti, ascoltare le parole e le interviste di amici, colleghi e di gente comune che lo considerava un amico, un fratello, uno per bene, uno di famiglia.
Così era Fabrizio e così veniva percepito da chi lo frequentava, da chi ci lavorava accanto e anche da tutti quelli che lo conoscevano solo attraverso la TV, una persona autentica, speciale e di profonda umanità.

Come ho già scritto, un uomo semplice e garbato, in cui il personaggio pubblico coincideva con se stesso, che non si atteggiava, che non era e non si sentiva affatto divo. Sempre carico di energia e di entusiasmo, ma capace di solidarietà e di generosità, mai sbandierata. Per anni ha condotto Telethon, vivendo in proprio e con totale empatia le tante storie tristi che doveva presentare.
Toccante e assai sentita la testimonianza della ragazza a cui aveva donato, qualche tempo fa, il suo midollo osseo, come pure il ricordo di tanti amici e colleghi che lo hanno raccontato, con gli occhi lucidi e bagnati, alla RAI e sui giornali.
Una persona stimata come poche, che non ha mai deluso in quarant’anni anni di intensa attività. Mai una nota stonata, una caduta di stile e di rispetto nella sua lunga carriera.
Un uomo buono, schietto e simpatico, sempre sorridente, ma profondamente serio.
Un eterno ragazzo col ciuffo, animato da spirito goliardico, ma lontano dalle mode stravaganti e dagli effetti speciali e sorprendenti, che sapeva apprezzare quel mondo di valori e sentimenti, quasi dimenticati per non dire ormai superati.
Se un fiume di lacrime ha percorso buona parte del Paese e un’ondata di vero dolore ha attraversato gli animi di persone di ogni età e condizione, ci sarà un perché. Perché era molto amato ed apprezzato come persona vera.
Si avverte già un grande vuoto, Fabrizio non entrerà più, con tatto e discrezione, nelle case di tutti.
Oggi, solo tanta commozione intorno alla sua nobile figura e al suo indimenticabile sorriso.
26 marzo 2018 (Alfredo Laurano)

lunedì 26 marzo 2018

SIGNORI SI NASCE E LUI LO NACQUE

Sorriso, garbo, rispetto, eleganza, educazione: qualità piuttosto rare nell’irriverente mondo della televisione che, troppo spesso si propone con sfacciata invadenza.
Fra tanta spazzatura, fra tanti esemplari di ignoranza e di volgarità, tra simulacri del nulla, del gossip e dell’imbecillità che pretende di farsi pensiero, Fabrizio Frizzi era sicuramente un’eccezione, quasi una rarità.
Un uomo d’altri tempi, straordinario e misurato, un grande artista, poliedrico e vivace, un sincero amico di tutti. Uno di famiglia che non osava disturbare più di tanto ed entrava in punta di piedi, con sottile discrezione, nelle case degli italiani. Quasi stonato in quel contesto mediocre, squallido e chiassoso.

Oggi se ne è andato, all’improvviso, quando tutti pensavano che avesse superato la recente malattia.
Ha lasciato quel palcoscenico che, insieme alla famiglia, costituiva la sua vita e che aveva con coraggio ritrovato. Si è separato per sempre da quel pubblico che lo amava tanto e che apprezzava la sua gentilezza, il suo tatto, il suo stile, le sue belle maniere.
Non lascia eredità nel mondo dello spettacolo, se non quella dell’omonimo programma, che aveva condotto fino a poche ore prima e che da oggi, probabilmente, dovrà cambiare nome. Anche perché pochissimi sono alla sua altezza e potranno rappresentarlo come merita.
Ci mancherà la tua dolcezza, la tua semplicità, la tua bonomia.
Ciao Fabrizio, uomo amabile e gentile.
26 marzo 2018 (Alfredo Laurano)


domenica 25 marzo 2018

FIGLIE CONTRO FIGLIE


Le presidenze di Camera e Senato? In poche ore, tutto risolto.
Il combattivo cinquestelle Fico ha conquistato facilmente Montecitorio.
Il berlusconiano Paolo Romani era indegno di ricoprire la carica di presidente del Senato, perché condannato per peculato: era stato incastrato per aver ceduto il suo telefono istituzionale, di servizio, alla giovane figlia.
Invece fare assumere un’altra figlia (la propria) nel ministero di cui era sottosegretario, come è il caso dell’altra berlusconiana appena eletta presidente del Senato M. Elisabetta Alberti Casellati, è un atto di onestà morale, meritevole del massimo rispetto.  
Come pure lo era, per la neo eletta, protestare, pochi anni fa, contro la magistratura (toghe rosse) sotto il palazzo di giustizia di Milano, in un'udienza del processo Ruby, gridando al golpe contro Silvio.
O contestare la decadenza di Berlusconi da senatore, convinta, nonostante le prove, della sua assoluta innocenza, e dichiarare la radicale opposizione alle Unioni civili sono altre lodevoli azioni di vera gloria e fedeltà.
Per un telefono, Romani è stato condannato e scartato dalla corsa alla seconda carica dello stato. La Casellati non ha compiuto alcun reato, la sua fedina è immacolata e quindi merita di presiedere il Senato della Repubblica.
Due berlusconiani di ferro, usati da Salvini e da Gigino, per far capire chi comanda ora.
E il vecchio e sputtanato leader di ciò che resta di Forza Italia ha fatto pippa.
24 marzo 2018 (Alfredo Laurano)



sabato 24 marzo 2018

L’ALTRA FACCIA DEL BRASILE

Aveva solo 38 anni, Marielle Franco, militante per i Diritti Umani e giovane consigliera del Partito socialismo e libertà (Psol), uccisa con il suo autista in un agguato in pieno giorno, mentre rientrava nella sua casa, in un agglomerato di favelas a Rio de Janeiro, dove vivono almeno 130mila persone. Stava tornando da un evento in sostegno delle giovani donne nere e contro la violenza quando è stata giustiziata con quattro colpi di pistola alla testa: una vera esecuzione.
Era un’attivista molto apprezzata, diventata portavoce delle persone svantaggiate che vivono nelle fatiscenti baraccopoli, costruite con materiali di scarto e di risulta, dove abita quasi un quarto della popolazione di Rio de Janeiro e dove i servizi pubblici sono inesistenti: mancano strade, scuole, una rete idraulica, l’elettricità e i servizi sanitari.
Le favelas sono ghetti di miseria e di violenza, simbolo della tremenda sproporzione di ricchezza tra i cittadini brasiliani, dove lo stato non esiste. 
Quei territori sono quasi sempre gestiti da narcotrafficanti che comandano a proprio piacimento e sostituiscono in toto l’amministrazione statale: danno cibo e lavoro, decidono cosa è permesso e cosa no e, spesso, anche chi può entrare e chi no. Un luogo dove la povertà strisciante, la brutalità della polizia e le sparatorie tra le bande che controllano il traffico di droga sono all’ordine del giorno.
Negli hotel e nelle agenzie, vengono proposti agli stranieri i Favela tour, vere e proprie visite turistiche, dove con un pulmino si viene portati in giro per una favela, per scattare foto e fare degli acquisti. Si paga per fare un tour della povertà.

Come scrive l’Internazionale, Marielle era donna, di sinistra, femminista, nera, lesbica, sociologa. E si batteva contro tutto questo.
Il Brasile è tra i paesi più violenti del mondo e di solito un singolo omicidio non fa notizia, ma l’uccisione di Marielle, che da anni denunciava le violenze e gli abusi commessi dalla polizia militare nelle favelas di Rio, è un fatto grave che per molte ragioni ha avuto una risonanza forte non solo nel Paese, ma anche all’estero.
Centinaia di migliaia di brasiliani sono scesi in piazza in molte città, il giorno successivo alla sua morte. Amnesty International ha chiesto al governo un’inchiesta adeguata, parlando di “un omicidio mirato” che ha messo in evidenza i pericoli a cui vanno incontro i difensori dei diritti umani in Brasile.
Pochi giorni prima, Marielle, riferendosi a un giovane assistente di una chiesa evangelica ucciso dalla polizia, aveva scritto in un tweet: “Quante altre persone dovranno morire prima che questa guerra finisca?”
Intanto è toccato a lei. (Alfredo Laurano)


giovedì 22 marzo 2018

QUANTA PENA MI DAI


Tutto, più o meno, come previsto. 
Nell’udienza di oggi, 21 marzo 2018, sono arrivate le richieste di condanna della PM al processo Vannini, del tutto in linea con le attese, anzi forse superiori per chi ha una vaga idea della giustizia, ma non con quelle popolari dei tanti che speravano di sentir pronunciare la parola ergastolo.
Per l’accusa, gli imputati hanno mentito ostinatamente con una ricostruzione dei fatti parziale; no alle attenuanti generiche per Antonio Ciontoli; i ruoli degli altri vanno differenziati, anche se tacciono e avallano quanto stabilito dal capofamiglia; i familiari vedono la situazione precipitare e lo stato di Marco contraddice Ciontoli che non interrompe la catena di avvenimenti, anzi svia gli altri protagonisti facendo dichiarazioni distorte, il che prefigura il dolo eventuale, uscendo dalla condotta standard da tenere in questi casi. Quindi accetta il decorso causale senza bloccarlo pur avendo gli strumenti per farlo.
Dunque: 21 anni per Antonio Ciontoli,14 anni per moglie e i figli e 2 per Viola Giorgini, imputata per il reato di omissione di soccorso, rispetto invece all’accusa più grave, contestata alla famiglia, di omicidio volontario (non premeditato), con dolo eventuale.

Deluse profondamente le aspettative, troppo spesso umorali e sanguigne, di quelli che tuttavia confidano in un possibile ribaltamento in peggio della sentenza o di qualcuno che, ingenuamente, pensa che gli imputati siano già stati arrestati in seguito alla sola richiesta di condanna. Per non parlare dei fautori di una giustizia sommaria e vendicativa che svuota il sistema giuridico di regole e tutele previste dai codici, come equità, rettitudine, terzietà, conformità alle leggi, imparzialità, autonomia.

Tra gli indignati, infatti, c’è pure chi scrive “rinchiudeteli e buttate la chiave”, “anche l’ergastolo sarebbe poco”, “Io darei 30 anni al giudice”.
C’è chi lancia insinuazioni e dubbi sulla titolare delle indagini e chi addirittura auspica, con grottesco candore, che l’eventuale nuovo governo - ammesso che si faccia - possa intervenire sulle scelte dei tribunali. E meno male che non c’è la pena di morte!

Siamo alla degenerazione più banale del concetto di utopia giuridica, una sorta di delirio della fantasia ferita che induce a travisare, pericolosamente, le più elementari norme che disciplinano l’organizzazione di una società e a ignorare la separazione e l’indipendenza dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, quale principio fondamentale dello stato di diritto.
E queste riflessioni, nella tragedia che da tre anni in tanti seguiamo con indubbia emozione, rappresentano gli aspetti paradossali e quasi comici che non vorremmo ascoltare, leggere o dover sottolineare.

Ognuno ha una sua legittima opinione, attribuisce un certo valore ai fatti e alle cose pubbliche, che giudica con spontaneità, ma anche con impeto e pregiudizio.
O istintivamente, a pelle o per sentito dire e senza conoscere carte e atti processuali: tutto ciò allontana spesso dai criteri di oggettività. La razionalità è compromessa dalla passione e dal dolore e da una pur naturale voglia di vendetta. Siamo spesso sopraffatti dai nostri sentimenti.
Per questo esiste una legge, per definizione uguale per tutti, sebbene non sempre giusta e perfetta, non sempre infallibile, equidistante e soddisfacente o immune da vizi, errori e interpretazioni. Una legge al di sopra delle parti, alla quale dobbiamo attenerci, fare riferimento e che dobbiamo accettare, nel rispetto dei diritti umani e costituzionali e della irrinunciabile civiltà giuridica.

Non faccio il mestiere di giudice, ma se la richieste del pubblico ministero venissero accolte nella sentenza, sarebbe comunque un successo processuale. Si scriverebbe una pagina di giustizia per il povero Marco e per sua famiglia, da confermare poi negli altri gradi di giudizio.
Sempre che la pena sia certa e venga scontata, senza abbuoni, attenuanti, benefici o misure alternative.
Ma potrebbe andare peggio: sono tutti incensurati.
21 marzo 2018 (Alfredo Laurano)

ADESSO BASTA

Una buona notizia.
Finalmente la capra Sgarbi è stata cacciata dalla Giunta siciliana, dove occupava, del tutto indegnamente, la poltrona di Assessore ai Beni Culturali, invece della tazza che più gli si addice e dalla quale, ultimamente, si esprime in tutto il suo splendore: quella del cesso.
Nei giorni scorsi era stata lanciata una petizione popolare in tal senso e raccolte migliaia di firme per rimuoverlo, dopo le sue offensive dichiarazioni sul PM Di Matteo e su tutti i siciliani.
L'obiettivo è stato raggiunto, anche se il volgare cialtrone, cancellato e subissato nel collegio uninominale, è stato appena eletto alla Camera nel proporzionale, dove continuerà a far danni.
Intanto, per rinfrescare la memoria, riascoltate queste sue deliranti liturgie, nel turpiloquio che gli è ormai abituale.
Anziché essere internato e rivestito di idonea camicia (di forza) e di bavaglio, questo patetico buffone, che ormai pontificherà anche dal lussuoso cesso di Montecitorio, sarebbe (ma in effetti è) un deputato della nostra repubblica. Che schifo!
20 marzo 2018 (Alfredo Laurano)

https://www.facebook.com/MoVimento5StelleSicilia/videos/1635279216521581/

martedì 20 marzo 2018

VUOTI DENTRO


I
l bullismo, aggravato dal colore buio del razzismo, non ha confine, non ha recinti.
E’ dappertutto, è espressione della stupidità e dell’ignoranza giovanile, vive e si diffonde in luoghi socialmente degradati e, soprattutto, nel vuoto etico e culturale di famiglie approssimative, prive di ruoli e di valori, che arrancano ai margini della normale convivenza e della civiltà.
In questo fertilissimo humus, umanamente asettico e lontano da contaminazioni educative, nascono e si destreggiano bande di piccoli criminali, in crescita fisica, ma non mentale, che confondono i propri eventuali diritti con il comune esercizio della violenza gratuita, con atti offensivi o lesivi nei confronti di propri simili, più fragili e indifesi, impreparati alla prepotenza.
E, attraverso questa ignobile pratica, ottengono il riconoscimento del branco, conquistano una identità propria, una conclamata leadership, che mai altrove o in alcun altro contesto, così facilmente troverebbero.

Nella democratica e libera Inghilterra, a Nottingham, nella cui cultura popolare ancora vivono le leggendarie gesta di Robin Hood e del suo antagonista sceriffo, nella foresta di Sherwood -  del tutto opposte e in perfetta antitesi con la vile e abominevole tecnica del bullismo - una ragazza romana è stata picchiata e uccisa da un gruppo di bulle locali di 15 e 16 anni.
La diciottenne Mariam è stata aggredita per motivi razziali a una fermata del bus. Aveva cercato di fuggire alla furia della baby gang, che l'aveva trascinata per terra per oltre venti metri, salendo a bordo di un autobus. Il branco, composto da una decina di teppiste, l'ha però seguita e ha continuato a picchiarla anche sul mezzo, finché non è intervenuto l'autista che le ha bloccate. All’ospedale, dove i medici l'avevano dimessa poche ore dopo, senza accorgersi delle emorragie interne, è morta dopo 12 giorni di coma.
Studiava ingegneria al Nottingham College. Di origine egiziana, Mariam era nata a Roma e cresciuta a Ostia e si era trasferita oltremanica, insieme alla famiglia, quattro anni fa.
Ovviamente, come da consolidata prassi, il gruppo selvaggio aveva ripreso tutta l'aggressione con il cellulare e condiviso poi i filmati con gli amici.

Intanto, per restare nella cronaca di questo pazzo mondo - e mentre ancora piangiamo Pamela, fatta a pezzi a Macerata, Jessica pugnalata a Milano e le bambine di Cisterna di Latina, sparate nel sonno dal padre - una ventenne madre di due figli è stata uccisa a coltellate a Canicattì e buttata in un pozzo dal suo compagno, mentre a Napoli tre criminali adolescenti hanno ammazzato a bastonate una guardia giurata per rubargli la pistola.
La vita umana non vale più niente, è una variabile impazzita e casuale di un sistema squilibrato, che non risponde ai criteri evolutivi, che non interagisce più tra ambiente, società ed esseri viventi e consapevoli
Bullismo, femminicidi, omicidi passionali, delitti brutali per vendetta, per razzismo, per follia o per capriccio: una spirale continua di inarrestabile crudeltà, che si replica incessantemente, ininterrottamente, ogni ora, sempre e senza sosta.
E’ ormai il nostro pane farcito di violenza quotidiana che ci fa veramente troppo schifo.
19 marzo 2018 (Alfredo Laurano)


domenica 18 marzo 2018

FRITTELLE IN FESTA


Come scrivevo pochi giorni fa, oggi, 18 marzo, torna dopo quarant’anni la festa di San Giuseppe, nel quartiere Trionfale a Roma.
Folclore, bancarelle, giocattoli, cibo da strada e le immancabili frittelle del santo falegname. Agli stand gastronomici saranno affiancati quelli di antiquariato e artigianato.
La giornata di festa si aprirà con due gare: una podistica di 8 chilometri per le vie del quartiere e con una per il miglior bignè, preparato dalle pasticcerie romane. Una volta, cominciava con la processione che si fermava sotto la statua di San Giuseppe e poi tutti a via Andrea Doria - che oggi sarà pedonalizzata - per gustare frittelle semplici o bignè alla crema e al cioccolato.
A mezzogiorno suonerà la banda della Polizia Municipale e poi ci saranno momenti lieti per tutte le età: i bambini potranno giocare con le animatrici, divertendosi con il teatrino delle marionette, gli anziani potranno raccontare la loro storie di vita e di quartiere. Tutti, volendo, potranno abbandonarsi a dolci tentazioni.
La manifestazione, dalle 9 alle 18, è organizzata dal Comitato di quartiere Trionfalmente 17 che afferma: “L’idea di riportare la festa nel nostro quartiere nasce dalla necessità di restituire al Trionfale l’elemento di socialità e inclusione, che in questi anni si è un po’ perso. Vogliamo trascinare via dalla solitudine della casa più persone possibili.”
Allora, tutti in strada per rivivere una certa tradizione, per omaggiare San Giuseppe frittellaro e per salutare anche l’arrivo della primavera.
Buona passeggiata, anche fra i ricordi della fanciullezza, avvolti da un velo di inevitabile nostalgia.
 (Alfredo Laurano)


sabato 17 marzo 2018

MORO, QUARANT'ANNI DI MISTERI

In tre minuti l'Italia piomba nell'incubo. E in quarant'anni di misteri. 
Alle nove di mattina del 16 marzo 1978 a Roma, in via Fani, le Brigate Rosse rapiscono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, uccidendo i cinque componenti della sua scorta, che si trovano sulla Fiat 130 dello stesso Moro e sull’Alfetta che segue. E lo fanno con precisione chirurgica e millimetrica, lasciando del tutto illeso l’ostaggio e senza colpire alcun passante, altre vetture o madri con bambini.
Un’auto che precede inchioda all’improvviso e blocca il corteo, dai cespugli balzano una ventina di uomini vestiti da avieri, sparano a colpo sicuro sugli agenti, caricano Moro su un’altra auto e fuggono veloci. 
Tutto, in soli tre minuti. 
Sicuramente un piano studiatissimo, dettagliato, sincronizzato, provato e riprovato nei tempi e nelle azioni.
Quel 16 marzo di quarant’anni fa non è un giorno qualsiasi: è il giorno in cui Moro, ago della bilancia di un delicatissimo equilibrio, sta andando alla Camera, dove il PCI, grazie alla sua mediazione e al suo strategico lavoro politico, voterà per la prima volta la fiducia al governo Andreotti.

Quando si diffuse la notizia della strage, tutti si attaccarono alle radioline a transistor, tanta gente scese in strada, molti operai uscirono dalle fabbriche, molte scuole chiusero, furono allestite edizioni speciali di giornali e telegiornali. Fu un momento incredibile che paralizzò le coscienze di milioni di persone, attonite e sconvolte, compreso il sottoscritto.
Iniziò così, nel sangue, il sequestro vero di Aldo Moro, nulla che vedere con la commedia comica, paradossale e forse maledettamente profetica “il Fanfani rapito” di Dario Fo, che un paio d’anni prima, aveva fatto tanto ridere in teatro.

Un vero shock per l’Italia intera, un tragico evento: nulla sarà più come prima.
Furono 55 giorni di apprensione, di paura, di tensione: giorni che cambiarono per sempre la storia del nostro Paese, segnandola in maniera profonda, fra indagini, smentite, depistaggi, false segnalazioni, scoperta di presunti covi o prigioni.
Solo a Roma, 167mila identificazioni, seimila posti di blocco, settemila perquisizioni domiciliari, di cantine, garage e di qualsiasi automobile, in ogni angolo della città. Impiegati 172mila carabinieri e poliziotti. Anche se, secondo la Commissione Parlamentare d’Inchiesta, la punta più alta dell’attacco terroristico coincise con la punta più bassa del funzionamento dei servizi informativi e di sicurezza. Le attività di quei 55 giorni furono contrassegnate da una serie di errori, omissioni e negligenze.

Dopo la delirante condanna, i volantini, le comunicazioni, la spietata esecuzione e il ritrovamento del corpo nella Renault rossa in via Caetani, si scoprì che il povero Moro era sempre rimasto chiuso in una minuscola cella di due metri per novanta centimetri – praticamente, già una bara – in cui scrisse un centinaio di commoventi lettere alla famiglia, al partito, ai politici e, perfino, al papa. 
Il tragico caso dello statista, sequestrato e ucciso, ha prodotto un’infinità di libri, film, storie, inchieste, supposizioni e teorie complottiste e, ancor oggi, continua a far parlare perché ancora troppe verità sono negate: tanti restano i dubbi e nodi irrisolti sulla dinamica del vile agguato, sulle motivazioni occulte, sulle strategie segrete e sui veri perché di quell’eccidio.

Dietro quei fatti, sono state avanzate spiegazioni e ipotesi di ogni genere: dalle trame eversive americane, a quelle inglesi che, per non perdere il controllo delle rotte petrolifere, avrebbero ostacolato la politica filoaraba e terzomondista di Enrico Mattei, morto in un “dubbio” incidente aereo. Per gli inglesi, i comunisti avrebbero rappresentato un’ossessione, tanto da contrastarli con ogni mezzo, persino arruolando schiere di intellettuali e politici per orientare l’opinione pubblica e il voto degli italiani. L’apertura al Pci delle porte del governo di “Solidarietà nazionale”, con conseguente marginalizzazione del Partito Socialista di Craxi, avrebbe scatenato così un’ondata terroristica, culminata nell’assassinio di Aldo Moro.

Tra altre false leggende, si affacciò anche la tesi che avrebbe voluto lo statista democristiano "vittima di una congiura ordita da Andreotti e Berlinguer”, oppure di un complotto internazionale ad opera (a scelta) o della Cia o della polizia segreta sovietica, sempre per tenere il PCI lontano dal governo, ridimensionando o annullando di fatto la colpevolezza dei brigatisti, visti come automi meccanici che eseguono ordini altrui.

Il toccante film documentario “Il Condannato” di Ezio Mauro, in onda ieri sera su Raitre, ripercorre, ricostruisce e racconta, senza fantasiose illazioni, quei fatti e quel progetto politico, sulla sola base di documenti, testimonianze, interviste ai protagonisti, ricerche, dossier e materiale d’archivio. Con sobrietà e fedeltà storica, con l’ausilio di una grafica esplicativa, con uso di droni e con toni assolutamente asciutti e privi di retorica, descrive le sensazioni e le fortissime emozioni di quei giorni.
Una cronaca rigorosa e molto coinvolgente per ricordare una delle pagine più dolorose e devastanti della storia italiana. Soprattutto a chi non l’ha vissuta e conosciuta.
17 marzo 2018 (Alfredo Laurano)

giovedì 15 marzo 2018

LA LUNGA NOTTE DI FANO

Non è stato uno scherzo del suo tradizionale carnevale, da poco celebrato.
È stata la notte più lunga di Fano, terza città delle Marche per popolazione, e nostra di adozione, per il ritrovamento di un potente ordigno bellico in un cantiere vicino alla spiaggia della Sassonia. 
L’innesco accidentale ha fatto scattare l’allarme sicurezza, una corsa contro il tempo: da una parte, per rimuovere l’ordigno a rischio esplosione e portarlo in mare aperto; dall’altra, per mettere al sicuro la popolazione.
Sono state evacuate 23mila persone che si trovavano nel raggio di circa 1.800 metri dal punto di ritrovamento della bomba. Evacuato il lungomare, il porto e l’ospedale, chiusa la stazione ferroviaria, il centro storico e la periferia a sud del centro. 
C’è chi è andato a dormire da parenti o amici, chi nelle palestre e parrocchie della città. Una nottata decisamente anomala e difficile, in una Fano, del tutto sconvolta e surreale.

Dopo una giornata di lavori e preoccupazioni, ora la città è fuori pericolo e in sicurezza. L’ordigno rinvenuto in viale Ruggeri è stato portato al largo, con successo, grazie a una speciale e altamente rischiosa operazione congiunta dell’Esercito e della Marina militare. 
Revocata l’evacuazione di tutta la zona interessata, la gente è rientrata nelle proprie abitazioni, lasciate nella tarda serata di lunedì.

La bomba era un regalo poco gradito della seconda guerra mondiale, di fabbricazione inglese, un metro e dieci di lunghezza, un carico di oltre 225 chili di tritolo. 
Adesso è lontana, a due miglia dalla spiaggia, in attesa di brillare, ma non proprio come una stella. 
(Alfredo Laurano)

martedì 13 marzo 2018

ECCHECCRACCO!


Non bastava quella precotta, quella surgelata, quella con il ketchup o con la marmellata. Quella avvilita da accostamenti innaturali, offesa da orripilanti farciture, inventate da barbari stranieri dalle papille deviate, o spente e disperate, annegate nel mare di Posillipo o bruciate nel forno a legna del disgusto.
Ci si è messo pure lo stellato Cracco, quello che si muove con la moviola incorporata, che parla come una specie di robot e che nel suo spot, in versione Cuccarini, dice “semplicemente Carlo…finalmente a casa”.

Al severo giudice che condanna e terrorizza gli aspiranti chef, che infierisce con sadismo agroalimentare sulle sue vittime a Master Chef - manco fosse un premio Nobel del cibo che si fa arte surreale, fra lo stupore che stupisce, tra filetti, salse e note di colore, fra croccantezza e acida pittura - hanno da poco tolto una stella, quelli della Michelin.
E qualcuno, facendo riferimento a tale declassamento, aggiunge: "Dopo aver fatto la sua pizza gli hanno tolto non solo altre stelle, ma pure la cittadinanza italiana".

Si, perché la rivisitazione della pizza, firmata da Carlo Cracco, nel suo Bistrot, in Galleria a Milano, ha fatto arrabbiare i napoletani, ma anche quasi tutti gli italiani.
Ha scatenato una polemica feroce e divisiva, fra il disappunto dei puristi che parlano di oltraggio a uno dei cibi simbolo, più nobili e amati d’Italia, e la replica dei suoi sostenitori, che lo difendono, seguendo il suo verbo, il "libero arbitrio in cucina".
Ci mancava proprio la filosofia ontologica dell’essere e della conoscenza, coniugata con i sofisti del gusto e del fornello.

Secondo Scatti di Gusto, una dei portali più seguiti dagli appassionati di cucina, la pizza Margherita di Cracco, “non è una pizza napoletana, ma nemmeno italiana e tantomeno da degustazione. E non c’entra nulla la generica dizione gourmet che ogni tanto qualcuno appiccica a caso".
La versione rilanciata dal sacrilego fenomeno prevede, infatti, un impasto diverso, con farina integrale e un’aggiunta di cereali combinati tra loro, per renderlo croccante, e una salsa più densa rispetto all'originale, simile al sugo del ragù, con l’aggiunta di pomodorini confit e fette di mozzarella di bufala a crudo, come tocco finale.
E’ proprio quel disco scuro e biscottato che ha più scioccato i cultori della pizza e della tradizione: è bastata la sola diffusione della foto per scatenare gli attacchi al famoso chef e la rivoluzione del sammarzano.
E sul web si replica con l’ironia.
“Non bastava l’aglio nella Matriciana…Ogni volta che Cracco sforna una pizza così, un napoletano si suicida! …Già nella foto sembra tutto, tranne che invitante: la vera pizza napoletana la cominci a mangiare già con gli occhi, quella craccata e una cosa triste e rivoltante…Andiamo a consegnare otto stelle Michelin all’egiziano sotto casa".

A indispettire non è stato nemmeno tanto il prezzo di 16 euro, ma l'orgoglio ferito della cucina napoletana: il dissacratore, superbo e presuntuoso, ha osato profanare uno dei piatti più tipici del Vesuvio, ovvero la verace Margherita dop o doc, che dir si voglia.
Siamo dunque all’eresia. 
Soprattutto a pochi mesi dal riconoscimento dell’arte della pizza, certificata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità: una delle più alte espressioni identitarie della cultura partenopea, quale segno di creatività e gusto in tutto il mondo. 
(Alfredo Laurano)