E’
sempre più difficile mettere in fila i nostri pensieri.
Sono
tanti, sono troppi, si rincorrono e si aggiungono man mano nella nostra mente,
sempre più provata e a rischio di stabilità.
Come
pure il nostro cuore, sempre più oppresso da ciò che si sa e che si scopre,
dalla smisurata sete di conoscenza, da ciò che ci arriva dal continuo e ormai
incessante coinvolgimento nelle trasmissioni TV, nel Web, nei Social, che ci
rende sempre più informati e più sconvolti.
Si
parla solo di Coronavirus, da mattina a sera, con speciali, collegamenti,
servizi, numeri e statistiche.
La
nostra lucidità sta diventando un difficile traguardo o una condizione da
cercare o mantenere, anche alla luce dei tanti pareri degli esperti e degli
scienziati che ogni minuto ci spiegano le loro teorie - supposte, incerte e
discordanti - che noi siamo chiamati a decifrare, a interpretare. Ma non c’è
chiarezza, non ci sono certezze, solo dubbi, ipotesi e teorie. Brancoliamo nel
buio, non sappiamo se la Linea Gotica al contrario reggerà, se da nord - oggi
più colpito - il subdolo nemico invaderà il centro-sud, destinato, nel caso, a
collassare, se i ceppi del virus sono due e non capiamo neppure perché a
Bergamo c’è una carneficina.
Razionalità
ed emotività, in tutti noi, si sfidano alla ricerca di un difficile equilibrio.
Basti leggere a caso commenti, scambi e reazioni, su tutti media, sempre più
impulsivi, irrefrenabili, prepotenti e spesso ossessivi e compulsivi.
Da
quando ci svegliamo da un sonno limitato e non rigenerante – si dorme sempre
meno e sempre più agitati – a quando riprendiamo consapevolezza della terribile
realtà, per un po’ dimenticata.
E
riscopriamo che siamo ai domiciliari, che siamo chiusi in casa come quasi
tutt’Italia, meno quelli che sono costretti lavorare, a cominciare dagli
ospedali, ormai allo stremo, a muoversi, a viaggiare, anche sui mezzi pubblici,
o in quei settori che assicurano la sussistenza: alimentari, farmacie,
trasporti, fabbriche essenziali, energia, distribuzione.
E
meno quelli che ancora vanno a spasso, scoprendosi tutti runner e maratoneti,
che non riescono a capire che non abbiamo cure e vaccini per combattere la
feroce epidemia, se non lo stare a casa e non uscire, per contenere i numeri
spaventosi del contagio. Medici, infermieri, virologi, istituzioni non sanno
più come dirlo, come scriverlo, come urlarlo.
Comunque,
mentre ci chiediamo che succederà, che sarà di noi, come tutto il Paese e il
mondo - dopo e quando - cambieranno, prendiamo atto che in pochi giorni
dall’inizio di quell’incubo, siamo già tutti cambiati, impauriti, rassegnati e
sull’orlo di una costante crisi di nervi o di panico. La vita di prima, le
relazioni, gli incontri, le uscite, le iniziative – andiamo, facciamo,
portiamo, viaggiamo – non ci sono più.
Viviamo
in un perenne stato d’ansia, in consolidata paranoia, col terrore di scoprire
un improvviso mal di gola, un colpo di tosse secca o una febbre che sale in
poco tempo. O quello di un amico, di un familiare O temiamo di essere portatori
asintomatici di virus, untori inconsapevoli, o di essere infettati quando
andiamo a far la spesa o in farmacia, o per lavoro sul bus e sulla Metro.
E
allora, non frequentando più nessuno - figli, fratelli, nipoti e amici - cerchiamo
conforto e dialogo nella tecnologia, che ci viene incontro: telefoni, computer,
Skype, WhatsApp, videochiamate che aiutano a non sentirsi soli e a
interloquire. A vedersi da uno schermo, a confessarsi le proprie reciproche
paure, muovendoci in un mondo virtuale parallelo. Ma non è per tutti, per i
troppi anziani, per chi è in solitudine e non sa neanche come farsi da mangiare
e far la spesa.
Tra
le tante, due riflessioni che vorrei sottolineare.
Le
testimonianze di tanti infermieri e operatori sanitari che, con le lacrime agli
occhi, i segni scavati nel viso dal loro duro lavoro, raccontano le tante morti
cui assistono, che non possono impedire, che si susseguono in numeri da strage.
Loro che diventano familiari e uniche figure amiche, di quei trapassi in
solitudine, nel pianto e nella consapevolezza, senza un parente accanto a
stringere la mano o a salutare da un vetro o da lontano. Una nuova o ritrovata
umanità che scalza e sostituisce la cruda indifferenza.
E’
atroce il solo pensiero. Come quello di chi viene trasportato in ambulanza, in
un sarcofago di contenimento, e vede la casa e la famiglia forse per l’ultima
volta.
Da
qui, l’altra necessaria considerazione.
Molti
pensano di dover pazientemente sopportare le misure adottate nelle ordinanze
governative, per un certo limitato tempo, e lo fanno anche con scrupolo e
coscienza: restano in casa, si lavano le mani, stanno a distanza, non si
toccano e ammoniscono con estrema forza chi non lo fa. E cantano dai balconi
con fiducia, per farsi coraggio.
Ma,
purtroppo, non sanno, o si illudono di sapere, che alle scadenze, a quelle date
indicate per ufficio, non finisce la segregazione, l’isolamento, la quarantena.
Non è che cessa tutto in automatico, che si svuotino gli ospedali e le terapie
intensive, che si potrà uscire, incontrarsi, abbracciarsi, andare in gruppo in
pizzeria, riaprire le scuole, il commercio, i teatri, le spiagge, i bar e i
ristoranti.
Anzi,
serviranno misure sempre più rigorose. Non lo dico per dispetto, per dare una
profonda delusione. Tutto ciò non accadrà: sappiamolo e sappiatelo. Prendiamone
coscienza. Tutti. Prima di impazzire.
Chissà
quando e come si ritornerà all’antico. La vita di chi sopravvivrà, in un
ipotetico ritorno al futuro, lo ripeto, non sarà più la stessa.
Anche
quando si toccasse il picco dell’epidemia e la curva dei contagi dovesse
cominciare a scendere - magari fosse - non ci si potrà rilassare e abbassare la
guardia. Il virus emarginato non fugge e non sparisce.
Potrebbe
sempre rientrare, vista la pandemia che lo diffonde, per esempio dall’Africa,
che non ha adeguate strutture sanitarie per contrastarlo.
Comunque
non basteranno e non serviranno a niente le giuste scelte di un singolo Paese,
come il nostro, oggi d’esempio, se l’altra Europa e il mondo non faranno altrettanto.
Non
servirà a niente chiudere le frontiere ed i confini.
Il
virus ha un passaporto universale.
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