domenica 22 marzo 2020

PROVIAMO A PENSARE /1992


E’ sempre più difficile mettere in fila i nostri pensieri.
Sono tanti, sono troppi, si rincorrono e si aggiungono man mano nella nostra mente, sempre più provata e a rischio di stabilità.
Come pure il nostro cuore, sempre più oppresso da ciò che si sa e che si scopre, dalla smisurata sete di conoscenza, da ciò che ci arriva dal continuo e ormai incessante coinvolgimento nelle trasmissioni TV, nel Web, nei Social, che ci rende sempre più informati e più sconvolti.
Si parla solo di Coronavirus, da mattina a sera, con speciali, collegamenti, servizi, numeri e statistiche.
La nostra lucidità sta diventando un difficile traguardo o una condizione da cercare o mantenere, anche alla luce dei tanti pareri degli esperti e degli scienziati che ogni minuto ci spiegano le loro teorie - supposte, incerte e discordanti - che noi siamo chiamati a decifrare, a interpretare. Ma non c’è chiarezza, non ci sono certezze, solo dubbi, ipotesi e teorie. Brancoliamo nel buio, non sappiamo se la Linea Gotica al contrario reggerà, se da nord - oggi più colpito - il subdolo nemico invaderà il centro-sud, destinato, nel caso, a collassare, se i ceppi del virus sono due e non capiamo neppure perché a Bergamo c’è una carneficina.
Razionalità ed emotività, in tutti noi, si sfidano alla ricerca di un difficile equilibrio. Basti leggere a caso commenti, scambi e reazioni, su tutti media, sempre più impulsivi, irrefrenabili, prepotenti e spesso ossessivi e compulsivi.

Da quando ci svegliamo da un sonno limitato e non rigenerante – si dorme sempre meno e sempre più agitati – a quando riprendiamo consapevolezza della terribile realtà, per un po’ dimenticata.
E riscopriamo che siamo ai domiciliari, che siamo chiusi in casa come quasi tutt’Italia, meno quelli che sono costretti lavorare, a cominciare dagli ospedali, ormai allo stremo, a muoversi, a viaggiare, anche sui mezzi pubblici, o in quei settori che assicurano la sussistenza: alimentari, farmacie, trasporti, fabbriche essenziali, energia, distribuzione.
E meno quelli che ancora vanno a spasso, scoprendosi tutti runner e maratoneti, che non riescono a capire che non abbiamo cure e vaccini per combattere la feroce epidemia, se non lo stare a casa e non uscire, per contenere i numeri spaventosi del contagio. Medici, infermieri, virologi, istituzioni non sanno più come dirlo, come scriverlo, come urlarlo.

Comunque, mentre ci chiediamo che succederà, che sarà di noi, come tutto il Paese e il mondo - dopo e quando - cambieranno, prendiamo atto che in pochi giorni dall’inizio di quell’incubo, siamo già tutti cambiati, impauriti, rassegnati e sull’orlo di una costante crisi di nervi o di panico. La vita di prima, le relazioni, gli incontri, le uscite, le iniziative – andiamo, facciamo, portiamo, viaggiamo – non ci sono più.
Viviamo in un perenne stato d’ansia, in consolidata paranoia, col terrore di scoprire un improvviso mal di gola, un colpo di tosse secca o una febbre che sale in poco tempo. O quello di un amico, di un familiare O temiamo di essere portatori asintomatici di virus, untori inconsapevoli, o di essere infettati quando andiamo a far la spesa o in farmacia, o per lavoro sul bus e sulla Metro.
E allora, non frequentando più nessuno - figli, fratelli, nipoti e amici - cerchiamo conforto e dialogo nella tecnologia, che ci viene incontro: telefoni, computer, Skype, WhatsApp, videochiamate che aiutano a non sentirsi soli e a interloquire. A vedersi da uno schermo, a confessarsi le proprie reciproche paure, muovendoci in un mondo virtuale parallelo. Ma non è per tutti, per i troppi anziani, per chi è in solitudine e non sa neanche come farsi da mangiare e far la spesa.

Tra le tante, due riflessioni che vorrei sottolineare.
Le testimonianze di tanti infermieri e operatori sanitari che, con le lacrime agli occhi, i segni scavati nel viso dal loro duro lavoro, raccontano le tante morti cui assistono, che non possono impedire, che si susseguono in numeri da strage. Loro che diventano familiari e uniche figure amiche, di quei trapassi in solitudine, nel pianto e nella consapevolezza, senza un parente accanto a stringere la mano o a salutare da un vetro o da lontano. Una nuova o ritrovata umanità che scalza e sostituisce la cruda indifferenza.
E’ atroce il solo pensiero. Come quello di chi viene trasportato in ambulanza, in un sarcofago di contenimento, e vede la casa e la famiglia forse per l’ultima volta.

Da qui, l’altra necessaria considerazione.
Molti pensano di dover pazientemente sopportare le misure adottate nelle ordinanze governative, per un certo limitato tempo, e lo fanno anche con scrupolo e coscienza: restano in casa, si lavano le mani, stanno a distanza, non si toccano e ammoniscono con estrema forza chi non lo fa. E cantano dai balconi con fiducia, per farsi coraggio.
Ma, purtroppo, non sanno, o si illudono di sapere, che alle scadenze, a quelle date indicate per ufficio, non finisce la segregazione, l’isolamento, la quarantena. Non è che cessa tutto in automatico, che si svuotino gli ospedali e le terapie intensive, che si potrà uscire, incontrarsi, abbracciarsi, andare in gruppo in pizzeria, riaprire le scuole, il commercio, i teatri, le spiagge, i bar e i ristoranti.
Anzi, serviranno misure sempre più rigorose. Non lo dico per dispetto, per dare una profonda delusione. Tutto ciò non accadrà: sappiamolo e sappiatelo. Prendiamone coscienza. Tutti. Prima di impazzire.
Chissà quando e come si ritornerà all’antico. La vita di chi sopravvivrà, in un ipotetico ritorno al futuro, lo ripeto, non sarà più la stessa.

Anche quando si toccasse il picco dell’epidemia e la curva dei contagi dovesse cominciare a scendere - magari fosse - non ci si potrà rilassare e abbassare la guardia. Il virus emarginato non fugge e non sparisce.
Potrebbe sempre rientrare, vista la pandemia che lo diffonde, per esempio dall’Africa, che non ha adeguate strutture sanitarie per contrastarlo.  
Comunque non basteranno e non serviranno a niente le giuste scelte di un singolo Paese, come il nostro, oggi d’esempio, se l’altra Europa e il mondo non faranno altrettanto.
Non servirà a niente chiudere le frontiere ed i confini.
Il virus ha un passaporto universale.
 18 marzo 2020 (Alfredo Laurano)


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