giovedì 30 marzo 2017

“CHI ARRIVAVA MENAVA”

Che schifo di Paese è questo, che razza di giungla selvaggia è diventata, percorsa in lungo e in largo da bestie apparentemente umane, di ogni tipo, spietatezza e dimensione.
Da chi ammazza i propri figli di due e quattro anni a martellate, a Trento, prima di gettarsi da un dirupo. Da chi, amico intimo di famiglia, infierisce con estrema brutalità su una giovane commessa a Cirò Marina, lasciandola morire in una pozza di sangue. Da chi sopprime la propria madre con numerose coltellate e poi la mura, ancora viva, in una intercapedine della villetta dove abitavano insieme, a Casalpalocco.
O da chi, senza ragione, per futili motivi o quasi per gioco di supremazia del branco, massacra un ragazzo di vent’anni, Emanuele, trascinandolo a lungo in una piazza nel centro storico di Alatri, davanti a una discoteca e a una trentina di persone afflitte da indifferenza o piene di paura.

Il giovane ciociaro è stato colpito, in tre momenti diversi, da più persone.
All’interno del locale, qualcuno sgomita, battibecca con la barista, si appoggia a lui, lo urta.
Tra i due nasce un diverbio: spinte, insulti, strattonate; il violento, ubriaco, afferra un portatovaglioli dal bancone e colpisce il giovane, in compagnia della fidanzata.
Poi, secondo le cronache e le ricostruzioni dei Carabinieri, scoppia la vera rissa, calci e pugni, tutti verso il giovane Emanuele. Il locale si divide in due, qualcuno scappa fuori, altri cercano di separarli, mentre molti, anche due buttafuori del locale, si accaniscono solo su di lui, lo prendono per il busto, lui si dimena, la maglietta arancione si strappa, lo portano in un angolo vicino a una colonna, continuano a prenderlo a calci e pugni. E lo trascinano fuori, con la forza.
Tutti contro uno, Emanuele, continua a gridare, il sangue gli esce dalla bocca.
La situazione è fuori controllo, a picchiare c’è anche un gruppo di albanesi, amici dei due delinquenti fermati oggi e messi al gabbio, in isolamento.
L'aggressione continua all’esterno, mentre qualcuno prova ad aiutare l’amico a terra. Comunque, Emanuele riesce a divincolarsi, scappa verso la parte alta della piazza.
Ma il branco criminale lo insegue, viene strattonato, colpito alla testa e al collo con un manganello e una chiave a L per le ruote. Uno va in macchina per prendere una pistola, ma la ragazza glielo impedisce. Sono una ventina ormai, lo pestano mentre lui è di nuovo a terra. C’è anche un cinquantenne, capelli bianchi: è il padre di uno degli arrestati, che non è certo lì per dividere.
“Chi arrivava menava, anche se non c’entrava niente”, diranno poi gli amici sotto choc.
Emanuele crolla privo di conoscenza, sbatte la testa contro una macchina, ma quelli continuano a colpirlo. Non dà segni di vita, non respira, ha la lingua tra i denti, a calci lo spingono sotto l’auto. Gli amici provano ancora a soccorrerlo. Ma è troppo tardi. 
Quando finalmente arrivano i nostri - i carabinieri e il 118 - lo sfregio finale: il branco di assassini, ridendo, entra in un bar dicendo: “L’abbiamo tolto di mezzo, l’abbiamo ammazzato”. Agghiacciante! Una raccapricciante storia di sadismo collettivo e crudeltà in quella che, fino a qualche tempo fa, era la semplice, tranquilla e anche noiosa provincia italiana. 
E non venite a parlarmi di provocazioni, di giustificazioni economiche, psicologiche o di tare ereditarie. Non venite a dirmi che la colpa è dell’alcool, della droga, del disagio sociale o familiare.
La comunità di Alatri è profondamente scossa, gonfia di rabbia, ferita da tanta ferocia e disumanità, pur nell’omertà che la paura aveva generato. Serpeggia una naturale e palpabile voglia di vendetta, in attesa che si faccia rapidamente giustizia.
Ma siamo nella patria del garantismo: quei barbari si faranno difendere dai migliori avvocati, sceglieranno il rito abbreviato, avranno la riduzione di un terzo della pena, si diranno pentiti, dispiaciuti e che non volevano uccidere. Un’attenuante, un po’ di buona condotta e se la caveranno con poco.
Quanto accaduto nella città laziale non è certo un caso isolato, un fatto raro irripetibile: ogni giorno una prima pagina di giornale ci sconvolgerà ancora, oltre a farci inorridire per tutto il resto di quotidiane atrocità che questo mondo e questa società malata ci riservano per amor di civiltà.
29 marzo 2017 (Alfredo Laurano)



lunedì 27 marzo 2017

UN SABATO QUALUNQUE, UN SABATO ITALIANO

Il peggio sembra essere passato….
Tornando alla giornata di sabato scorso, che ha visto svolgersi due eventi di non poco conto, sotto vari punti di vista, occorre fare qualche altra riflessione.
Durante la cerimonia della celebrazione dei Trattati in Campidoglio, nei discorsi ufficiali dei capi di stato e di governo, tutti hanno parlato dei problemi sociali, dell’economia che si nutre delle diseguaglianze, delle promesse e degli impegni per costruire un’Europa sociale, giusta e libera, in piena contraddizione, però, con le vicende di attualità dei migranti ai confini o con i recenti esempi della Grecia in forte sofferenza.
Tante belle parole, gonfie di retorica e lontane dallo spirito ideale dei costituenti e dei precursori di Ventotene, che non hanno cancellato le divisioni politiche dell’Unione europea, anche nel rito della ricorrenza e secondo il protocollo, per dare solennità storica all’avvenimento.

Le concomitanti manifestazioni di protesta in programma a Roma nella stessa giornata di sabato e il timore di possibili attentati avevano creato un clima di allarme senza precedenti.
Un avviso di pericolo lanciato attraverso un bombardamento mediatico a tappeto che ha spaventato tutti, svuotato la città e visto le piazze di una Roma spettrale e impaurita: gente chiusa in casa, traffico deviato, negozi e quartieri chiusi, strade deserte occupate da vigili, mai così numerosi, in ogni angolo del centro storico e, naturalmente, uno spiegamento massiccio di mezzi e forze dell’ordine per i venti di guerriglia che giornali e televisioni avevano annunciato a tamburo, formidabile antidoto a una partecipazione più larga di manifestanti.
In questo scenario anomalo e inusuale, in una città blindata, semivuota e minacciata, in ansia sui pericoli della piazza, i vari cortei hanno scandito pacificamente la protesta e l’impegno per “rifondare l’Europa”.

E, “purtroppo”, non è successo niente di ciò che si temeva: merito della prevenzione, dell’intelligence, dei servizi di sicurezza, del senso di responsabilità dei dissidenti? Nemmeno un black bloc o qualche infiltrato di circostanza, utile al sistema. Quasi una delusione, qualcuno ci sarà rimasto male.

Tutt’altro clima, tutt’altra scena, nelle stesse ore, a Monza e a Milano, per l’altro atteso avvenimento del giorno.
La massiccia presenza popolare che non si è vista a Roma, città chiusa che ospitava i leader europei, era ad accogliere la visita di papa Francesco nel suo viaggio pastorale tra le periferie a parlare di povertà, di lavoro, invitando la gente ad “abbracciare i confini”: un milione di persone al parco di Monza, ottantamila nello stadio tutto esaurito di San Siro.
Ha visitato e pranzato con i detenuti di S. Vittore, primo papa nella storia, ha telefonato a una cittadina malata in ospedale come fosse una sua sorella, si è intrattenuto con una famiglia musulmana e, come è ormai prassi, a fare selfie, ha usato un bagno chimico sulla strada, ha parlato ai ragazzi di bullismo e di genitori che litigano e fanno soffrire i figli

Bagno di folla, quindi, dalle "Case bianche" all’incontro nel Duomo con il clero, per questo
“Papa degli ultimi”, che ogni volta richiama e promuove grandi numeri e tante spese per l’organizzazione, per le città presidiate, per le strutture, per un milione di sciarpe di saluto, per spostamenti e misure di estrema sicurezza.
In parallelo, come sempre accade dove c’è da speculare, l’inevitabile business dell’accoglienza: camere e alloggi “vista papa”, proposti sul web, anche da privati, a prezzi vergognosi.
È pesata un bel po’ alla Curia di Milano - e anche allo stato e agli sponsor - la visita di Papa Francesco.
Il solo gigantesco palco di Monza da rockstar - una struttura lunga ottanta metri con due mega torri di alluminio per sorreggere la copertura e, a fianco, una tribuna con cinquecento posti - pare sia costato, per poche ore di utilizzo, un milione e trecentomila euro.
Uno spreco davvero intollerabile per recitare una grande messa popolare, per sponsorizzare il credo e fare campagna acquisti di fedeli.
Bergoglio, non credo, sia d’accordo, ma nulla può quando prevale la ragion di stato, che tutto giustifica, se utile alla causa, e non conosce alcuna forma di morale.
27 marzo 2017 (Alfredo Laurano)

DA VENTOTENE AL CAMPIDOGLIO

Non molti anni dopo la lunga seconda guerra mondiale, le città devastate, i cumuli di macerie, i milioni di morti, di rifugiati, senza casa e senza niente, le intenzioni dei padri fondatori dell’Europa, che nel 1957 firmarono i trattati di Roma, erano certamente nobili e assai diverse da quelle che, fino ad oggi, si sono realizzate nel progetto di costruzione di un’Unione, alimentata da venti di discordia e scelte discutibili e sempre più minata da dubbi, prepotenze e sfiducia popolare.
Ben lontane anche dai propositi di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, reclusi negli anni del fascismo in una piccola isola del Mediterraneo, dove, idealmente, l’Europa nasceva e già si respirava. Insieme a tanti altri confinati, a Ventotene, sognavano un futuro diverso, senza guerre, prospero e di pace.

Sessant’anni dopo, quei trattati hanno rinnovato l’impegno sulla carta, ma si sono celebrati con non poca ipocrisia. I leader europei nella sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio, davanti al documento del '57, hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta per rilanciare nei prossimi 10 anni l'integrazione comunitaria.
Ma in quest’Europa dominata dalle banche, dalla finanza e dai mercati e regolata da trattati ingiusti - da Maastricht, al Fiscal Compact, a Dublino - dall'austerità, dai riemergenti nazionalismi, non c’è al momento spazio per valori autentici, come apertura, solidarietà, tolleranza, libertà e democrazia, che le consentirebbero di fare un vero salto di qualità. Diseguaglianza, paura e insicurezza sociale, diffuse a piene mani da politiche repressive e atti inadeguati, producono culture di respingimenti e movimenti reazionari. Ma anche tanta precarizzazione del lavoro, ricatti e discriminazione di donne e di giovani, che crescono invece a dismisura, come la povertà e l’emarginazione. Si moltiplicano razzismi, muri, frontiere e fili spinati: i migranti sono le prime vittime, insieme alla democrazia e ai diritti.

Non c’è più tempo per le chiacchiere e le dichiarazioni di facciata e convenienza: chi ha responsabilità ed è cosciente del pericolo deve ripensare i principi base dell'Unione, deve scegliere, deve mettersi in gioco, deve rilanciare in una nuova dimensione. Le troppe crisi ai confini, il terrorismo, la globalizzazione, impongono scelte cruciali e indifferibili.
Bisogna abbattere i muri. Quelli fisici e quelli dell'odio e della paura.
Così come bisogna abbattere i muri della austerità, del debito, della finanza, del pensiero unico. E quelli che impediscono ad una intera generazione di giovani di affacciarsi con pienezza alla vita. Altro che generazione Erasmus: questa è la generazione dei precari.

In una bella giornata “storica”, di primavera, la festa c’è comunque stata: sorrisi, bandiere, foto, abbracci e strette di mano nel piazzale michelangiolesco.
In una Roma assolata e blindatissima, tra scorte e rigidi controlli delle forze dell'ordine che hanno presidiato tutta la città, i 27 leader europei hanno firmato il nuovo accordo per l’Europa futura, che ha visto la Polonia e la Grecia di Tsipras, già provata da tanta austerità, chiedere qualche modifica al testo prima di sottoscriverlo.
Anche i vari cortei di contestazione e in dissenso si sono svolti e, nonostante i timori della vigilia, il clima di tensione e gli annunciati, possibili disordini, hanno sfilato senza incidenti, per le vie della capitale, controllate da cinquemila agenti: quasi più degli stessi manifestanti.
Tuttavia, il sentimento critico verso questa attuale Ue, a doppia velocità, non si esprime solo attraverso le mobilitazioni nelle strade. La fiducia appare in declino quasi ovunque e un'insofferenza diffusa attraversa tutti i Paesi che ne fanno parte, vecchi e nuovi, alcuni dei quali rischiano di diventare colonie o protettorati dell'arroganza di quelli più economicamente forti.
Non a caso, i partiti euroscettici o apertamente anti-europei hanno assunto proporzioni sempre più ampie. Per otto cittadini su dieci, l'Unione Europea è un obiettivo giusto, ma realizzato in modo sbagliato.
"E' una commedia degli errori, una tragedia greca. Noi siamo semplici spettatori delusi”, afferma con amarezza Yanis Varoufakis, ex ministro greco delle finanze.

Se davvero questo progetto - ancora sulla carta e più sognato che reale - vuole perseguire l’integrazione degli uomini e diventare l’Europa dei popoli, deve decidere da che parte stare e come agire al bivio: fra la salvezza delle vite umane o quella delle banche, fra la piena garanzia o la progressiva riduzione dei diritti universali, fra la pacifica convivenza o le guerre, fra la democrazia o le dittature.
I cittadini devono poter decidere e le politiche non devono essere imposte dall’alto, ma rappresentare la volontà popolare, nel rispetto delle identità nazionali.
Come ha ricordato il sindaco di Roma nel suo discorso: “L’Europa o è dei cittadini o non è Europa”.
26 marzo 2017 (Alfredo Laurano)

venerdì 24 marzo 2017

TRA STORIA, CINEMA E MAGIA

Nel giro di poche ore, tra un attentato e l’altro a fare da sfondo a questa bella società, se ne sono andate, per cause naturali, tre persone che hanno lasciato un segno, a vario titolo, nella storia di questo Paese.
Partigiano, dirigente del Pci, direttore dell'Unità, è morto a 91 anni Alfredo Reichlin.
Nella capitale partecipò alla Resistenza, fu allievo di Palmiro Togliatti e poi vicino alle posizioni di Pietro Ingrao, le più a sinistra nel partito.
Ricordo con commozione le sue nobili parole pronunciate in piazza Montecitorio, quasi due anni fa, ai funerali dell’amico e compagno Pietro, che raccontavano e respiravano quelle stesse idealità, quei valori e quei sogni che entrambi condividevano.
In quella piazza del potere, così poco amata dal popolo, l’emozione era tangibile.
“Non lasciamo la sinistra sotto le macerie”, è stato il suo ultimo articolo, il suo ultimo pensiero, il suo ultimo messaggio di uomo appassionato, di politico di razza.

Ieri, anche l’addio a Tomas Milian, alias Nico Giraldi, alias Er Monnezza.
L'attore è morto a Miami per un ictus, aveva 84 anni. 
Nato in un villaggio cubano, interpretò oltre cento film, sul set senza soluzione di continuità dall'inizio degli anni Sessanta alla fine degli anni ottanta, doppiato dall’indimenticabile Ferruccio Amendola.
Bello, affascinante, scaltro, brillante, nei primi anni della sua carriera aveva lavorato con autori come Lattuada e Visconti, Maselli e Pasolini, Dennis Hopper e Liliana Cavani ma la grande popolarità l'aveva ottenuta con i "poliziotteschi", in cui interpretava l'ispettore Giraldi, e poi con il personaggio cult della sua carriera, Er Monnezza.
Si distingueva nella originalità dei suoi personaggi, che tutti ricordano soprattutto per il vernacolo romanesco, triviale, scurrile e verace quanto basta, e per il suo look: tuta da meccanico, semplici scarpe bianche da tennis, capelli ricci, barba folta e un po' di trucco sugli occhi. Tipica la sua caratterizzazione del borgataro coatto, che Milian seppe interpretare ricorrendo a una mimica facciale ineguagliabile e a una serie di gesti indovinati ed espressivi.
Nei suoi pittoreschi ruoli, “non è stato - come qualche critico ha ben sottolineato – il semplice ladruncolo con berretta di maglia, chewingum all’angolo della bocca e acconciatura post imperiale, che univa l’intuito di uno Sherlock de Noantri agli sganassoni di un Piedone di periferia. Né è stato solo una macchietta di detective, un po’ ladro e un po’ principe degli investigatori.”
In quel genere di cinema, in ogni caso, ha certamente occupato un posto rappresentativo e di prestigio.

Come è stato nel parallelo mondo della musica e dell’intrattenimento televisivo - ma di tutt’altro stampo - anche per il mitico Mago Zurlì, che ci ha lasciato senza un’ultima magia.
Oggi, in epoca di stregoni e ciarlatani - dal divino Otelma al Do Nascimiento – quella genia di virtuosi incantatori non esiste più, sparito dai palinsesti insieme a Topo Gigio e alle sue dolci e semplici storielle. Quel mago buono, quel Topo permaloso, quelle canzoncine cadenzate hanno fatto sognare milioni di bambini, di almeno due generazioni.
Cino Tortorella esordisce nel mondo dello spettacolo in un ruolo che ne segnerà l'intera carriera. Pare sia stato Umberto Eco, all'epoca funzionario Rai, a proporgli, nel 1957, il programma per ragazzi Zurlì, il mago del Giovedì, di cui Tortorella fu anche l'ideatore.
Dotato di regolare bacchetta magica, capelli luccicanti di polverina magica, corpetto aderente in vita, calzamaglia e un mantello azzurro lo rendono subito figura amata e inconfondibile per il pubblico dei più piccoli. Gentile, garbato, misurato e rassicurante, mago Zurlì si lega per sempre all’album dei ricordi più famosi nella storia musicale dello Zecchino d'Oro, di cui fu promotore nel 1959, dai “44 gatti' a “Popoff”, da “Le tagliatelle di nonna Pina” al “Coccodrillo come fa?”, fino al “Valzer del moscerino” della allora bambina Cristina D’Avena.
Ma anche alle tante trasmissioni che ideò e lanciò con successo negli anni a seguire.
Smessi i fiabeschi panni di Zurlì, rimase convinto - non senza poca ragione - che il suo personaggio avrebbe potuto funzionare per molto tempo ancora e resistere all’usura del tempo.
“C’è ancora gente in giro che crede che io sia un vero mago” - raccontava spesso - anche perché i bambini di oggi sono uguali a quelli di ieri. E quelli di domani saranno uguali a quelli di oggi”.

Come in fondo sono gli uomini, nell’essenza della propria storia.
Come sono stati Reichlin, Milian e il mago Tortorella: tre persone assai diverse, ma così capaci, creative e ricche di talento che, nei rispettivi ruoli, tanto hanno saputo dare e comunicare sul piano umano e nei vari aspetti della società. Un commosso saluto e un grazie a tutti voi.                                                                                  
Addio mago della nostra infanzia, della nostra giovinezza, dei sogni e delle tante belle illusioni che, con naturale innocenza, hai aiutato a costruire, in nome della semplicità e di un candore ormai dimenticato.
23 marzo 2017 (Alfredo Laurano)


giovedì 23 marzo 2017

SUA NULLITA’ ISTERICA

Mi piacerebbe tanto sapere quanto gli danno per fare il pagliaccio a pagamento in televisione.
Stavolta, l’osannato storico d’arte più folle, il più famoso - ma non il più capace - si è davvero superato: dal capra, capra è passato al vaffanculo, sempre in diretta e a favore di telecamera.
Nessun altro suo collega - e in Italia ce ne sono di bravi e diversi, - lo ha mai seguito sulla strada della cialtroneria. Né le sue competenze, qualsiasi o tante che siano, sembra prevalgano su quelle di altri esperti, come Caroli, Bonito Oliva, Barilli o Daverio, meno noti e meno celebrati mediaticamente, perché non fanno circo, ma sicuramente più seri e rispettabili. Il fatto di essere stato allievo del grande Federico Zeri, peraltro, non lo qualifica automaticamente come critico eccellente, anzi con le sue esibizioni plateali e volgari ne infanga il buon nome.
E’ ormai diventato un peripatetico del teleschermo che si vende, passeggiando e insultando, al miglior portico televisivo offerente, facendo leva su una certa cultura di base e sulla sua dialettica logorroica, che non può e non deve essere interrotta o contenuta.
Deve il suo successo, essenzialmente, al fatto di aver capito da tempo che nello Spettacolo - non nel mondo dell'arte, che dovrebbe essere il suo habitat più logico e naturale - basta fare l’isterico e dare gratuitamente dell’ignorante o del coglione a chiunque non lo ossequi o non lo ascolti in religioso silenzio, per essere considerato un genio della tuttologia.

A La7, l’altra sera, è andata in onda l’ennesima puntata farsa dello Sgarbi Furioso, che ha tracimato oltre il dovuto, oltrepassando il livello degli argini del confronto duro e della cafonaggine che già tutti gli conoscevano. Si è esibito in tutto il splendore, in tutta la sua finezza e signorilità in un momento veramente epico e surreale di spazzatura televisiva.
Ospite del programma “Bianco e Nero”, è riuscito ad offendere pesantemente in un colpo solo il conduttore Luca Telese e gli ospiti, tra cui Luisella Costamagna attonita e sbalordita, un’esterrefatta e incredula Luciana Castellina, Simona Izzo e la compassata avv. Bongiorno. “Stronza stai zitta… non capisci un cazzo… dici solo cazzate… vaffanculo!”
L’invito a contenersi, a mantenere la calma e a non insultare, è rimasto ovviamente inascoltato e allora gli ospiti, indispettiti e indignati da tanto inqualificabile affronto, si sono alzati e sono andati via. Telese, durante e dopo lo stacco pubblicitario, si è scusato e ha convinto gli ospiti a restare.

Vero è che, se Sgarbi esiste, la colpa è di chi continua a chiamarlo, in qualità di consunto e abusato denigratore seriale, privo di equilibrio e affetto da evidenti turbe psichiche nella sua nullità isterica. Fin da i tempi dello storico schiaffo di Roberto D’agostino.
I suoi interventi trash, a prescindere dal tema in discussione, vengono pagati solo per aumentare l'audience e quindi favorire le risorse pubblicitarie. Si carica e si arrabbia in automatico, quasi a comando, come da copione autogestito, in un crescendo affabulatorio che appaga il suo ipertrofico ego di pseudointellettuale, soprassedendo alle tante vicende giudiziarie che negli anni lo hanno coinvolto abbondantemente in varie inchieste. Guai se qualcuno osasse ricordarlo! Scatenerebbe l’inferno e distruggerebbe gli studi e tutto il bel teatrino.

Credo sia arrivato il momento di emarginare in via definitiva questo venditore di chiacchiere e di se stesso, che, grazie all’aura luminosa che si è costruito come sommo esperto d’arte, di discutibile credibilità, si arroga il diritto di offendere, disprezzare e incitare alla violenza verbale, lanciando anche esempi e messaggi diseducativi.
Questo Paese, più o meno civile, può benissimo fare a meno di questo buffone di corte, servo opportunista di più padroni, e del suo “mitico sapere”.
Un buffone, prestato all’arte e alla politica per tutte le stagioni, gonfio di superbia e di arroganza trasversale. Un parassita pronto ad indossare i panni di qualunque personaggio nella comica commedia della sua vita, spesa nel segno della incolpevole capra. Tutto, purché appaghi il suo smisurato narcisismo, la sua innata megalomania: un saltimbanco in cerca di potere, di ricchezza e venerazione. Per questo non gli basta fare il suo unico mestiere che, pare, sappia fare.

Ha ragione Emiliano, presidente della Regione Puglia, accusato dall’esagitato vip di spargere retorica ideologica, quando dice: “In realtà, Sgarbi non esiste è solo uno stress-test per partecipanti a show televisivi. E’ una funzione a cui lui assolve con puntualità”.
Ci sarebbe, sempre e comunque, da carcerare Maurizio Costanzo, che Sgarbi l’ha inventato e costruito sulle tavole del Parioli, una trentina d’anni fa!
22 marzo 2017 (Alfredo Laurano)



venerdì 17 marzo 2017

QUELLA MUSICA NON SI PUO’ BOMBARDARE

A volte, sembrano sequenze di uno dei tanti film che parlano di guerra, invece sono squarci autentici della realtà siriana, oggi, diffusi da stampa, web e telegiornali, ai quali i nostri occhi e la nostra sensibilità, ormai, si sono abituati: case bombardate, cumuli di macerie, rovine, distruzioni, fiumi di sangue, vite sacrificate. 
Sono le immagini di Aleppo, la Bigia, che da museo a cielo aperto che era, è oggi disintegrata e demolita, privata della sua storia di convivenza millenaria, del dialogo fra fedi e etnie, dilaniata da uno scontro endemico tra l’esercito del regime di Al-Assad e i ribelli vari dell’Opposizione. E’ solo un campo di battaglia e quasi tutti i civili l'hanno abbandonata; alcuni sopravvivono in condizioni impossibili, senza niente, senza cibo, senza luce manca tutto, perfino l’acqua. Vi abitavano quasi due milioni di persone.
Già nota come la città più bella e antica della Siria, patrimonio dell'umanità secondo l'Unesco dal 1986 e capitale culturale del mondo islamico, è diventata una città fantasma, un luogo che semplicemente non esiste più, dove la morte prevale sulla vita, coltiva la paura, scaccia le speranze, annulla i desideri.

Della sua importante eredità artistica non resta nulla.
La guerra che si protrae senza regole da oltre cinque anni - oltre ad uccidere centinaia di migliaia di persone, soprattutto civili - ha cancellato monumenti, palazzi, hotel, ristoranti, luoghi di ritrovo, mercati, attività commerciali.
Per avere un’idea più precisa e veristica di tale sfacelo, basta andare su uno dei tanti siti che mostrano meglio di mille parole, cliccando su ogni foto, gli effetti devastanti del conflitto: alcuni luoghi simbolo di Aleppo sono infatti ritratti prima e dopo e dalle stesse angolazioni. 
E’ un confronto impressionante.
Vedihttp://www.corriere.it/reportages/esteri/2016/aleppo-prima-dopo/ 

Mohammed Mohiedin Anis, ha 70 anni e due mogli e otto figli già fuori dalla Siria.
Vive ancora in un quartiere di quella città squassata e mutilata perché si è rifiutato di abbandonare la sua casa e il suo paese. E’ stato ritratto in un edificio ridotto a pezzi, seduto sul letto, con la pipa in mano e intento ad ascoltare musica da un vecchio grammofono ancora funzionante.
La sua storia è singolare: laureato in medicina, parla cinque lingue e ha lavorato anche in Italia per un'azienda di cosmesi. Anis collezionava auto americane che oggi, dopo anni di guerra e bombardamenti, sono andate distrutte, come quasi tutta la città.
Solo la sua anima non è stata sbriciolata.
 (Alfredo Laurano)

SEGNALIBRI

E intanto il tempo se ne va.
Scriveva Seneca: “la vita si divide in tre fasi: ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà.
Di queste, quella che viviamo è breve, quella che vivremo è dubbia, quella che abbiamo vissuto è sicura. Questa infatti è quella sulla quale la fortuna ha perduto ogni suo diritto e che non può essere ridotta all'arbitrio di nessuno”

Ma noi, anche se ci guardiamo allo specchio tutti i giorni, non ci accorgiamo di queste fasi che attraversiamo anche in un solo momento, non cogliamo il mutare della nostra esistenza, il cambiamenti del nostro corpo, delle nostre percezioni.

Ce ne rendiamo conto solo quando un fatto, un nome, un volto o un’immagine ci offrono la prova certa di ciò che siamo stati, fissando un passaggio significativo del nostro cammino.
Sono occasioni da prendere al volo, testimonianze, spunti di riflessione che non possiamo ignorare.
Ogni tessera si ricompone in quel mosaico che caparbiamente o, a volte, casualmente, abbiamo costruito e via, via modificato e incrementato.
Tasselli colorati e irregolari che ridisegnano importanti pezzi di vita - oggi travestiti da ricordi - e che costituiscono le nostre radici e il nostro divenire.
Si cresce e si cambia, nel bene e nel male, ma nulla si cancella di ciò che è stato: l'unica certezza, appunto, che riconosceva lo stoico filosofo romano.
Anzi, rivivere certi momenti di quel campo seminato rinnova la gioia di averli vissuti e rimanda a una condizione di vera emozione e felicità.
La vita è una somma di esperienze, belle o brutte e, a volte, forse inutili e forzate, che siamo obbligati a fare, anche se non sappiamo bene a cosa e a chi servano dopo di noi.
Le nostre, quelle che ci hanno avvicinato ad altri, a chi abbiamo amato o che abbiamo condiviso, sono pagine preziose di un libro che racconta, con sentimento e nostalgia, il piccolo "mondo antico" della nostra fragile esistenza.
Ognuna contrassegnata da un indimenticabile e, a volte, meraviglioso segnalibro.

 (Alfredo Laurano)

DAR SOR ERMETE

Drogherie, mescite, latterie, pizzicherie: erano i negozi di un volta, oggi quasi scomparsi e sostituiti da super e ipermercati e centri commerciali.
Quei nomi di botteghe a carattere familiare evocano sapori e fragranze antiche.
Eppure, fino a una cinquantina di anni fa, rappresentavano la vita di quartiere, erano luoghi di incontro, di scambio e di riferimento sociale, economico e locale.
Lì, si faceva la spesa quotidiana, si comprava il latte in vetro, o si sorseggiava ‘na foglietta di vino, sbocconcellando due fettine di porchetta o di salame. Si respirava un’aria mite e casareccia, si condividevano veri momenti di vita semplice e pulita.
Entrando, si veniva subito colpiti dal misto di odori che vi regnava: profumi forti, aromi dolci, speziati e penetranti, di pane, di cannella, di pepe, di cacao, di zafferano, si sfidavano per prevalere in quelle piccole, tipiche botteghe, in cui c’era un po’ di tutto.
Tutto era venduto sfuso.
Lo zucchero si impacchettava nella carta blu, detta, appunto, da zucchero. La pasta nei cassettoni, il caffè, i legumi nei sacchi...tutto si poteva comprare a etti.
Si commerciava a misura d’uomo, secondo le tasche e i bisogni, in quei luoghi così odorosi di bontà e umanità.
Ora, tutto questo non c’è più, appartiene a un'altra epoca che si chiama passato: quel fascino, quei colori e quei profumi della bottega del mitico Sor Ermete all’angolo restano solo nei ricordi della nostra d'infanzia.

(Alfredo Laurano)

martedì 14 marzo 2017

SE COSI' VI PARE

Nonostante il ridicolo tentativo di arrampicarsi sugli specchi di un'improbabile verità, da parte dei consulenti della difesa, sembra assodato che Marco Vannini si sarebbe potuto salvare, se soccorso tempestivamente. I Ciontoli, invece, come è ormai noto, lo hanno lasciato agonizzare, tra indicibili lamenti, fino alla morte.
Lo hanno stabilito le dettagliate perizie dei medici legali, illustrate anche da crude immagini, nell'udienza di oggi del processo Vannini.
Ma anche se di ciò non vi fosse certezza o, addirittura, per assurdo, si avesse la prova del contrario - cioè che nulla si potesse fare e che il povero ragazzo sarebbe morto comunque - le colpe criminali di quel clan sarebbero minori, più lievi o quasi inesistenti?
Sarebbero forse innocenti, in quanto spettatori casuali di una tragica disgrazia, o non tutti complici di un efferato omicidio?

Forse, in parte, per stabilire l'entità della condanna.
Ma, al di là di come si sono realmente svolti i fatti, niente cambierebbe, sul piano morale e giuridico, delle loro precise responsabilità o perdonerebbe l’incomprensibile comportamento disumano di cinque persone adulte, capaci di intendere e volere, sia pur prese da panico e paura.
Imperizia, malafede, calcolo, leggerezza, superficialità: nessuna cosa al mondo potrebbe mai giustificare quegli esiziali ritardi, quelle gravissime omissioni e quei maldestri tentativi di vile depistaggio.
Nulla li assolverebbe dai loro misfatti, dalle loro nefandezze.
 13 marzo 2017 (Alfredo Laurano)


ALL’OSTERIA DES AMIS

Gli amici si vedono e ti vengono a trovare nel momento del bisogno.
Senza voler entrare nel merito dei brutti fatti e della dinamica che ha determinato l’uccisione di un giovane rapinatore, penetrato nottetempo nel bar osteria di Lodi per rubare; senza voler giudicare le responsabilità penali dell’oste che ha sparato - che verranno accertata nelle sedi opportune - e, soprattutto, senza disquisire sull’inevitabile dibattito sui limiti della legittima difesa, tema complesso da affrontare con pudore in altre sedi e con i giusti spazi, non si può ignorare questa sorridente immagine e ciò che rappresenta.
Dopo aver sfruculiato De Magistris e un bel po’ di napoletani - a parte un centinaio di imbecilli che in piazza gli hanno regalato un troppo facile spot in nome della democrazia violata - il crociato padano Salvini, che non perde un’occasione di qualsiasi tipo, è andato a riscuotere un altro po’ di consenso in quell’osteria.

Per speculare anche sulla triste vicenda di un essere umano ucciso con un fucile, ha voluto esprimere la sua vicinanza all’indagato e consumare una cena di solidarietà, come fosse un vecchio amico: ma guarda chi c’è! Che piacere! Sorrisi, abbracci, strette di mano, un brindisi e pacche sulle spalle.
Poi, la prova documentale: la fotografia di rito ad uso familiare, non destinata però al vecchio album dei ricordi, ma ai vari social, alle TV, ai talk e per la stampa che a iosa la diffonderà, insieme al verbo del popolo padano.
Quella foto ricordo della serata importante sarà poi incorniciata e appesa al muro del locale, per testimoniare un evento non comune e un cliente vip che non tutti possono vantare.
Di quello sparato, invece, non vi sarà più traccia, se non nelle questure e nei tribunali.
13 marzo 2017 (Alfredo Laurano)