venerdì 28 novembre 2014

RACCONTARE L'AMORE

Per buona parte degli italiani, la televisione è ancora “il vecchio focolare”. Non più come quello della scatola magica e quasi miracolosa che, negli anni cinquanta - sconvolgendo ritmi, usi ed abitudini - entrava nelle case di tutti e riuniva le famiglie, in un clima di stupore, di entusiasmo e di una qualche diffidenza. 
Ma come strumento alternativo e rassicurante, come bene privato di rifugio e di conforto.
 
Oggi, anche se il suo ruolo è profondamente cambiato e impoverito per effetto delle nuove tecnologie, la televisione rappresenta ancora una finestra aperta sul mondo: importa e distribuisce informazione, procura evasione e svago e garantisce una sicura compagnia. All'occorrenza, favorisce anche il sonno e il buon riposo.
Genera, comunque, interesse e partecipazione, in un coacervo di ansie, paure, piacere e disimpegno.
Attraverso messaggi, programmi e palinsesti, orienta scelte d’ogni tipo in ambito sociale, politico, commerciale, didattico e psicologico e condiziona comportamenti individuali e collettivi, .
Il suo potere persuasivo è arcinoto ed innegabile.

Ma, a dispetto dei telegiornali, dell’intrattenimento, delle inchieste e dei tanti talk show che trattano l’attualità, la cronaca, i fatti di sangue, le vicende internazionali e le chiacchiere renziane sul Jobs act, è la grande fiction che decisamente conquista il pubblico televisivo.
Ci sarà pure un perché!
Overdose da eccessiva esposizione informativa? Saturazione del livello di guardia cognitivo? Stress da iperconnessione non stop e da bombardamento mediatico di offerte e servizi irrinunciabili?

E’ un momento sicuramente difficile, dove la crisi economica e del lavoro si sovrappone alle tante forme di guerra nel mondo e di violenza nelle città, nelle strade e nelle periferie. Dove l’odio e il razzismo si confrontano e si scontrano con la paura e l’insicurezza. Dove i diritti sono sconfitti dall’abuso e dal degrado. Dove l’altro è sempre un nemico che ci minaccia e mette a rischio certezze, garanzie e privilegi.

C’è stanchezza, timore, disamore, disgusto e intolleranza. Cresce la rabbia e la protesta, l’esasperazione e la voglia di Far West, che qualcuno alimenta, soffiando sul fuoco della diversità e della contrapposizione. Si aggrava il malessere sociale, il disagio e la misura della sopportazione è colma e rischia di esondare.
Aumenta il disinteresse e la disaffezione alla cosa pubblica, al confronto delle parti.
A votare vanno sempre in meno e vince sempre l’astensione.

Per tutto questo, forse, e per legittima difesa, sale e si diffonde una gran voglia di serenità e semplicità, un sentito bisogno di normalità e di storie a lieto fine, dove i personaggi sono umani, con tutti i limiti, le contraddizioni e le fragilità di ognuno e di chiunque.

Uomini, donne e bambini che amano, ridono, soffrono, combattono, piangono ed esprimono sani sentimenti. Che dopo un po’, trascendono dalla propria lodevole sceneggiatura, perdono i contorni della virtualità narrativa e diventano una specie di parenti, di vicini di casa o amici di famiglia, a cui ci si affeziona veramente.
Quando tutto ciò si realizza, con capacità e qualità, nel rispetto dei fatti, di una fedele analisi storico-temporale e di una corretta interpretazione filologica si raggiunge l’acme del successo popolare: la narrazione si fa fluida e si traduce in poetiche sequenze che catturano un’emozione collettiva.
In fondo, coltiviamo e conserviamo sempre un certo desiderio di favole e magia, unito a un pizzico di sano romanticismo.

Proprio come la prima serie, anche la seconda stagione di “Questo nostro amore” ha ottenuto, quindi, un larghissimo consenso.
Puntata dopo puntata, il pubblico si è appassionato alle vicende delle due famiglie (quella dei concubini Anna e Vittorio e degli immigrati Teresa e Salvatore e relativi figli), che a Torino vivono il clima e i cambiamenti dell’Italia degli anni ‘60 e ‘70. 
Tra censure e bigottismo, tra amori e tradimenti, tra pregiudizi e difficoltà economiche, tra conquiste sociali e prese di coscienza, il film ha stupito tutti per l’eleganza, la semplicità e la naturalezza con cui è stata raccontata l’Italia di quegli anni. Per l’eccellente interpretazione degli attori, per le scene, le ambientazioni, le musiche e i costumi.


Per molti, un coreografico tuffo nel passato - forse per non pensare ai problemi del presente - che non punta a sfogliare una leziosa antologia di ricordi, rimpianti, luoghi comuni e valli della nostalgia, magari costellata di compiacimenti estetici o possibili ricami caricaturali e che, soprattutto, evita di cadere nella trappola dell’ovvietà e nella banalità del mito e della leggenda. Pur suscitando momenti di autentica commozione.


Anzi, senza restare relegati in quel periodo storico, protagonisti, dialoghi e situazioni si rispecchiano nei nostri tempi stimolando un ulteriore interesse e una motivazione in più, in un pubblico eterogeneo, composto da adulti e anziani, ma anche da chi quell’epoca lontana di svolte, cambiamenti, contestazioni e libere scelte, la conosce solo attraverso le cronache, i libri e la Tv.

Un pregevole lavoro che, con garbo e delicatezza, celebra la vita, i sogni e la speranza e che cesella, con sensibilità e giusta misura, caratteri, personalità e sentimenti.
Non poco nell’era dei tagliatori di teste.
 (Alfredo Laurano)


MEZZO SECOLO D'AMORE

Scritto il 29 ottobre 1995 come testo dell'omonimo filmato, girato per le nozze d'oro dei miei genitori. Fu un giorno indimenticabile, una vera festa dell'amore e dei sentimenti che li commosse e li frastornò di gioia e di emozioni.
Da parte mia, un minuscolo risarcimento alla loro totale dedizione e ai tanti sacrifici. Sono sempre nel mio cuore e nei miei pensieri
Mia madre se n'è andata due anni fa e fra tre giorni, saranno tredici anni dalla scomparsa di mio padre.
Così li voglio ricordare e continuare ad amare:
"...hanno gli occhi dei fanciulli, che del mondo hanno l’incanto".

MEZZO SECOLO D’AMORE

C’è una favola mai scritta che vi voglio raccontare….
E’ la storia di un amore,
nato un giorno assai lontano,
quando ancora era vicino
l’eco e il fumo del cannone.

Poi, il tempo ha cancellato
quei momenti tristi e bui
e negli anni ha rinforzato
un legame collaudato.

Quell’unione ha partorito
tre creature fortunate
d’esser nate in una casa
che d’amore le ha viziate.

Tutto ad esse è stato dato
e mai niente risparmiato.
E la prova più evidente
è nel testo qui corrente.

D’esser grati è dire poco,
ci vorrebbe un libro intero
per esprimere davvero
cosa cela ogni pensiero.

In un mondo così guasto
tanto amore appare strano,
sembra sogno o fantasia,
dolce come un’armonia.

E’ una storia di persone
che a dispetto degli eventi
son rimaste unite e pure,
belle fuori e ancor più dentro.

Sono semplici e spontanee,
generose, aperte e serie:
hanno gli occhi dei fanciulli,
che del mondo hanno l’incanto.

C’è qualcosa nella vita
che abbia un senso per l’umano?
Forse si, è un sentimento
che ci nasce in fondo al cuore,

che ci guida e ci consiglia,
ci incoraggia e a nul s’appiglia.
Tutto questo mi è donato
e grazie a Voi, io l’ho imparato.

Se ho nutrito anch’io i miei figli
di rispetto e di valore,
devo a Voi tutto l’onore
d’esser fiero e soddisfatto.

Ma ora è tempo di far festa
e di prendere coscienza
che i miei cari genitori,
dopo tanti sacrifici,

han goduto il privilegio,
solo a pochi riservato,
di contare, ad ore, ad ore,
mezzo secolo d'amore.

29 ottobre 1995       (Alfredo Laurano) 

                                                                                 

sabato 22 novembre 2014

MORIR D'AMIANTO


Un'altra sentenza scandalosa. Si può prescrivere la verità e la speranza di giustizia? E la responsabilità di una strage, di un disastro ambientale, di un vero crimine contro l’umanità?
Dopo la sentenza Eternit, è ancora più evidente quanto le attuali norme sulla prescrizione, regolate dalla cosiddetta legge ex Cirielli, approvata dalla maggioranza berlusconiana nel 2005, siano ben lontane dal criterio di giustizia.  Vanno assolutamente cambiate.
Come dice Don Ciotti, “che leggi sono quelle che ammettono la prescrizione per reati gravi, tali da configurarsi come una vera e propria strage, e i cui effetti si protraggono oltre i tempi stabiliti per la loro punibilità?".

La preziosa (per alcuni) prescrizione, così concepita, incentiva il crimine, perché offre una possibile via d’uscita, un percorso legale per farla franca, pur nella evidente colpevolezza. Ma nessuno fino ad oggi ha fatto nulla per modificarla.
Ora, di fronte a un fatto che colpisce e indigna la pubblica opinione, tutti sono pronti a intervenire con inaudita collera e furore. 
Con buona pace di Berlusconi, Verdini e amici vari che l’hanno sfruttata per sfuggire a probabili, se non certe, condanne per una serie di reati vari, grazie anche ai loro eccellenti avvocati che hanno saputo tirare per le lunghe i tempi dei processi con cavilli, espedienti e rinvii, fino al raggiungimento dell’obiettivo: la caduta dei termini di legge.
Quanta vergogna, quanta ipocrisia in quelle aule di ingiustizia!

Nel nostro sistema, unico al mondo, i tempi della prescrizione non si interrompono nemmeno dopo le condanne di primo e secondo grado e portano spesso a lasciare impunito un ormai quasi certo colpevole. Chi è innocente non ne ha bisogno.
Per i reati più odiosi e più gravi si dovrebbe abolire o, almeno, interromperne la decorrenza all'atto del rinvio a giudizio, come accade in tutti i paesi civili.

Il senatore Felice Casson, ex magistrato, ha dichiarato che “la responsabilità maggiore di questa nuova ingiustizia è del Parlamento e di chi, anche all'interno del governo, ha bloccato le nuove norme sulla prescrizione, pronte da mesi per essere approvate”.

Lo stabilimento Eternit di Casale Monferrato, per molti anni ha avvelenato persone e ambiente circostante, disperdendo polveri di amianto. Ha causato migliaia di morti e patologie gravissime.
Negli anni Cinquanta cominciarono le malattie e le morti degli operai che vi lavoravano  e le proteste e gli scioperi per avere maggiore tutela della salute nel posto di lavoro. 
Negli anni Sessanta iniziarono ad ammalarsi e a morire anche persone non direttamente occupate nella fabbrica. 
L'amianto era usato dappertutto, sia come materiale ignifugo, che nelle costruzioni di case, scuole, acquedotti e ospedali e, a tutt’ oggi, non è del tutto e dappertutto smantellato.
I casi di contaminazione proseguono ancora, nonostante la produzione di lastre in amianto sia stata da molto sospesa (la malattia ha un periodo di incubazione di circa 30 anni).

La fabbrica ha chiuso nel 1986, il processo è iniziato nel 2004 e la sentenza di primo grado è intervenuta nel 2012, la seconda un anno fa. L’altro giorno, è stata sancita la prescrizione della condanna: nessun colpevole!
Se gli effetti dell'amianto erano già conosciuti da così lungo tempo, si sarebbe dovuta processare, per inerzia, indifferenza e per responsabilità morale, anche la classe politica che non è mai intervenuta e ha finto di non sapere e non vedere.
Questa sentenza della Cassazione che virtualmente la assolve, insieme allo stesso proprietario svizzero della multinazionale, calpesta la dignità delle tante vittime e dei parenti, umilia l’idea di giustizia e conferma l’imperante logica del profitto, per la quale il denaro conta più della vita umana.
21 novembre 2014                                       (Alfredo Laurano)





mercoledì 19 novembre 2014

C'ERA UNA VOLTA UN PAESINO...


C'ERA UNA VOLTA UN PAESINO...
Comincia così, con voce fuori campo, uno dei film della serie Peppone e Don Camillo, girati a Brescello, negli anni ‘50 e ‘60.

Ma non era una scena, ispirata dai romanzi di Giovanni Guareschi, quella che ha visto ieri il parroco del paesello emiliano portare la statua del “Cristo parlante” in processione sulle acque del fiume Po.
Il Cristo di Don Camillo per fermare la temuta piena e per chiedere protezione e aiuto. Proprio come nel film che l’ha resa celebre.
La processione è stata seguita da qualche centinaia di persone e dalla fede di tutto il paese, preoccupato per la violenta piena del grande fiume. 
Presenti anche il sindaco e le autorità locali. 

Dalla chiesa di Brescello - noto set, con la piazza, la casa del popolo e la stazione, delle tante divertenti storie interpretate dai mitici Fernandel e Gino Cervi - è arrivata fino al punto dove il fiume Enza sfocia nel Po. 
Qui, don Evandro Gherardi, nei panni di novello don Camillo, è entrato nella golena allagata, per fermar le acque minacciose. 
"Questi disastri naturali - ha sottolineato - sono colpa anche dell'uomo che sfrutta eccessivamente e in maniera sbagliata il territorio".

Cristo, miracolo, prodigio o stregoneria…. nel pomeriggio il livello del Po non è più cresciuto! (...Anche perché aveva smesso di piovere)
Grande Fernandel!
19 novembre 2014                                                (Alfredo Laurano)

Consiglio di vedere la sequenza su: http://youtu.be/MZbaPcesh-0 


..."Gesù, se le case oneste di questo porco paese potessero galleggiare come l'arca di Noè io vi direi .. Fate gonfiare il fiume, che strabocchi, che spacchi l'argine e sommerga tutto il paese. Ma, siccome la gente onesta vive in case uguali a quelle dei farabutti e sarebbe ingiusto punire i buoni per la colpa di questo Peppone e della sua ciurma di senza Dio e senza legge, io vi prego si salvare il paese dalle acque e di dargli prosperità. Amen!"
Fantastica, da non perdere.




sabato 15 novembre 2014

CHE CI AZZECCA?

Lo scopo è sicuramente raggiunto. Da oggi se ne parlerà, per giorni e settimane, sulla stampa, sul Web, su tutte le TV, nei talk di intrattenimento domenicali, pomeridiani e di prima serata. Immagino già il mellifluo Vespa, il paraculo Giletti, la veggente Madonna D’Urso, il populista Del Debbio, Striscia e il sempre compiacente Studio Aperto. Non mancheranno, ovviamente, le reprimenda e i predicozzi della curia vescovile.
Ognuno dirà la sua, con enfasi o malevolenza, a favore, indignato, ostile, convinto o contrario. Laici contro credenti, razionalisti contro clero, libertari contro integralisti, maschilisti contro femministe.
L’occasione è ghiotta, il tema è attuale e molto popolare e Francesco, il papa che non tace e rompe l’etichetta vaticana, fa notizia sempre.

anch'io non mi sottraggo e dico la modesta mia, anche se so, e me ne dolgo, che faccio il gioco di chi strumentalizza per fare ascolti e per pubblicità.
Ma queste sono oggi le regole del gioco quando si fa o si discetta di media e di comunicazione. Ignorare o far finta di non vedere, non sentire o non sapere non paga la coscienza critica e non aiuta la causa della dell’antibanalità.
 Anno Uno, ieri sera.
Sul finire, irrompono le Femen, in tenuta da combattimento, calzoncini e tette ignude e pennellate, usate per lavagna: “Attenzione, i nostri diritti sono in pericolo: siamo qui per rivendicare laicità, la separazione tra Stato e Chiesa”.
Una esibizione completamente fuori luogo, surreale e senza senso.
In una trasmissione in cui si discuteva di lavoro e disoccupazione, dei diritti di studenti e di operai e del ruolo del sindacato, la stridula conduttrice Giulia Innocenti - che si è detta “orgogliosa”, ma di che non si è capito - ha ospitato a sorpresa un coup de theatre, un proclama-pagliacciata, a seni al vento, delle note attiviste femministe che ci avvertivano dell’imminente attacco ai valori della laicità, che porterebbe il papa, con la sua annunciata visita a Strasburgo, il prossimo 25.

Con tutto il rispetto per le tante iniziative delle coraggiose ragazze ucraine, che in passato ho condiviso ed approvato, l'idea di preoccuparsi per la tenuta laica di una istituzione politica come il Parlamento europeo - della quale nemmeno fanno parte - per il solo fatto che il papa ci terrà un discorso, è piuttosto singolare e un anche po’ comica.
Hanno la guerra vera in casa, il loro Paese è diviso e dilaniato dall’orrore e dalla violenza, i governi brutalmente rovesciati, la popolazione in miseria, l’economia in caduta libera, schiacciata dalla Russia... e loro che fanno? Usano il corpo per protestare contro la minaccia alla laicità?
E non di meno, fanno scappare, offeso, dallo studio anche l’illuminato imprenditor Brambilla che, fino a quel momento, non s’era scandalizzato nemmeno per le sue stesse cazzate che aveva sparato, per attaccare l’ ”arcaico” Landini e il sindacato.

***
Ferme restando tutte le ovvie considerazioni sulla separazione fra stato, chiese e religioni, sui tanti danni che queste fanno in tutto il mondo e hanno sempre causato nella storia umana, sul controllo e sull’orientamento delle coscienze, nonché sulla potenza politico-finanziaria del Vaticano o di ogni altro sistema basato su un credo e sulla fede, non credo che un intervento del papa (o, per meglio dire, di questo papa) in un parlamento possa costituire un pericolo, né per la democrazia, né per la laicità delle istituzioni.
***
Pur rappresentando un miliardo di persone, non ha nessun potere decisionale in quella sede, ma svolge solo la funzione di diffondere un messaggio, che può essere condiviso o meno, a livello individuale o internazionale. Ne leggiamo tutti i giorni, anche da parte di ebrei, islamici, musulmani moderati e di Jihadisti.
Ciò che mette davvero in pericolo la democrazia è il voler impedire di parlare a chi la pensa diversamente da noi. 
Come succede proprio alle Femen, sempre represse nella loro sete di protesta e di denuncia.
Stavolta hanno usato la stessa arma che incombe su di loro.

***
Dopotutto, siamo uno stato laico per modo di dire, o solo quando ce ne ricordiamo, visto che la Chiesa mette bocca su tutto: dalla politica, all’economia, alla scuola, alle leggi, alle elezioni e non paga l’Imu.
Certe patetiche sceneggiate, percepite dai più come grossolane trovate alza share, non servono al dibattito e non aiutano il confronto.
Andrebbero evitate, anche per non dar luogo alla immediata, inevitabile caterva di proteste, di reazioni, di insulti e di facili ironie da parte dei bigotti e di chi non vede l’ora di scotennare il miscredente.

14 novembre 2014                      (Alfredo Laurano)

***Il giorno dopo, a piazza S. Pietro

Video del Corriere della Sera al seguente indirizzo:
http://video.corriere.it/femen-invadono-piazza-san-pietro-portate-via-peso-polizia/9635aa76-6bee-11e4-ab58-281778515f3d


martedì 11 novembre 2014

MURI

Una breccia nel muro che divide Israele dalla Cisgiordania, un colpo di martello che ha ancora più significato perché sferrato nella ricorrenza dei 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino. Un gesto dal grande valore simbolico nell’infinita guerra tra israeliani e palestinesi e nella separazione tra due popoli che, fino al dopoguerra, oltre sessanta anni fa, riuscivano a convivere.
Come racconta “Il Fatto Quotidiano”, alcuni giovani della West Bank hanno individuato, tra Gerusalemme e Ramallah, una parte poco controllata del serpentone di oltre 730 chilometri che corre lungo tutto il confine e armati di mazzuolo, lo hanno colpito fino ad aprire un buco grande abbastanza per permettere il passaggio di una persona.

“Non importa quanto alte siano, le barriere cadranno. Come è caduto il muro di Berlino, cadrà anche il muro palestinese”, hanno dichiarato gli organizzatori dell’iniziativa.

Un’ occasione in più per ricordare e rifiutare tutti i muri che ancora oggi separano le genti e per alzare e concepire solo quelli di case, scuole, fabbriche e ospedali.
10 novembre 2014 
           (Alfredo Laurano)

domenica 9 novembre 2014

AMERICANATA

Ma ve l’immaginate Berlinguer o Togliatti o, addirittura, Gramsci che invitano a cena il gotha dell’imprenditoria italiana per finanziare il partito? 
Si, è vero, erano altri tempi e gli industriali erano schiavisti e si chiamavano padroni. Oggi, senza classi, senza ideali, né padroni, domina il profitto e il pragmatismo.

Circa 800 imprenditori, presidenti vari, dirigenti d’azienda, consulenti e uomini di affari hanno pagato mille euro per sedersi a tavola con Matteo Renzi e le sue immancabili ancelle coccodè, Boschi e Moretti.
Più di sessanta tavoli coperti di lino bianco e rosso e il catering degli chef di Eataly di Oscar Farinetti hanno allestito la scena del fund raising (raccolta fondi), come è obbligatorio dire oggi: mille euro per pura filantropia e per il superiore bene dell’Italia, per far parte del renzismo. Senza, ovviamente, alcun interesse personale.
Civati ha organizzato una colletta provocatoria per mangiare con il “compagno” premier.

Questo, oggi, è il PD: un partito di élite, esclusivo per gente bene e danarosa.
Che strizza l’occhio alla Confindustria e si prostra alle leggi della finanza e del mercato.
Che insegue l’ex popolo di Arcore e disprezza lavoratori e Sindacato.
E questo è il popolo di Renzi, molto uguale a quello di Berlusca, senza ancora le Minetti, i Lelemora e il bunga-bunga. Ma non perdiamo la speranza!

“Prima ancora dei vostri soldi, abbiamo bisogno delle vostre idee, delle vostre critiche, del vostro coraggio”, ha detto mister Bean - con aria grata, da buon ruffiano adulatore - nel suo discorso di ringraziamento.

Mi permetterei di aggiungerei, però, “mostrate a tutti, con orgoglio da contribuente americano, il vostro limpido 740 e se vi rimane qualche sudato risparmio, portatelo alle Cayman”.

7 novembre 2014    (Alfredo Laurano)
                                                               

mercoledì 5 novembre 2014

IL POETA DELLA DOGLIA UMANA


Chi non ha mai visitato Recanati, Palazzo Leopardi, le tante stanze della ricca biblioteca e gli altri suggestivi luoghi leopardiani (il Colle, la piazzetta, la torre), scopre subito, all’inizio del film “Il giovane favoloso”, la difficile adolescenza del poeta nell’ odiato borgo natio.
Scopre il giovane Giacomo, dalla salute cagionevole, ma dotato di grande lucidità intellettuale e di sottile ironia, intento nel debilitante e continuo studio “matto e disperatissimo”.
Lo vede crescere nel culto della filologia e delle letterature classiche, fra traduzioni e versi che compone nella casa-prigione-biblioteca, dalle cui finestre si strugge di malinconia per Silvia.
Scopre il conflittuale rapporto con il padre, il conte Monaldo, affettuoso e protettivo, ma severo conservatore, che ama profondamente il figlio, ma non riesce ad incontrarlo a fondo: Quando provo ad avvicinarmi al tuo cuore ci inciampo dentro”.
Quello giocoso e complice con gli amati fratelli Carlo e Paolina… “non stancarti di volermi bene!” e quello inesistente con l’algida e bigotta madre, priva di qualsiasi slancio e di carezze.

Chi lo ha fatto (visitato), invece, tutto questo lo ritrova e lo rivive sullo schermo, perché, in qualche modo, l’aveva assorbito, immaginato o sognato, osservando quei luoghi magici e parlanti.
In entrambi i casi, tuttavia, si ha la sensazione di riscoprire, più che di provare, un serie di emozioni innate o naturali, latenti o conosciute.
Un po’ come accade nella dottrina platonica della reminiscenza: la nostra anima, prima di calarsi nel corpo, è vissuta nel mondo metafisico delle idee di cui conserva un sopito ricordo e, grazie all'esperienza delle cose - che sollecita la memoria - rievoca ciò che ha già visto nell'Iperuranio. Per cui, Platone dirà che conoscere equivale a ricordare.
Nel nostro caso, quindi, è come se quel leggendario giovane l’avessimo sempre conosciuto, nel suo contraddittorio “iperuranio recanatese”.

Il Giovane Favoloso è un film biografico, avvincente, scorrevole e coerente, dove la poesia è protagonista, ma è anche il resoconto di una continua lotta fra luoghi comuni. Una lotta senza fine che Leopardi condusse non solo e non tanto contro il suo corpo, ma contro l'immagine, i preconcetti e gli abusati sillogismi a cui altri lo inchiodavano: pessimista perché infelice, infelice perché storpio. Dunque solo ed emarginato, sempre.
A Napoli, si arrabbia molto quando, seduto a un caffè, sente affermare da un avventore che la sua visione dell’esistenza e del mondo deriva dalle sofferenze del suo corpo: “non attribuite alle mie malattie ciò che è responsabilità del mio intelletto”, urla Leopardi, sbattendo il bastone a terra, per rivendicare, orgogliosamente, la propria autonomia di pensiero.
Ancora oggi, troppo spesso e anche nelle scuole, gli si appiccica la banale etichetta di pessimista: “pessimismo…ottimismo, che parole vuote e senza senso!”, ma in verità è un uomo malinconico, cinico e disincantato che si pone infinite domande sulla vita e sulla cruda realtà della natura. Un uomo solo, abituato ai silenzi e ad osservare gli altri nei quotidiani affanni.

Martone ne racconta l’avventura umana, la sua dimensione affettiva, ben oltre quella di simbolo letterario e culturale. “Io non ho bisogno di stima, o di gloria o di altre cose simili. Io ho bisogno di amore, di entusiasmo, di fuoco, di vita...Vivere a caso. Non chiedo altro in fondo”.
E’ il ritratto di un'anima fragile, ma profonda, libertaria e romantica. Un’anima sensibile, capace di cogliere i cambiamenti della società e i tormenti dell’individuo, pur prigioniera in un corpo piccolo e deforme, con tutte le sue paure, le emozioni, le incertezze, le passioni e i turbamenti.
Ma non di questo fu infelice e vittima il poeta. Lo fu della sua intelligenza e del suo bisogno di conoscenza.

Con immensa tenerezza e senza indulgere nella pietà, ci regala un Leopardi assalito dal dubbio, come strumento di conoscenza ("Chi dubita sa, e sa più che si possa"), ma vero, intenso e determinato nei sentimenti più profondi, nella sua voglia di amare, di sognare, di vivere, spesso sopraffatta dalla sofferenza fisica, sempre presente sullo sfondo, come un fil rouge e come contraltare al suo estro e al suo talento. 
Ci narra la sua fanciullezza e la preziosa amicizia epistolare, che inciderà non poco sulla sua formazione, con Pietro Giordani, il letterato che subito ne colse la genialità.
Quella con il fidato Ranieri - che forse fu qualcosa di più e di più intimo - che lo protegge, lo cura e lo salva da tutto.
I tre luoghi che più hanno segnato la sua esperienza umana e artistica: dalla chiusa e stretta Recanati, alla Firenze intellettuale dei circoli politici e letterari che lo emargineranno e infine, passando per Roma, alla fatata e gioiosa Napoli, patria di Martone, non a caso, forse, la parte più vivace e ispirata dal punto di vista figurativo.

Qui, due scene di graffiante suggestione e qualità: la vera e propria discesa agli inferi di una carnalità dal sapore felliniano, con il timido e deriso Giacomo che annaspa e si trascina fra le grotte delle colorite prostitute napoletane e la dura invettiva contro la Natura maligna, rappresentata da una gigantesca statua di sabbia, con le fattezze di sua madre, che si sgretola lentamente.

Sono sequenze di forte impatto visivo, che preludono al finale, dominato dal colera che si diffonde in Napoli e dalla chicca del “sterminator Vesevo” in eruzione, che sembra “ascoltare” i versi della “Ginestra” - suo testamento spirituale - che ne attenuano le fiamme ed i lapilli e nel contempo sublimano le paure e lo stupore del poeta: uomo, natura e poesia si fondono in un’unica realtà.

Per alcuni, il film appare didascalico e didattico. O, per meglio dire educativo. Forse lo è, intenzionalmente, e non credo sia un difetto. Se un’opera o una qualsiasi forma d’arte, è capace, di riflesso, anche di insegnare qualcosa, affascinando, ben venga, soprattutto in un momento storico, come l’attuale, di evidente disimpegno e di forte rischio di deriva culturale.
Vita, poesia e filosofia si fanno cinema, si traducono in suoni, immagini e suggestioni.
Sono un tutt’uno e si intrecciano nella storia del “favoloso” recanatese. Non si possono separare, devono essere fruite e godute come unica, poliedrica e composita realtà, se si vuol comprendere il mondo leopardiano.

Non per niente, il Leopardi “umanizzato” di Martone recita l’Infinito, proprio tra le siepi dell’ermo colle, mentre sforza la vista e la mente per oltrepassare il limite. Cammina tra le strade di Recanati, sorride alla bella vicina, abbraccia commosso l’amico Giordani, si entusiasma per una partita di pallone o osserva una gallina che razzola in su la via, senza che ci sia stata la tempesta. 
Reclama il suo diritto al piacere e ai peccati di gola: la bella Fanny e l'adorato gelato.
Va, quindi, oltre la proverbiale, scontata infelicità, per trovare anche sorrisi e momenti di serenità in un giovane ribelle, capace di opporsi alla rigida educazione familiare, alle convenzioni sociali dell’epoca, che tendono a emarginarlo. Un uomo libero di pensiero, ironico e socialmente spregiudicato che, come dice lo stesso Martone, va sottratto una volta e per tutte alla visione retorica che lo dipinge afflitto perché malato.
E’ un Leopardi sognante e furioso, non più o non solo avvilito e rattristato, ma deciso e politicamente combattivo, quando afferma: “Il mio cervello non concepisce masse felici fatte di individui infelici".

Resta un film straordinario, coinvolgente e commovente, che racconta, anche attraverso le sue debolezze, la storia della sofferenza umana, non solo fisica, e la grandezza poetica e filosofica di un genio che, quanto più il suo corpo si ripiegava su se stesso, tanto più si liberava e giganteggiava.
Che rovescia schemi, cliché, nozionismo scolastico e luoghi comuni - dimentichiamo quella figura di uomo triste e cupo che certi docenti ai più hanno consegnato - per restituirci senza ridondanze enfatiche un pensatore eretico e moderno: bellissima la sequenza “pasoliniana” dei ragazzi che uccidono le lucciole, con cinismo e noncuranza.

Qualcuno ha scritto che dovrebbe diventare un film obbligatorio, un passaggio imprescindibile nella formazione dei giovani. Abbiamo ammazzato Leopardi sui libri, ora è vivo grazie al cinema. Si spera possa essere adottata dalle scuole per rianimare stanche lezioni e smorte antologie. Gli studenti ne trarranno beneficio. Gli insegnanti di più.

Magistrale la prova di Elio Germano, ma anche quelle di tutti personaggi, credibili e aderenti. Accurata la sceneggiatura, mirabili le scene e le ambientazioni, i costumi, la fotografia e la musica, anche se la vera colonna sonora sono i suoi versi.
“Ecco, così si filma la poesia!”, ha riassunto, efficacemente, Bertolucci.

"Nel ‘900 non ne resterà neanche la gobba", fu, invece, la disgraziata (e oggi comica) previsione del linguista coetaneo Niccolò Tommaseo, che poco amava il giovane favoloso!
Infatti, quella gobba non c’è più. In compenso, però, è rimasta un’immensa eredità culturale, patrimonio dell’umanità, che Martone ci ha superbamente raccontato.
 5 novembre 2014     (Alfredo Laurano)