domenica 29 gennaio 2017

MEMORIE D’INCIAMPO

Sulle facciate di tanti palazzi di città europee, siamo abituati a leggere targhe, incise nel marmo o nel metallo, che ricordano illustri personaggi dell’arte, della scienza, della politica e del mondo culturale in genere, che lì hanno vissuto, composto o soggiornato.
Ma, da qualche tempo, anche camminando per le strade, ci si può imbattere in pietre davvero particolari, nei pressi dei portoni e degli ingressi degli edifici: piccole targhette in ottone lucente che ricoprono un blocchetto del lastricato, tipico del sampietrino del centro storico di Roma.
Fanno parte di un progetto artistico, animato da ragioni etiche, storiche e politiche.
Si tratta delle Stolpersteine, ovvero pietre d’inciampo, installate nel tempo - a partire dal 1995 a Colonia - in tutta Europa dall’artista tedesco Gunter Demnig, dedicate alla memoria di tutti i deportati, razziali, politici, militari, nomadi e omosessuali, in tutto il mondo.
Semplici, discrete, diffuse e prive di retorica, hanno le dimensioni proprio di un sampietrino (10x10), su cui è posta una scritta per ricordare le vittime della follia umana. Ad oggi, ne sono state installate 56.000 in 17 Paesi europei.

Chiunque le incontri, anche casualmente, non può non soffermarsi un attimo a riflettere e a interrogarsi su ciò che è stato, attivando un vero e proprio viaggio nella storia. Anche perché creano un “inciampo” metaforico nella nostra mente, dove coscienza e conoscenza si intrecciano tra passato e presente, tra ricordi personali e memoria collettiva.
Nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte, quando conosciuta. Sono collocate sul marciapiede prospiciente l’abitazione dei deportati: da lì sono stati prelevati, strappati ai loro affetti e alle loro occupazioni, per essere uccisi senza ragione, finiti in cenere o in fosse comuni, privando così i famigliari e i loro discendenti persino di un luogo dove ricordarli.
Grazie alle “pietre d’inciampo” tornano ora nelle loro case, con dignità di persone, per essere ricordati dai parenti, dagli inquilini del palazzo, dai tanti cittadini che ogni giorno transitano lì davanti.
A riprova di quanto sia necessario non dimenticare, con ogni mezzo e in qualsiasi modo, proprio in questi giorni della Memoria, a Milano, qualcuno ha imbrattato con la vernice nera la pietra-targhetta in memoria di Dante Coen, appena posata nel marciapiede davanti alla sua casa.
Ma la Storia non si cancella e non si cancella la memoria, con nessun tipo di vernice.
Né con quella del revisionismo o del negazionismo, né con quella dell’indifferenza, dell’odio e del più volgare oltraggio.
Basta inciampare in una pietra per ricordarlo.
 (Alfredo Laurano)

sabato 28 gennaio 2017

LA RAFLE (LA RETATA)

Per ricordare l’orrore dell’olocausto, ieri sera Raitre ha mandato in onda “Vento di primavera”, il cui titolo originale, “La rafle” (retata, rastrellamento) è ben più concreto e pregnante di quello italiano, piuttosto banale, che si riferisce al nome dell'operazione.
Come ogni film sulla Shoah, è un pugno nello stomaco, una sofferenza minuto per minuto. Si parte dal punto di vista dei bambini e della quotidianità familiare di una serena Montmartre, dove vivono molte famiglie ebree, per raccontare lo stupro civile e sociale perpetrato dai militari francesi collaborazionisti e da quelli tedeschi.
La Francia è sotto l'occupazione. Gli ebrei vengono prima costretti a portare la stella gialla, poi sono allontanati da ogni luogo pubblico, dal loro impiego, dalle scuole. 
Nella notte tra il 15 e il 16 Luglio, oltre 13.000 ebrei, di cui 4.000 bambini, vengono arrestati e radunati nello stadio del velodromo d’inverno, il Vel d’Hiv di Parigi, poi spostati in altri campi di transito e infine mandati a morire nei campi di sterminio di Auschwitz. 
Il film racconta una delle pagine più vergognose e terribili della storia francese, dove tutti i personaggi sono realmente esistiti e tutti gli avvenimenti, anche i più drammatici, sono realmente accaduti nell’estate del 1942.  

UMANITA’ STUPRATA di  Alfredo Laurano

Sarà che con l’età ci si emoziona più facilmente e ci si commuove davanti al sorriso di un bambino, allo sguardo languido di un cane o a una vecchia foto dei bei tempi andati! Sarà che la sensibilità, più o meno innata o acquisita nel tempo, incalza e rimuove il cinismo giovanile. Sarà che l’esperienza, la saggezza e il disincanto inducono a una maggiore comprensione degli altri, alla tolleranza e a una più forte   solidarietà. Sarà il crescente bisogno di partecipazione per non sentirsi esclusi, soli e abbandonati. O sarà l’ansia della vita e la paura di lasciarla…!
Comunque la mettiamo, basta poco a creare un turbamento, a far bagnare gli occhi. In certi casi, poi, il pathos è ancor più giustificato.

Ci sono dei film che, per genere e significato, hanno in me un violento impatto rabbioso, la cui reazione stento a trattenere. Sono quelli che raccontano la vergogna dell’umanità: l’orrore dell’olocausto, delle persecuzioni razziali, delle deportazioni e dello sterminio, ad opera delle belve naziste.
In questi giorni, in occasione della giornata della memoria, ho rivisto o ricordato alcuni grandi film come Schindler’s List, come Train de vie, come Fuga da Sobibor o Vento di primavera, senza dimenticare La vita è bella di Benigni.
La tensione, lo schiaffo lancinante, il disgusto sono stati ancora e sempre atroci e dirompenti, come la cattiveria di chi, abusando della forza e del potere, distrugge sentimenti, sogni e dignità, strappa i figli alle proprie madri e si arroga il diritto di decidere come e quando toglier la vita a milioni di persone, a bambini innocenti ed indifesi.
La rappresentazione del male, della violenza, della crudeltà, della ferocia è molto spesso più efficace, più acuta, straziante e sconvolgente della stessa realtà che icasticamente racconta, che descrive o raffigura.
Nel cinema, la cui forza evocativa è ancora straordinaria, la narrazione attraverso immagini, suoni, montaggio e inquadrature suscita potenti emozioni e coinvolge, in un tutt’uno, la mente e tutti i sensi di chi guarda.  Fino a svolgere, come il teatro, anche un effetto catartico, determinato da un rapporto osmotico di proiezione, di identificazione e di profonda empatia.  Questa spontanea capacità di compartecipazione, di condivisione degli stati d’animo, di immedesimazione in persone e situazioni, fino a coglierne reazioni e sofferenza, crea un forte dolore dello spirito e, nel mio caso (ma non solo), anche del corpo e dei neuroni.
Di fronte a tanto orrore e brutalità, sento salire, progressivamente, un furore e una rabbia repressa che si trasformano subito in autentico malessere fisico: affanno, fitte, batticuore, alterazione e irrequietezza. Sento nascere l’angoscia, la pena e una voglia irrefrenabile di fare qualcosa, di menar le mani, di intervenire, di proteggere, di salvare, di cancellare quel tormento, di uccidere il mostro criminale. È un impulso che scuote forte la coscienza e porta a rispondere con violenza alla violenza cieca, a reagire con la forza in quello scenario brutale e sanguinoso che annuncia al mondo la tragedia dell’umanità stuprata.
Questa conflittualità rimette in discussione le ragioni della civile convivenza, dei principi del pacifismo e della non violenza, del rispetto della vita di chiunque, fino a giustificare, per ineluttabile necessità, una reazione giusta di legittima difesa dei popoli e della libertà contro l’atrocità di ogni forma di nazifascismo, di barbarie, di      totalitarismo, di ogni guerra o genocidio, di ogni crimine contro l’umanità.
Del resto, anche Gandhi affermò che “uccidere può essere un dovere…!

30 gennaio 2013      AlfredoLaurano

giovedì 26 gennaio 2017

SPALARE LA VALANGA

E’ finita l’ansia, l’angoscia e la speranza. Accanto al dolore e allo sbigottimento, resta solo la difficile rassegnazione, non solo di parenti e amici, ma di un intero popolo ferito nella coscienza e nella sensibilità. Oltre alla profonda gratitudine per tutti i soccorritori che si sono prodigati per salvare vite di perfetti sconosciuti.
Non c'è più nessuno da salvare all'hotel di Rigopiano: il bilancio finale è di 29 vittime e 11 sopravvissuti. 
E, mentre qualcuno si rivolge a santi e madonne, pregando e promettendo eterna riconoscenza e devozione per essersi miracolosamente salvato, quelle tante vittime, se potessero per assurdo parlare, esprimerebbero solo rabbia e incredulità per qualcosa di assurdo che le ha rese tali. Qualcosa di imprevedibile, di paradossale e quasi surreale. 

Non sapevano e non sapranno mai che sul loro destino - erano fra le quaranta persone, tra ospiti e lavoranti dell'hotel Rigopiano, pronte ad evacuare, con i bagagli in mano - si è abbattuta una combinazione imponderabile di fenomeni naturali, straordinari ed avversi, ma anche una serie di errori tecnici, burocratici e umani che si sono accavallati in poche ore, nei giorni precedenti e in quelli successivi, fino a determinare insieme la tragedia di quel disgraziato resort, sotto la montagna. 
Non potranno mai chiedersi, come stiamo facendo tutti noi, se le cose sarebbero ineluttabilmente andate così o se qualcosa si sarebbe potuta fare, quanto meno per limitare i danni.
Se tutte le procedure previste dalla legge e dalla buona amministrazione fossero state attuate con rigore e precisione, quella massa di 120mila tonnellate di neve, ghiaccio, fango, rocce, tronchi e detriti forse si sarebbe abbattuta, a oltre cento chilometri all'ora, su un albergo ormai vuoto di persone.
Ora, a tragedia consumata, restano solo le accuse, le critiche, le polemiche e le inchieste della magistratura sulle responsabilità, sulla leggerezza, sulla superficialità nella gestione dell’emergenza, sull’ inefficienza e inadeguatezza della macchina dello Stato.
Quello che al momento appare certo e indiscutibile - secondo geologi ed esperti del settore - è che quell’edificio non doveva essere lì, non doveva essere costruito, e poi ristrutturato, alla fine di quel lungo canalone, proprio sotto il monte, anche perché era rimasto già isolato per neve, meno di due anni fa, e rifornito di viveri e generi vari da elicotteri.
Le nevicate eccezionali ormai sono previste e annunciate con anticipo dai servizi meteo ma, ciò nonostante, tanti paesi, case e frazioni rimangono isolati e senza luce, come è accaduto in questi giorni, in quelle zone. Non esiste ancora una cultura preventiva che riguardi programmi, mezzi adeguati, manutenzione e interventi, prima di precipitare nell’emergenza.

Il terremoto, “in onda” dal 24 agosto scorso nel centro Italia, stavolta, ha prodotto ulteriori crolli, ma non ha fatto morti. Solo qualche persona ha rischiato perché non è potuta uscire di casa, imprigionata da muri di neve sulla porta. 
Ma le vittime ci sono state, comunque, perché qualcuno non ha liberato in tempo le strade da metri di neve, perché non aveva gasolio nella turbina o era in riparazione.
(Alfredo Laurano)

domenica 22 gennaio 2017

IO RIDO, TU DERIDI, ESSI IRRIDONO

Ci sono i volontari, i vigili del fuoco, i forestali, gli uomini del soccorso alpino, gli uomini della protezione civile, i carabinieri, la polizia, la guardia di finanza, croce rossa, i civili e tutti quelli che in queste ore si stanno sacrificando e massacrando di fatica per dare soccorso e per aiutare le vittime di catastrofi naturali nel centro Italia. 
Sono angeli della solidarietà, eroi senza nome, senza premi e ricompense, che si sacrificano per libera scelta, in nome di un semplice, ma autentico valore che si chiama umanità e fratellanza. Parole obsolete e quasi dimenticate, che abitano ormai solo sui vocabolari

Poi, c’è l’informazione, il resoconto dei fatti, la diffusione delle notizie e chi, a ciò preposto, quegli eventi tragici deve raccontare, con doverosa onestà intellettuale e professionale.
Ci sono quelli che lo fanno con le matite colorate e un bel po’ di fantasia, inventando la satira, sacrosanto e storico strumento di libertà di espressione. Arte poetica o genere della comunicazione che, con accenti comici o sarcastici e intenti canzonatori e moralistici mette in ridicolo personaggi celebri, ambienti, costumi e stili di vita collettivi, creando spunti di riflessione democratica ed intelligente. Toni e linguaggi, quasi sempre e giustamente, pungenti ed irritanti, nella forma e nei registri, soprattutto, nei confronti del potere, di qualsiasi genere e identità, ma mai privi del rispetto per le sorti drammatiche o delle differenze fra esseri umani. 
Poi, ancora, ci sono gli stolti di Charlie Hebdo che, invece, dietro una calda scrivania ed un computer grafico, ironizzano volgarmente - ancora una volta e dopo averlo fatto per il terremoto di Amatrice - anche sulle vittime della neve in Italia e si rivelano, una volta di più - concordo con Diego Fusaro - figli del nichilismo e della barbarie dilaganti. Sono, senza saperlo, l'altra faccia del terrorismo che li ha colpiti. Un gruppo di sciocchi e utili idioti al servizio della deficienza imperante. 

Questo prodotto definito "satira" è dozzinale, volgare, offensivo e privo di ogni contenuto artistico: una delle tante forme di spazzatura in circolazione, che non diverte nessuno, non fa ridere, né fa piangere. Semplicemente disgusta. 
Per quale cinica congiunzione astrale, per quale malinteso equivoco semantico o disgraziatissima caduta etico-lessicale siamo arrivati a confondere la libertà di parola con l'arroganza dell'insulto alla morte e al dolore altrui, soprattutto in momenti di intensa partecipazione che, come questo, tiene l’intera Italia con il fiato sospeso, in un’altalena fra pianto e speranza? 
Spiegatecelo con una vignetta esplicita, se ci riuscite, voi falliti comici di Charlie Hebdo, che ben conoscete l’argomento.
(Alfredo Laurano)

L’ONDA ROSA

Due, in estrema sintesi, i modi scelti per contestare Donald Trump, appena diventato 45esimo presidente degli Stati Uniti: da una parte i Black Bloch che hanno sfasciato le solite vetrine e vandalizzato tutto ciò che fosse a tiro, dall’altra, sull'onda dei social media, la marcia pacifica di mezzo milione di donne su Washington, animata da cittadine e femministe di ogni età e condizione, sostenuta da celebrità come Madonna, Jane Fonda, le attrici Scarlett Johansson e Charlize Theron, De Niro e il regista Michael Moore.
Una delle manifestazioni più massicce della storia americana contro il sessismo dichiarato del “banana bionda”, contro le discriminazioni di genere e in favore dei diritti delle donne, ma non solo. Un lungo fiume di persone che si riversa verso la Casa Bianca e che segnala le divisioni di un Paese con cui il nuovo leader dovrà fare i conti, visti gli alti livelli di sfiducia dell'opinione pubblica, forse mai raggiunti nel passato, se non all’epoca del Vietnam. 
La protesta, simbolizzata da un mare di cappelli e berrettine rosa, va in scena non solo negli Usa, ma anche in tante altre città del mondo, da Londra a Sydney, da Roma a Berlino, da New Delhi a Cape Town, da Madrid a Parigi e Barcellona. 
“Non sei il mio presidente”, “l'America non sei tu". "Resisteremo, battendoci": due milioni e mezzo di manifestanti hanno invaso le strade di mezzo mondo e ferito pesantemente l’orgoglio del neopresidente.
Il discorso inaugurale di Trump, banale, scontato, rabbioso e preoccupante, ha dato il tono di quel che sarà, o potrebbe essere, la sua presidenza. Parole rivolte al suo elettorato e all’americano medio, di un certo livello culturale, cui sa rivolgersi in modo semplice e incisivo. 
“Il potere torna al popolo”, “compra e assumi americano”: un comizio, più da campagna elettorale che da insediamento, inneggiante ai dazi e all’autarchia, al culto del profitto e del risanamento patriottico-economico, orgogliosamente populista, fortemente nazionalista e determinato a rompere con l'eredità del suo predecessore democratico. A cominciare dal suo primo atto in carica, l’affossamento di una legge simbolo della presidenza Obama, l'Obamacare, che garantisce una copertura sanitaria generale. 
Questo, subito al via, tanto per cominciare bene, poi, si occuperà di muri, confini, immigrazione, messicani e terrorismo. 
Facciamoci stupire, se non sedurre, dalla megalomania del presidente miliardario e dalla sua fascinosa first lady da tabloid, così per niente americana, che già ci fa rimpiangere la fantastica Michelle.
(Alfredo Laurano)


venerdì 20 gennaio 2017

TRAGEDIA BIANCA

Ma quanto deve essere arrabbiata e offesa la natura nei confronti dell’uomo che, da sempre, la violenta in infiniti modi - prima con mezzi approssimativi e rudimentali, poi, nel tempo, più sofisticati e tecnologici - per reagire con tale cattiveria, per infierire così tanto, così pesantemente e con tanta inaudita brutalità?
In tutto il mondo, questa natura “maligna”, abusata, aggredita, dominata e sfruttata, consuma la sua vendetta contro le scellerate azioni prodotte dall’egoismo umano.
Contro le alterazioni e le forzature delle sue leggi, contro le modificazioni genetiche, gli squilibri, l’inquinamento, gli esperimenti nucleari, le emissioni nell’ambiente, i facili disboscamenti, l’accumulo di rifiuti, le perforazioni e le trivellazioni di mari, monti, deserti e crosta terrestre. 
L’uomo la oltraggia e le manca di rispetto. 
E la natura - la stessa che ci fornisce aria, luce, acqua, cibo e vita - mai doma e mai terra di conquista, libera la sua forza, scatena i suoi elementi e la sua prorompente energia: maremoti, terremoti uragani, tsunami, tifoni, valanghe, inondazioni, distruzioni che, con la complicità delle scelte causate o indotte dall’incapacità e dall’imbecillità umana, determinano devastazioni, emergenze e catastrofi umanitarie. 
Nonostante la scienza e la super tecnologia, tutto resta, in larga parte, imprevedibile e incontrollabile. Si può soltanto cercare di difendersi, di limitare i danni, di prevenire. Di non sfidare e provocare, quando la battaglia è impari e non si potrà mai vincere. 
Prima o poi, l’animale uomo dovrà prenderne coscienza e consapevolezza.
Anche perché non può e non deve essere una guerra contro l’universo cosmo o una serie di scontri, di lotte e di battaglie, soprattutto da un punto di vista concettuale. 
Vivere secondo natura, rispettando e amando l’ambiente e l’armonia che ci circonda, deve tornare ad essere la nostra scelta prioritaria, la nostra ragione di vita, pur completata e valorizzata dalle conoscenze, dalle scoperte, dalle invenzioni, dalla ricchezza evolutiva.
In queste ore drammatiche, una vasta area del nostro Paese sta vivendo l’ennesima tragedia umanitaria, in parte naturale ma in parte, dovuta, anche e come sempre, alla limitatezza umana. 
Dall’ emergenza terremoto, all'emergenza neve e valanghe. 
Non si ferma il sisma infinito che, insieme alle tempeste di neve, sta stravolgendo le terre già martoriate del Centro Italia. 
Dal 24 agosto e dal 30 ottobre dell’anno appena finito - date in cui la terra ha tremato maggiormente, provocando morte, crolli, distruzioni e interi paesetti cancellati dalla geografia - si sono avute altre 47mila scosse in quella stessa zona, ormai in ginocchio, in una sequenza di contagio sismico spaventosa, che, molto probabilmente, si replicherà ancora. 
Paesi isolati e irraggiungibili, strade impraticabili, scuole chiuse, case senza luce e senza riscaldamento, nelle Marche e in Abruzzo. Da quattro giorni, è difficile anche fare una telefonata per chiedere aiuto. Mezzi spartineve e soccorsi tardano ad arrivare.
E' una situazione molto più che drammatica. 
"Da domenica scorsa, siamo sepolti vivi, ricoperti da due metri di neve, senza energia elettrica, senza cibo e senza medicinali. Ci sono anziani e bambini, stiamo morendo di freddo, lo spazzaneve non è mai passato! E' un'autentica vergogna - sbotta qualcuno - siamo a 4 km dal centro storico e sembra di stare fuori dal mondo. La carica dei cellulari sta finendo, entro oggi non ci sarà più possibile comunicare con nessuno”. 
Sono circa tremila le aziende agricole e le stalle sepolte dalla neve nelle aree colpite dal terremoto, dove si contano altri casi di isolamento, nuovi crolli, decine di mucche e pecore morte e ferite, difficoltà per garantire l'alimentazione degli animali, ma anche tonnellate di latte che da giorni si è costretti a gettare.
Nel pescarese, nella frazione di Farindola, una trentina di persone sono rimaste intrappolate e considerate ormai disperse, nell'esclusivo albergo Rigopiano, alle pendici del Gran Sasso.
Eroici soccorritori sono arrivati all’alba, dopo nove chilometri di cammino sugli sci, perché l’unica strada d’accesso era bloccata da alti muri laterali di ghiaccio.
Lo definivano un posto incantato, di straordinaria bellezza, un luogo in cui il tempo sembrava sospeso e cristallizzato. 
E’ stato travolto e seppellito da una slavina provocata dal terremoto e dalle intense nevicate, ma non si può ignorare che quell’hotel era stato costruito nel pericolo, proprio sotto la montagna, lungo un declinante canalone che tutto, in caso di valanga, avrebbe facilmente trascinato via. 
Un elegante edificio di quattro piani, con piscine termali affacciate sulla valle, cancellato in un attimo e sommerso, con una furia tale che lo ha spostato di dieci metri in basso. 
Un paradiso che si è trasformato in un inferno bianco.
Ma non per sola colpa della crudelissima natura

20 gennaio 2016 ore 9,30 (Alfredo Laurano)

mercoledì 18 gennaio 2017

TERZO GRADO, MA ORA RIPARTIRE

Domande sparate a raffica, ficcanti, tendenziose, insinuanti e corredate da continue interruzioni, quasi ad impedirne la risposta e a creare imbarazzo e deconcentrazione nella controparte dialettica. Chiunque può andare in difficoltà e confusione se deve articolare un minimo di ragionamento per replicare a un’obiezione, quando è sottoposto, più che a un’intervista, a un vero interrogatorio. 
Più che giusto incalzare e mettere alle corde l’interlocutore: è il compito del bravo giornalista che, avulso da ogni forma di adulazione, lusinga o piaggeria, non dà tregua, e non si risparmia nel suo ruolo, ma tutto ha o deve avere un limite, se non altro per una questione di rispetto.

Nella trasmissione di ieri sera, “Di Martedì”, la sindaca Virginia Raggi ha dato prova, pur con qualche incertezza o scansando qualche spinoso argomento con evasiva titubanza, di saper tenere testa al conduttore Floris che la mitragliava di domande. Anzi, in qualche momento, nelle vesti di avvocato, ha dato la sensazione di voler bacchettare lo stesso conduttore. In ogni caso si è difesa dignitosamente in quel non facile “processo”. 
“La sua è una domanda mal posta - come direbbe il guru “Quelo” di Guzzanti - l’alternativa non è tra le grandi opere, come quelle, neanche finite, che hanno gravato di debiti mostruosi tutta la collettività, e l’immobilismo totale. Credo che ci sia una terza via, quella delle opere necessarie alla città”. 
Dal caso Muraro, alle varie dimissioni, all’arresto di Marra: su alcune nomine e ritardi, ci sono stati evidenti errori di valutazione.
“Molti mettono in dubbio le sue capacità di guidare un Comune difficile come Roma”, dice Floris.
“Si può dire che una persona sia capace o meno di guidare la macchina se ha una macchina pronta a partire. Ma io mi sono seduta su un sedile posato su telaio senza blocchetto di accensione, volante, pedali e cambio. E la macchina amministrativa di Roma è uscita da Mafia Capitale, a pezzi. Dobbiamo prima ricostruirla e dopo possiamo metterci a guidarla”.
In questi sei mesi di scelte sbagliate, tentativi, nomine e rifiuti, la Virginia capitolina non ha rattoppato le buche e ripulito la città dalla spazzatura e dall’endemica inciviltà, né ha dato un’inutile mano di bianco per mandare ai cittadini un facile segnale di efficienza.
Ora, però, come ho già scritto, è arrivato il tempo del fare, di chiarire le priorità e gli obiettivi che intende perseguire, per far rinascere una città devastata e violentata come Roma. 
E’ il momento di risalire su quel lento e ormai riparato diesel della logica e del buon governo, delle competenze e delle aspettative politiche e sociali, se si vuole uscire dal buio tunnel dell’approssimazione e della corruzione, in cui l’hanno infilata le amministrazioni precedenti e gli interessi dominanti. 
Occorre discontinuità, coraggio e scelte conseguenti. 
Anche perché è vero che il cambiamento ha un prezzo, ma questa città lo ha già abbondantemente pagato.

(Alfredo Laurano)

domenica 15 gennaio 2017

IL POETA DELLA “DOGLIA UMANA”

Un plauso a Raitre che l'altra sera (13 gennaio 2017) lo ha messo in onda per chi lo avesse perso: un film straordinario, coinvolgente e commovente, che racconta, anche attraverso le sue debolezze, la storia della sofferenza umana, non solo fisica, e la grandezza poetica e filosofica di un genio. 
"Così si filma la poesia!"
Chi non ha mai visitato Recanati, Palazzo Leopardi, le tante stanze della ricca biblioteca e gli altri suggestivi luoghi leopardiani (il Colle, la piazzetta, la torre), scopre subito, all’inizio del film “Il giovane favoloso”, la difficile adolescenza del poeta nell’ "odiato borgo natio”.
Scopre il giovane Giacomo, dalla salute cagionevole, ma dotato di grande lucidità intellettuale e di sottile ironia, intento nel debilitante e continuo studio “matto e disperatissimo”.
Lo vede crescere nel culto della filologia e delle letterature classiche, fra traduzioni e versi che compone nella casa-prigione-biblioteca, dalle cui finestre si strugge di malinconia per Silvia.
Scopre il conflittuale rapporto con il padre, il conte Monaldo, affettuoso e protettivo, ma severo conservatore, che ama profondamente il figlio, ma non riesce ad incontrarlo a fondo: “Quando provo ad avvicinarmi al tuo cuore ci inciampo dentro”.
Quello giocoso e complice con gli amati fratelli Carlo e Paolina… “non stancarti di volermi bene!” e quello inesistente con l’algida e bigotta madre, priva di qualsiasi slancio e di carezze.

Chi lo ha fatto (visitato), invece, tutto questo lo ritrova e lo rivive sullo schermo, perché, in qualche modo, l’aveva assorbito, immaginato o sognato, osservando quei luoghi magici e parlanti.
In entrambi i casi, tuttavia, si ha la sensazione di riscoprire, più che di provare, un serie di emozioni innate o spontanee, latenti o conosciute.
Un po’ come nella dottrina platonica della reminiscenza: la nostra anima, prima di calarsi nel corpo, è vissuta nel mondo metafisico delle idee di cui conserva un sopito ricordo e, grazie all’esperienza delle cose - che sollecita la memoria - rievoca ciò che ha già visto nell’Iperuranio. Per cui, Platone dirà che conoscere equivale a ricordare.
Nel nostro caso, quindi, è come se quel leggendario giovane l’avessimo sempre conosciuto, nel suo contraddittorio “iperuranio recanatese”.

Il Giovane Favoloso è un film biografico, avvincente, scorrevole e coerente, dove la poesia è protagonista, ma è anche il resoconto di una continua lotta fra luoghi comuni. Una lotta senza fine che Leopardi condusse non solo e non tanto contro il suo corpo, ma contro l'immagine, i preconcetti e gli abusati sillogismi a cui altri lo inchiodavano: pessimista perché infelice, infelice perché storpio. Dunque solo ed emarginato, sempre.
A Napoli, si arrabbia molto quando, seduto a un caffè, sente affermare da un avventore che la sua visione dell’esistenza e del mondo deriva dalle sofferenze del suo corpo: 
non attribuite alle mie malattie ciò che è responsabilità del mio intelletto”, urla Leopardi, sbattendo il bastone a terra, per rivendicare, orgogliosamente, la propria autonomia di pensiero.
Ancora oggi, troppo spesso e anche nelle scuole, gli si appiccica la banale etichetta di pessimista: “pessimismo…ottimismo, che parole vuote e senza senso!”, ma in verità è un uomo malinconico, cinico e disincantato che si pone infinite domande sulla vita e sulla cruda realtà della natura. Un uomo solo, abituato ai silenzi e ad osservare gli altri nei quotidiani affanni.

Mario Martone ne racconta l’avventura umana, la sua dimensione affettiva, ben oltre quella di simbolo letterario e culturale. “Io non ho bisogno di stima, o di gloria o di altre cose simili. Io ho bisogno di amore, di entusiasmo, di fuoco, di vita...Vivere a caso. Non chiedo altro in fondo”.
E’ il ritratto di un'anima fragile, ma profonda, libertaria e romantica. Un’anima sensibile, capace di cogliere i cambiamenti della società e i tormenti dell’individuo, pur prigioniera in un corpo piccolo e deforme, con tutte le sue paure, le emozioni, le incertezze, le passioni e i turbamenti.
Ma non di questo fu infelice e vittima il poeta. Lo fu della sua intelligenza e del suo bisogno di conoscenza.
Con immensa tenerezza e senza indulgere nella pietà, ci regala un Leopardi assalito dal dubbio, come strumento di conoscenza ("Chi dubita sa, e sa più che si possa"), ma vero, intenso e determinato nei sentimenti più profondi, nella sua voglia di amare, di sognare, di vivere, spesso sopraffatta dalla sofferenza fisica, sempre presente sullo sfondo, come un fil rouge e come contraltare al suo estro e al suo talento.
Ci narra la sua fanciullezza e la preziosa amicizia epistolare, che inciderà non poco sulla sua formazione, con Pietro Giordani, il letterato che subito ne colse la genialità.
Quella con il fidato Ranieri - che forse fu qualcosa di più e di più intimo - che lo protegge, lo cura e lo salva da tutto.
I tre luoghi che più hanno segnato la sua esperienza umana e artistica: dalla chiusa e stretta Recanati, alla Firenze intellettuale dei circoli politici e letterari che lo emargineranno e infine, passando per Roma, alla fatata e gioiosa Napoli, patria di Martone, non a caso, forse, la parte più vivace e ispirata dal punto di vista figurativo.

Qui, due scene di graffiante suggestione e qualità: la vera e propria discesa agli inferi di una carnalità dal sapore felliniano, con il timido e deriso Giacomo che annaspa e si trascina fra le grotte delle colorite prostitute napoletane e la dura invettiva contro la Natura maligna, rappresentata da una gigantesca statua di sabbia, con le fattezze di sua madre, che si sgretola lentamente.
Sono sequenze di forte impatto visivo, che preludono al finale, dominato dal colera che si diffonde in Napoli e dalla chicca del “sterminator Vesevo” in eruzione, che sembra “ascoltare” i versi della “Ginestra” - suo testamento spirituale - che ne attenuano le fiamme ed i lapilli e nel contempo sublimano le paure e lo stupore del poeta: uomo, natura e poesia si fondono in un’unica realtà.

Per alcuni, il film appare didascalico e didattico. O, per meglio dire educativo. Forse lo è, intenzionalmente, e non credo sia un difetto. Se un’opera o una qualsiasi forma d’arte, è capace, di riflesso, anche di insegnare qualcosa, affascinando, ben venga, soprattutto in un momento storico, come l’attuale, di evidente disimpegno e di forte rischio di deriva culturale.
Vita, poesia e filosofia si fanno cinema, si traducono in suoni, immagini e suggestioni.
Sono un tutt’uno e si intrecciano nella storia del “favoloso” recanatese. Non si possono separare, devono essere fruite e godute come unica, poliedrica e composita realtà, se si vuol comprendere il mondo leopardiano.

Non per niente, il Leopardi “umanizzato” di Martone recita l’Infinito, proprio tra le siepi dell’ermo colle, mentre sforza la vista e la mente per oltrepassare il limite. Cammina tra le strade di Recanati, sorride alla bella vicina, abbraccia commosso l’amico Giordani, si entusiasma per una partita di pallone o osserva una gallina che razzola in su la via, senza che ci sia stata la tempesta. Reclama il suo diritto al piacere e ai peccati di gola: la bella Fanny e l'adorato gelato.
Va, quindi, oltre la proverbiale, scontata infelicità, per trovare anche sorrisi e momenti di serenità in un giovane ribelle, capace di opporsi alla rigida educazione familiare, alle convenzioni sociali dell’epoca, che tendono a emarginarlo. Un uomo libero di pensiero, ironico e socialmente spregiudicato che, come dice lo stesso Martone, va sottratto una volta e per tutte alla visione retorica che lo dipinge afflitto perché malato.
E’ un Leopardi sognante e furioso, non più o non solo avvilito e rattristato, ma deciso e politicamente combattivo, quando afferma:Il mio cervello non concepisce masse felici fatte di individui infelici".

Resta un film straordinario, coinvolgente e commovente, che racconta, anche attraverso le sue debolezze, la storia della sofferenza umana, non solo fisica, e la grandezza poetica e filosofica di un genio che, quanto più il suo corpo si ripiegava su se stesso, tanto più si liberava e giganteggiava.
Che rovescia schemi, cliché, nozionismo scolastico e luoghi comuni - dimentichiamo quella figura di uomo triste e cupo che certi docenti ai più hanno consegnato - per restituirci senza ridondanze enfatiche un pensatore eretico e moderno: bellissima la sequenza “pasoliniana” dei ragazzi che uccidono le lucciole, con cinismo e noncuranza.
Qualcuno ha scritto che dovrebbe diventare un film obbligatorio, un passaggio imprescindibile nella formazione dei giovani. "Abbiamo ammazzato Leopardi sui libri, ora è vivo grazie al cinema. Si spera possa essere adottata dalle scuole per rianimare stanche lezioni e smorte antologie."
Gli studenti ne trarranno beneficio. Gli insegnanti di più.

Magistrale la prova di Elio Germano, ma anche quelle di tutti personaggi, credibili e aderenti. Accurata la sceneggiatura, mirabili le scene e le ambientazioni, i costumi, la fotografia e la musica, anche se la vera colonna sonora sono i suoi versi.
“Ecco, così si filma la poesia!”, ha riassunto, efficacemente, Bertolucci:

"Nel ‘900 non ne resterà neanche la gobba", invece, fu la disgraziata (e oggi comica) previsione del linguista coetaneo Niccolò Tommaseo, che poco amava il giovane favoloso!
Infatti, quella gobba non c’è più. In compenso, però, è rimasta un’immensa eredità culturale, prezioso patrimonio dell’umanità, che Martone ci ha superbamente raccontato.
 5 novembre 2014   (Alfredo Laurano)


SARA’ VERO?

Sarà vero o è tutto falso nel mondo del mistero? 
Scopriamolo al Falseum, il museo delle bufale, del falso e dell’inganno, allestito nel castello di Verrone (Biella) per grandi e piccoli, insegnanti e studenti.
Benvenuti nel Regno del Falso.
L'uomo, dalla notte dei tempi, falsifica, inventa, inganna.
Il Falso popola la nostra la vita in tutte le sue declinazioni: fatti, cose e persone. Siamo circondati dai falsi, ogni giorno li incontriamo sulla nostra strada. E, da quando esiste il web e la realtà virtuale, bufale e fake hanno trovato una nuova patria che accomuna le genti e una più facile, immediata e capillare diffusione.
Questo Museo tratta e indaga un falso particolare, quello che, nel bene e nel male, cambia il corso della Storia. Il percorso di Falseum, senza dimenticare emozione e divertimento, è un’occasione per scoprire e conoscere i falsi di ieri e di oggi e, nello stesso tempo, è una galleria di stimoli per allenare la nostra capacità critica, per imparare a porci domande e a cercare risposte.
Ogni stanza propone interrogativi e domande, oltre che narrare e informare, e ha un valore scientifico, perché la tendenza a ingannare i propri simili è una delle caratteristiche più tipiche dell’uomo.
Se è vero che anche tra gli animali esistono meccanismi istintivi di inganno, come la mimetizzazione, nessun altro essere vivente è capace di mentire e dissimulare con la frequenza e l’intenzionalità dell’essere umano. L'uomo lo fa per molte ragioni, come difendersi, attaccare, arricchirsi, divertirsi e quindi in questo luogo così particolare possiamo esplorare un aspetto culturale e antropologico fondamentale della nostra specie.
In un’epoca in cui ognuno di noi è investito da un flusso di informazioni continue, dove la notizia falsa rischia di avere lo stesso spazio e la stessa dignità di quella più affidabile, come difendersi?
Come capire e giudicare? 
E’ più che mai utile conoscere le tecniche d’inganno. 
Conoscere le bugie del passato significa impararne i meccanismi e allenarsi a distinguere quelle odierne. Ecco perciò che il viaggio nel mondo del falso diventa qualcosa non solo di bello e divertente, ma anche di necessario e urgente.
Il Museo, che nasce, quindi, per approfondire i rapporti tra la mistificazione e la scienza, l’arte, il giornalismo, le leggende e le magie, nel mare virtuale in cui oggi tutti navighiamo, ha progettato aree di approfondimento, legate a stanze tematiche e materie di studio, come la fabbrica del falso, il falso mediatico, la voce che corre, il falso scientifico, il falso storico...

“Non dire bugie”, ci insegnavano una volta. A chi le dice, succedono cose terribili: si accorciano le gambe, il naso si allunga come a Pinocchio e, con un pizzico di ricatto morale, “la mamma non ti vuole più bene”. 
Così, tra un pianto e un senso di colpa, imparavamo a non mentire, neanche a noi stessi. 
Ma tutto questo, in verità, il castello di Verrazze non lo racconta più.

 (Alfredo Laurano)

UOVA CARCERATE

Diffuso nell'alimentazione quotidiana e fonte di proteine alternative alla carne, l'uovo è così comune nelle nostre case che difficilmente ci fermiamo a riflettere sul suo profondo significato simbolico, radicato in tutte le culture e in tutte le epoche.
Per i cristiani, è il simbolo della Pasqua, rappresentato dal Cristo risorto, ma per tutti è allegoria universale di vita, di nascita e di rinnovamento. 
In realtà, rappresentazioni a parte, è da sempre un vero jolly della cucina, lo usiamo in mille modi e preparazioni. Da bambini ce lo facevano bere crudo e caldo, appena estratto da sotto la gallina, o sotto forma di nutriente zabaglione.
Ma, se proprio non possiamo fare a meno di mangiare le nostre 220 uova pro-capite all’anno - in verità assai poco simboliche sotto l’aspetto di frittate e fettuccine - quando andiamo al supermercato assicuriamoci almeno di comprare solo quelle che recano il codice identificativo degli allevamenti all’aperto.
Il primo numero deve essere 0, per uovo da agricoltura biologica (maggiori spazi, mangimi bio, benessere animale), o 1 per uovo da allevamento all’aperto. 
Se lo facciamo tutti, se acquistiamo solo queste tipologie, vedremo che la produzione si adeguerà. 
E a noi consumatori non costerebbe poi molto: produrre un uovo all’aperto, anziché in gabbie convenzionali, costa solo 2,6 centesimi di euro in più. Undici centesimi alla settimana per consumatore. 
Cinque euro all’anno per salvare 50 milioni di galline da una vita atroce. 

Costrette in una gabbia dalle dimensioni inferiori a un foglio di carta, le zampe seviziate dal reticolo metallico sul fondo, il becco amputato alla nascita, pieno di innervazioni, che provoca dolore ogni giorno fino alla morte precoce. 
Nessuno spazio per muoversi, sono condannate a stare perennemente al buio o esposte ad una costante luce artificiale.
Non possono aprire le ali, razzolare, appollaiarsi, deporre le uova in un nido. 
Accalcate come sono le une sulle altre, le galline impazziscono e diventano aggressive: si beccano tra loro, si spennano e si cannibalizzano. Si feriscono contro le gabbie, si fratturano le ossa e si ammalano di osteoporosi. Si trasmettono infezioni. Infezioni che passano anche attraverso gli escrementi. Per inciso, le galline allevate in gabbia sono disposte in verticale, per cui gli escrementi di quelle ai piani alti cadono su quelle ai piani bassi.

Sempre quando andiamo al supermercato, ma anche no, anche in casa e nel salotto, proviamo a ricordare che ogni anno, in Italia, 50 milioni di galline ovaiole producono 13 miliardi di uova. Il fatturato supera 1 miliardo e mezzo. Produrre un uovo costa 0,07 euro e ne rende, se destinato al consumo diretto, 0,10. 
Per 9 euro all’anno, una gallina, che ne cala trecento, fa una tale vita di merda che, in confronto, l’inferno del macello è una passeggiata di salute. 

Ai pulcini maschi, che sono inutili perché non producono uova e non crescono abbastanza velocemente da rappresentare un valore aggiunto per il produttore, la vita grama del vegetale in gabbia viene risparmiata. Non perché vengano liberati, ma perché verranno semplicemente uccisi alla nascita. Per la precisione, triturati vivi da una macchina che ne farà farina di carne buona per i mangimi. 
Ogni anno in Italia ci sono altri 50 milioni di pulcini che aprono gli occhi al mondo poco prima di essere spremuti da un torchio di acciaio. 
Ottocentomila milioni di tonnellate potenziali di carne viva sottoposta a crudeltà pura. 
Ma, scegliendo uova bio, almeno le galline possiamo farle evadere da quello schifosissimo carcere a vita.
 (Alfredo Laurano)


giovedì 12 gennaio 2017

CHE SCOOP!

Tranquillo, popolo d'Italia, la sorpresa era stata svelata, l'attesa è finita: è ufficiale, Maria De Filippi - il "marito" di Maurizio Costanzo, nonché regina abusiva di Canale Cinque - farà coppia con Carlo Conti sul palco dell'Ariston, a Sanremo. Amen!
Ora, possiamo tirare un bel sospiro di sollievo e chiederci cos'abbia di speciale questa osannata figura, inventata dalla TV commerciale, per avere tale e tanta considerazione nell'ambiente. 
I suoi silenzi, il suo sguardo ambiguo, la sua voce mascolina e roca, la sua scarsa socialità, la sua apparente riservatezza, l'abbondante uso di botulino e le riparazioni plastiche varie che non le permettono di sorridere molto? 
O è il suo ruolo di postina dei cuori infranti e di cacciatrice di talent e, soprattutto, la capacità di fare spettacolo, in veste di ruffiana, facendo incontrare e flirtare uomini, donne e gay, anche di una certa età? 

Troni e tronisti, aspiranti veline e decadenti mature, gossip, balli, esterne, ripicche, gelosie, malelingue e pregiudizi in una specie di circo delle meraviglie, un patetico postribolo virtuale e casareccio da Centro Anziani, dove le dinamiche dell'eros e delle voglie sopite, coniugate tra antichi ricordi e sopravvenuta senilità, si trasformano in volgare chiacchiericcio, ben alimentato da opinionisti da mercato del pesce e appariscenti sciantose di frutta e cipolle.
Il tutto, in un contesto elegante, studiato, premeditato e finto, dal quale la "Filippa" si estranea, sedendo, riservata e discreta, sulle scomode scalette dell'agone conteso. 
Si, sarà sicuramente per questo che è così stimata nel pollaio televisivo. 
Allora, non perdetevi il Festival!
(Alfredo Laurano)



mercoledì 11 gennaio 2017

OH MONDO CRUDEL!

è l'ora dell'addio, forse mai nel circo tornerà quel pagliaccio che aveva sopra al viso una maschera buffa ed il pianto nel suo cuor…” Così cantava Peppino di Capri nel lontano 1962.
Non so se questo nostro mondo avariato e degradato sia, in effetti, più pazzo o più cattivo. Più assurdo, più comico e grottesco, più crudele o stravagante.
Se ciò che accade e ci circonda, oltre ogni possibile perché, abbia un senso o una ragione superiore, metafisica e trascendente, che sfugge alle nostre capacità di analisi e di razionale comprensione. Nonostante la scienza, le scoperte, l’evoluzione, la presunta civiltà, il controllo della natura e la parcellizzazione dell’atomo, del sapere e della coscienza, siamo vittime di un beffardo maleficio, siamo ostaggio dell’imponderabile, dell’imprevedibile, dell’impensabile. 
Poco, o quasi niente, riusciamo a spiegare, quasi più nulla ci sorprende e quasi tutto ci ha cucito addosso un abito corazzato e impermeabile di estraneità, di egoismo e indifferenza.
Abbiamo perso perfino lo stupore! Dei numeri, dei clown, degli acrobati e delle snodate ballerine del grande circo umano delle meraviglie.

A mezzanotte, si inizia un nuovo anno con il countdown di una strage, l’ennesima, in una discoteca a Istanbul, quando l’intera umanità sta stappando milioni di bottiglie e brindando con le bollicine al miglior destino, sullo sfondo scenografico di luci, petardi, canti e fuochi d’artificio. 
Poi, fra un attentato e l’altro, tra un’autobomba in un mercato e una sparatoria in aeroporto, tra un incidente aereo e un barcone affondato di migranti, si consumano, come sempre, come ogni giorno, come ogni ora, tanti drammi e tragedie nel privato, nelle strade, in ogni dove o nelle case di chiunque. 
Anni, tempi, ricorrenze e calendari non c’entrano, non contano e non cambiano le cose, perché che non hanno data, orario o appuntamento.
Sono quei fatti di famiglie, di persone e cittadini, che nello stesso momento in cui avvengono, per apparente caso, perdono subito il connotato umano e diventano solo news, notizie, trafiletti di cronaca o breaking news. Sempre uguali, sempre le stesse, ricorrenti e ripetitive. 
Hieronymus Bosch, Estrazione della pietra della follia. 1480 circa,
Basta sfogliare un giornale o un TG di un mese o un anno prima, per trovare in fotocopia gli stessi accadimenti del giorno, con altri nomi, altri luoghi, altri individui. 
C’è una costante di violenza, di pazzia, di patologico e abominevole, di vizio e imbecillità che si ripete a oltranza, del tutto endemica al genere umano. 

I fatti più recenti? Eccone alcuni, presi ad esempio. 
Lascia il fidanzato e lui le dà fuoco. E’ gravissima una ragazza di ventidue anni di Messina, investita da un getto di benzina infuocata, appena ha aperto la porta al suo ex. 
A Catania, i genitori si separano: la figlia quattordicenne si impicca in casa della madre.
Sempre in Sicilia, ma è solo un caso, violenza sessuale di gruppo su giovane disabile.

A Nola, i pazienti vengono curati a terra in ospedale, come in un campo di prima emergenza, perché non ci sono letti, né barelle. Sono adagiati su coperte e lenzuola stese sul pavimento e medici e paramedici fanno il loro lavoro inginocchiati, con le giacche a vento addosso, perché fa freddo in quei corridoi.
Un’insegnante di Gela strangola le due figlie di sette e nove anni e poi tenta di suicidarsi con la candeggina: "L’ho fatto per salvarle, avevo paura che mio marito me le portasse via. 
A Ostia un padre quarantaduenne lascia il figlio di tre anni in macchina, al gelo della notte, per andare a giocare alle slot machine.
Nella basilica di S. Maria Maggiore, a Roma, un invasato paranoico sfregia due frati con un collo di bottiglia, fra devoti e turisti esterrefatti. 
Quatto giovani idioti romani passeggiano di notte sull’acqua ghiacciata del Fontanone del Gianicolo, e finiscono per fare un bagno a - 4°.
A Volterra, una donna investe volontariamente con l'auto la madre e la zia: arrestata per omicidio: soffrirebbe di manie di persecuzione...

Risse, spaccio, droga, vandalismi, crimini vari e baby gang: c’è qualcuno che ruba pure le coperte e qualche spiccio a un clochard, o il suo cagnetto denutrito e disperato, quando non gli dà fuoco per gioco, per divertimento e per scaldarsi un po’.
Può bastare o vado avanti? 
La cronaca continua e non s’arresta mai. 
Si aggiorna, in automatico, come al televideo o nelle agenzie di stampa. 
Voglio scendere. Insieme a quel pagliaccio che aveva sopra al viso una maschera buffa ed il pianto nel suo cuor.
 (Alfredo Laurano)


sabato 7 gennaio 2017

STORIE ORDINARIE DI CLOCHARD

Anche questa Epifania è arrivata, puntualmente, e tutte le feste ha portato via.
Ma nel suo sacco di doni e di carbone, la generosissima vecchina ha portato anche un carico di neve e gelo che nel nostro civilissimo Paese ha ucciso già, in due soli giorni, otto poveri barboni.
Sono oltre 50.000 in Italia, più di 3.000 soltanto a Roma, i senzatetto, senza casa o senza fissa dimora, che i francesi chiamano clochard. Anche George Orwell e Pablo Picasso hanno vissuto per un periodo della loro vita come barboni, girovagando per Parigi.
Per ora, otto morti assiderati nel silenzio e nel buio della notte, sopra un cartone e sotto una coperta di scarsa lana e troppa indifferenza. Qualcuno aveva rifiutato di essere ospitato in un luogo riparato (dormitori, Metro, stazioni…), offerto da associazioni e volontari, per paura di perdere la propria casa sotto le stelle, il proprio “prezioso” alloggio di fortuna, ricavato in un angolo incredibile di città, duramente conquistato. Sotto una pensilina o un portico, su una panchina, all’ingresso di un negozio chiuso, tra le colonne del Bernini di S. Pietro o sul pavimento, sotto le lussuose case di insigni cardinali.
Accanto ad essi, tutti i loro averi: borse sdrucite della spesa, buste di plastica piene di nulla, vecchi giornali, avanzi di cibo, conteso da topi ed da piccioni, e una bottiglia semivuota.
Intorno ad essi, aria pungente che taglia la faccia a stilettate, gradi sotto zero e tanta gente che, imbacuccata o impellicciata, dà festante la caccia ai saldi di stagione.
Ma quei poveretti, che non hanno che la propria precarietà esistenziale, sono e restano invisibili, senza volto e senza storia.
Non sono mai in vetrina e neanche sullo sfondo, ma nascosti alla vergogna degli occhi e della nostra coscienza collettiva.
(Alfredo Laurano)