lunedì 29 dicembre 2014

MERAVIGLIOSO! L'anno di Facebook

In questi giorni, gli utenti di Facebook hanno scoperto un sorprendente regalo:
“È stato un anno meraviglioso. Grazie per aver contribuito a renderlo tale”. 
Questo il titolo di una sintesi di post, foto e cartoline digitali del 2014, creata dall’algoritmo del social network che, su ogni singola timeline, ha fatto comparire in anteprima un breve diario della propria attività su Facebook: una sorta di linea del tempo e, per estensione, della propria vita.
Così tutti hanno potuto ammirare una serie di momenti del “meraviglioso anno” dei propri amici e conoscenti. Anche di chi non aveva alcuna voglia di condividere o ricordarli, come è successo, per esempio, a quel padre che ha perso la propria figlia per malattia e se l’è vista, felice e sorridente, in copertina.

Ma, a parte il fatto che quest’anno che sta finendo non per tutti è stato prodigioso - forse lo è stato per chi ha vinto la lotteria o ha trovato un lavoro, un po’ di pane, un amore o una famiglia - può mai essere meraviglioso un anno di stragi, di calamità, di persecuzioni, di decapitazioni, di guerre e bombardamenti, di migranti e profughi affogati, di madri e padri che ammazzano i propri figli, di uomini che uccidono le loro donne e sterminano intere famiglie, di gente che non ha lavoro e vive in miseria o si suicida?
Un anno che non è diverso da quello che l’ha preceduto e da quello che seguirà?
Un anno senza pace, senza giustizia e senza tolleranza?
Può l’ambiguo e ridicolo microcosmo di ciascuno e il profluvio di cazzate che scriviamo, pubblichiamo e che scambiamo (siamo 1,3 miliardi di navigatori, di cui 830 milioni quotidiani) ridisegnare quel mondo di schifo e di follia e supplire alla sua incongruenza, ai suoi atroci contrasti, alle sue infinite contrapposizioni e paradossi?

Caro Zuckerberg, ci hai fatto sognare, arrabbiare, discutere, indignare, litigare, amare e odiare per dieci anni, non solo on line; hai sconvolto modi, usi e radicate abitudini; hai trasformato il concetto di comunicazione in “tutto il mondo, minuto per minuto”; hai vestito il mondo virtuale di una spessa patina di realtà o di realismo, ma ora limita la tua ingombrante invadenza e comincia a coltivare la discrezione.
Lascia che ognuno decida se, dove e quando indirizzare o raccontare o ricordare i momenti di gioia o di dolore, le ansie e le paure, i ricordi e i pensieri più intimi.
Lascia che ognuno percorra la strada della propria diversità e scelga come suicidare, spargere o sprecare la propria emotività.
Lascia che ognuno scelga di rivivere l’allegria, l’ironia o la tristezza.
Lasciaci la nostra storia.
     
28 dicembre 2014                              (Alfredo Laurano)           
                                                              

sabato 27 dicembre 2014

NATALE E'

Al di là del suo attuale significato commerciale e di quello religioso, dimenticato e sopraffatto, Natale è il momento rituale dei ricordi, il calendario che segna le tappe della nostra vita. Di quello che abbiamo avuto, desiderato, provato, sentito, dall'infanzia alla maturità.
Ci spoglia dagli abiti dell'arroganza e dell'indifferenza, assopisce l'ipocrisia e l'egoismo, mette a nudo la coscienza. E, qualche volta, riscatta la miseria d'animo che ci segna.

Capanne e villaggi, fiumiciattoli e montagne, madonne e bambinelli, pecore e pastori, angeli e stelle rappresentano il nostro presepe personale, i luoghi, le figure, i personaggi della nostra storia. 
L’allegoria dell’esistenza, rivisitata nel tempo che scorre e nei modi che mutano veloci. 
Poi, dopo la festa, tutto torna nello scatolone, in attesa che qualcuno – alla prossima scadenza della tradizione – lo ritiri fuori e lo faccia vivere di nuovo, ricordandosi di noi.

Il Natale è una metafora che ci racconta e ci richiama alla memoria ciò che abbiamo vissuto e condiviso.
Le persone che abbiamo amato e perduto e che ci hanno accompagnato per lunghi tratti della nostra strada.
Le sensazioni e i pensieri che non ci abbandonano mai, le gioie e i dolori che combattono in noi, rinnovando le nostre contraddizioni e il mistero della vita.
E’ un inno alla nostalgia, alla fanciullezza, ai tempi e alle cose perdute, a ciò che non ritorna, ma rimane nel cuore.

Tutto questo esalta i sentimenti, ma li ammanta di tristezza.
(Alfredo Laurano)

giovedì 25 dicembre 2014

LASAGNE SAPORITE

Lucio Dalla, che non solo era un grande artista, ma anche un uomo di rara sensibilità, ogni anno nel giorno dell’Epifania, invitava i senzatetto della città al ristorante di Ezio “Napoleone” Neri, per offrire loro un pasto caldo e una busta con 50 mila lire.
Con la sua scomparsa, quell’eredità non è andata persa, ma viene portata avanti proprio da Neri, chef del pranzo di beneficenza al circolo Benassi di Bologna, al quale sono invitate 250 persone il 3 gennaio prossimo.

Intanto, oggi, giorno di Natale, oltre 400 nuovi e vecchi poveri saranno ospiti al tradizionale (dal 1994) pranzo solidale di Vialarga, offerto da Comune, enti e associazioni varie.
Non sono più solo i senzatetto e gli stranieri a sedersi a tavola, ma anche professionisti, imprenditori, lavoratori italiani in difficoltà economiche, disoccupati, pensionati al minimo, anziani senza famiglia. Nonché, mamme single con minori a carico o padri divorziati che, dovendo pagare gli alimenti a moglie e figli, non hanno più denaro per l’affitto e spesso vivono in auto o in mezzo a una strada.
Uomini e donne, madri e padri, che fino a qualche anno fa avevano un lavoro e pagavano le tasse, ma che a causa della crisi l’hanno perso e non riescono più ad arrivare alla fine del mese: per concedersi il pranzo di Natale e dimenticare, per un giorno, sofferenza ed emarginazione devono ricorrere alle lasagne della solidarietà.
In molte città italiane si moltiplicano queste iniziative solidali che restituiscono un po’ di senso e sapore a una festa, ormai del tutto commerciale. Buon pranzo!

Natale 2014 (Alfredo Laurano)

mercoledì 24 dicembre 2014

DI RINFORZO

Un tempo si credeva che nella notte di Natale avvenissero prodigi e incantesimi e che per farne parte bisognasse purificarsi, cioè, mangiare di magro.
Il 24 dicembre era considerato giorno da “vigilia nera”, tanto che un antico proverbio toscano ammoniva che: 
Chi guasta la vigilia di Natale, corpo di lupo e anima di cane.
Per gli osservanti, vigilia nera significava che il 24 dicembre - ma anche il venerdì santo e il mercoledì delle Ceneri - non solo si doveva astenersi dalla carne, ma i pasti dovevano essere molto semplici e frugali, quindi a base di verdure, ceci, baccalà - un tempo costava poco ed era un piatto povero - e poco altro.
Oltre al significato religioso, per i meno credenti c’era forse anche l’intenzione di preparare lo stomaco al ricchissimo pranzo del giorno dopo.
Cambiati i tempi, è rimasta la consuetudine della cena di magro per la vigilia di Natale diventata, però, tutt’altro che povera. Fritti, paste, minestre, salmoni e capitoni: ogni regione mette in tavola le sue specialità.

Nella tradizione napoletana, però, non può mancare un piatto semplice e appetitoso: l’insalata di rinforzo
Si prepara con cimette di cavolfiore lessate al dente, filetti di alici, olive, capperi, cipolline, cetriolini, sottaceti e papacelle (piccoli peperoni), olio, sale e aceto
Ma perché si chiama così?
Ci sono varie possibili spiegazioni.

Alcuni sostengono che si chiami così perché l’insalata veniva consumata durante tutto il periodo natalizio e man mano che gli ingredienti finivano se ne aggiungevano altri (si rinforzava) nei giorni successivi. Così, si poteva “spizzicare” ogni momento.
Altre fonti riportano che il nome è stato attribuito in relazione alla presenza dell’aceto e delle acciughe, che ne accentuerebbero decisamente il sapore.
Altri ancora, sostengono che “rinforzo” sia riferito alla stimolazione dell’appetito che questo piatto favorisce.
Nessuna delle tre ipotesi, tuttavia, sarebbe attendibile, in virtù di una quarta tesi, secondo la quale era proprio la cena della Vigilia ad essere rinforzata, aggiungendo un piatto più sostanzioso a quella tavola, una volta troppo misera e poco appetitosa.
24 dicembre 2014 
(Alfredo Laurano)


lunedì 22 dicembre 2014

ODOR DI MUSCHIO

Fiabesco, poetico, coinvolgente, ma sempre affascinante: dopo i versi e i ricordi del presepe, serve forse un pizzico di storia e qualche curiosità.
Così lo descrive Goethe nel suo Viaggio in Italia del 1787:

Ecco il momento di accennare ad un altro svago che è caratteristico dei napoletani, il Presepe.
Si costruisce un leggero palchetto a forma di capanna, tutto adorno di alberi e di alberelli sempre verdi; e lì ci si mette la Madonna, il Bambino Gesù e tutti i personaggi, compresi quelli che si librano in aria, sontuosamente vestiti per la festa.
Ma ciò che conferisce a tutto lo spettacolo una nota di grazia incomparabile è lo sfondo, in cui s’incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni”.

Le prime rappresentazioni presepiali si ritrovano già a partire dal II secolo d.C. come raffigurazioni dipinte nelle catacombe, su vetri, miniature e mosaici. La festa cristiana del Natale - trasformazione di una festa pagana (Sol Invictus) legata al solstizio d’inverno - fu ufficializzata nel IV secolo dall’imperatore Costantino,
La tradizione vuole che sia stato San Francesco l'inventore del primo presepe a Greccio nel 1223. 
Presepe significa letteralmente "mangiatoia", la greppia, nella quale, come è raccontato nel vangelo di Luca, fu collocato il Bambino Gesù alla sua nascita.
Con l'aiuto della popolazione locale, Francesco realizzò in quei luoghi, un presepe vivente in una grotta, per ricreare la mistica atmosfera del Natale di Betlemme.

Anche se, in realtà, non è possibile stabilire una precisa data di nascita, in quanto il si è formato nel tempo attraverso vari usi, costumi, addobbi e pitture, soprattutto nelle chiese, sembra che il primo presepe, con scene e personaggi, sia stato scolpito, su committenza di Papa Onofrio IV, da Arnolfo di Cambio nel 1283: un opera poderosa della quale rimangono soltanto cinque statue.

L’Ordine Francescano ne favorì, poi, la diffusione, soprattutto a Napoli. Lì si realizza il grande presepe donato nel 1340 alle Clarisse, per la loro chiesa.
 Nel ’700, comincia il periodo d’oro per l’arte presepiale, prima di tutto, a Napoli.
Con Carlo III di Borbone, raggiunge il suo momento di massimo splendore.
La passione del re fu presto imitata dai sudditi, conquistò tutte le fasce sociali e si espanse oltre i confini del Regno.

Ma proprio da allora, il presepe diventa laico e popolare.
Una rappresentazione della vita quotidiana della gente comune e dell’aristocrazia. Non più il presepe come segno di devozione, ma come occasione per raffigurazioni fantasiose di quella realtà.
Diventa via, via un’opera intimamente connessa alla vita della città, allontanandosi progressivamente da quello storico, ambientato nella Palestina, per improntarsi alla vita del popolo, abituato a vivere tra la miseria e la disperazione.
Il presepe napoletano, che rappresenta anche la contrapposizione tra il materiale e il divino, racchiude la sofferenza di Cristo che nasce povero, raccogliendo la speranza del popolo - povero come lui, ma anche fiducioso - che aspetta e spera la redenzione. Il presepe si carica, così, di una imprevedibile nota “rivoluzionaria” e sociale.

La creatività porta all'invenzione di personaggi sempre nuovi.
La scena riproduce con molta cura le case, le valli, gli ambienti rurali e i mestieri e si arricchisce di pastori, mercanti, pescatori, animali, oggetti, cibi e zampognari, grazie alla perizia di maestri artigiani che danno vita ad autentiche opere d'arte.
Particolarmente ricca è la realizzazione degli abiti del tempo, curati fin nei minimi dettagli: spesso sono opera di sarte o monache di un vicino convento, che ci restituiscono straordinari documenti sui costumi dell'epoca.
E’ una struttura che si offre agli occhi di chi osserva, attraverso piani, prospettive e scenografie: lo sguardo vaga, scruta e ammira, con curiosità, un angolo alla volta, fra i mille e più diversi particolari che caratterizzano gli ambienti, oggi arricchiti anche di luci, movimenti e spettacolari effetti visivi e sonori.
Nella rappresentazione più amata del Natale, il mito e la tradizione si tramandano nel tempo, tra mistero e suggestione. Davanti a ogni presepe, i bambini restano incantati e gli adulti si commuovono, pensando alla propria infanzia. Si riaffacciano lontani ricordi di cose, persone e sensazioni, di quando le emozioni e il sentimento si tingevano di magia.

Da qualche decina di anni, il presepe sta vivendo un periodo particolarmente felice sia per l'attività di abili artigiani e di fantasiosi artisti, sia per l'interesse di collezionisti, di simpatizzanti, di associazioni e di appassionati amanti “dell’odor del muschio” che ogni anno, in dicembre, rinnovano l'antico rito di andar per presepi.

Al presepe, infatti, si dedicano il re e la regina, la cameriera e il letterato, il vescovo e il miscredente, tutti travolti da una misteriosa e contagiosa aficion.

Anche se Vanvitelli considerava l'arte presepiale: “una cosa goffa, una ragazzata”.

20 dicembre 2014                            (Alfredo Laurano)


VERSI DI NATALE


 ER PRESEPIO

Ve ringrazio de core, brava gente,
pé 'sti presepi che me preparate,
ma che li fate a fa? Si poi v'odiate,
si de st'amore non capite gnente...

Pé st'amore sò nato e ce sò morto,
da secoli lo spargo dalla croce,
ma la parola mia pare 'na voce
sperduta ner deserto, senza ascolto.

La gente fa er presepe e nun me sente;
cerca sempre de fallo più sfarzoso,
però cià er core freddo e indifferente
e nun capisce che senza l'amore
è cianfrusaja che nun cià valore.
( Trilussa)

 ER PRESEPE

Io cor presepe torno a èsse pischello,
casette illuminate e li pastori,
che aggiorna e annotta, un misto de colori,
tra pecorelle, bue e somarello.

Tra sassi e ghiaja, er muschio e li rumori,
de mestieranti e d’un mulinello,
co la carta stagnola a fà er ruscello,
ner cielo ’na cometa de chiarori.

Mentre lo guardo l’occhio me se ’ncanta,
se fissa su la grotta e lì vicino,
’na neve de polistirolo ammanta.

Me trovo a raggionà da regazzino,
in quer momento che fa Notte Santa,
e a un tratto ariempie tutto quer Bambino…
(Stefano Agostino)

PRESEPE DE 'NA VORTA

Trovavo ‘n’angolo, ‘n cammera de pranzo e ‘ncominciavo a fa’ ‘n telaio d’aricoprisse co la carta azzurra traforata de stelle.
Aricoprivo tutto co la carta mimetica, sortiva fòra ‘n grottone. Le lampadine intramezzo a li du foji faceveno arisarta’ le stelle.
Co la carta mimetica, stropicciata, ce facevo le montagne e intramezzo lasciavo er vòto de la grotta.
L’impianto de luci che giranno ‘n’interuttore facevno cambia’ arba, giorno, sera e notte. Arivaveno li pupazzetti e tutto s’ariempiva cor muschio (quello vero) e ‘na sporverata de farina a fa’ la neve. (Svardo)


giovedì 18 dicembre 2014

SONO DIECI, MA SEMBRANO MILLE

Quelli della mia generazione sono cresciuti a pane pallone e catechismo, nel timore di un Dio-arbitro inflessibile, che giudica, punisce e che pretende l’assoluta obbedienza ai suoi regolamenti. 
Pena ammonizioni, cartellini gialli o espulsioni dalla riconosciuta comunità: un oratorio, come palestra di vita, di gioco e di conoscenza.

Poi, siamo maturati, abbiamo studiato, imparato, contestato e molto dubitato. Abbiamo allargato spazi e mente e cominciato a pensare in maniera autonoma e libera da lacci e vincoli dogmatici.

Abbiamo rifiutato ogni tipo di indottrinamento e di assurde superstizioni, anche se altri, tuttora, ne portano il folle peso, attraverso forme di esiziale fanatismo e pericolosa intolleranza.
Ci siamo fatti, più o meno, un’idea del mondo, dell’umanità, della religione e, quindi, di un dio, diverso in ogni latitudine, più buono o più severo, che premia o che castiga, a seconda dei casi e delle urgenze politiche o sociali. Un totem da adorare per giustificare i nostri limiti, la nostra impotenza.

Abbiamo anche scoperto che non sempre, e non necessariamente, un qualsiasi credo religioso rappresenta la risposta ad un bisogno innato e primitivo, che nasce dalla voglia di sapere, di capire, di dare un senso a tutto.
Forse, lo costruiamo, su misura, nel disperato tentativo di un'esegesi, personale o collettiva, di ciò che ci circonda: dagli incredibili fenomeni della natura che ci avvolgono e ci dominano - dove il divino e il trascendente sono presenti ovunque, nei cicli, nel giorno e nella notte, nelle piante, nei fiumi, nella terra, in cielo e in ogni cosa - al mistero della nascita, della vita e della morte, a cui cerchiamo di dare una pur approssimativa, ma confortante risposta, assieme agli altri milioni di perché dell’universo, della creazione o del big bang.

Sullo sfondo di questo antico e irrisolvibile dilemma, che vive a confine fra pensiero scettico e razionale e visione spirituale e mistica, Roberto Benigni, con oltre dieci milioni di spettatori al seguito - “grazie ai tanti che sono ai domiciliari” - ha dato vita a un’interpretazione personale, vibrante, passionale e stupendamente poetica dei Dieci Comandamenti: un inno appassionato all'amore, allo spettacolo della vita, dove la realtà dell’esperienza sensoriale si fonde e si intreccia con una dimensione sacra e soprannaturale, alla ricerca della felicità.

Per alcuni, e lo riporto con non poco fastidio, “uno spettacolo di una noia biblica, di catechismo spicciolo e privo di qualsiasi fondamento teologico, un concentrato di buonismo e faziosità cattocomunista, zeppo di pippotti moraleggianti”
Al di là dei commenti di certi “aspiranti” opinionisti, in cerca di gloria e pubblicità - che, parlando di noia da “nuova Corazzata Potemkin”, deridono una delle più alte opere della cinematografia russa e confessano un madornale esempio di ignoranza della storia del cinema - le due serate in TV del geniale “toscanaccio” hanno rappresentato, a mio avviso, il garbato racconto della contraddizione e della fragilità umana, attraverso la bellezza delle parole e la magia dell’immagine evocata. Tutto dipinto con i delicati colori della sensibilità e sull’onda sempre viva dell’emozione.

Anche se ci propone un mirabile affresco spirituale del rapporto con il divino, che oscilla tra amore sacro e profano, fra estasi mistica e contemplazione filosofica, resta comunque una lettura profondamente laica, oltre che di forte attualità, perché, attraverso quei comandamenti, ci guida alla riscoperta di valori umani, sociali e immateriali, troppo spesso dimenticati.

Anche senza la raffigurazione iconografica di Dio che sul monte Sinai consegna le tavole a Mosè, resta integro e assolutamente convincente il significato sociale di quelle norme di buon senso e di giustizia che regolano la convivenza e i rapporti umani, oltre che con il sovrannaturale, senza doverle per forza riferire all’idea di un dio dispotico e intransigente.

Per l’uomo, che si muove scompostamente nel mistero della sua esistenza, i dieci comandamenti, secondo Benigni, rappresentano il bisogno di una legge per essere se stesso: libero di relazionarsi con Dio o di confrontarsi e riconoscersi nel prossimo.
Ulteriore conferma della aconfessionalità e della autonomia del suo libero pensiero, è stata anche la capacità di condannare su certi temi la Chiesa “che si è permessa il lusso di cancellare le parole di Dio per metterci le proprie" e di criticarla per l'uso distorto che per secoli ha fatto del concetto di Dio.

Roberto Benigni ha scritto tante pagine importanti nella storia della televisione e del cinema, da Dante, all’Inno di Mameli, alla Costituzione (“la più bella del mondo”).
Ieri, con i dieci comandamenti ha proposto una affascinante lezione di etica e ha chiarito concetti universali che nemmeno la stessa Chiesa ha mai saputo divulgare.
Ci ha fatto riflettere ed emozionare, con la sua intima religiosità e con l’autentica commozione che lui stesso ha provato: “Stavolta o mi arrestano per vilipendio alla religione o mi fanno cardinale”.

Di fronte a un’umanità sempre più perduta nel male e nella violenza, ci ha parlato di Dio e dell’uomo, con semplicità, con gioia e con rinnovato stupore. E con un pizzico di giusta ironia. 
Forse ho esagerato un po', la gente oggi mi ha fermato: chi si voleva confessare, chi mi ha chiesto se ero libero per un battesimo, c'è gente che vuole destinarmi l'8 per mille addirittura, un altro mi ha chiesto l'indirizzo della parrocchia o mi ha prenotato per la messa di Natale".

Senza veleni, senza arroganza e, soprattutto, senza quella maledetta, distaccata aria di superiorità, professorale, cinica e sprezzante, che oggi dilaga e consente a chiunque di criticare tutto e tutti, per moda e con irritante saccenteria.
Solo i grandi artisti sanno farlo.
 18 dicembre 2014                                   (Alfredo Laurano)

BELVE UMANE


Non passa giorno che l’orrore non si imponga alla cronaca del mondo.
La crudeltà della bestia umana non finisce mai di sorprendere e di sconvolgere la vita e i sentimenti dell’altra parte dell’umanità.
Omicidi, femminicidi, infanticidi, stragi familiari e dell’assurdo sono il pane quotidiano che sazia la nostra fame di conoscenza.

In America, la polizia ogni tanto ammazza un nero per futili motivi, così, tanto per ricordare che certe forme di razzismo e di discriminazione non si possono dimenticare.
In Pennsylvania un uomo ha ucciso sei persone tra cui la moglie e suoi parenti.
A Sidney, uno squilibrato sequestratore ha tenuto in ostaggio per diciassette ore, in una cioccolateria, decine di persone, di cui tre sono rimaste uccise, durante il blitz della polizia.
In Pakistan, poche ore fa, un commando di nove kamikaze talebani ha massacrato 130 bambini e una decina di insegnanti in una scuola per figli di militari.
Il vile atto di terrorismo è stato così motivato: “Colpire i più piccoli, per vendicare il dolore con il dolore.
Secondo quanto raccontato da una fonte dell'esercito, i terroristi, in un delirio di sadismo e perversione, avrebbero dato fuoco ad un insegnante e costretto i bambini a guardarlo mente moriva. "Sono entrati in classe e gli hanno gettato della benzina su tutto il corpo e gli hanno dato fuoco".

Atrocità, cattiveria, ferocia, malvagità, fanatismo.
Qual è la vera natura umana che si manifesta e dilaga quando cadono i freni della ragione e della coscienza? Quando i valori della democrazia, della pace, della civiltà giuridica e della convivenza non hanno alcun senso? Qual’ è la folle idea che spinge a scegliere la violenza e la barbarie contro un altro uomo, un altro popolo e contro chi è semplicemente diverso? Perché l’altro deve essere sempre un nemico, un obiettivo da colpire?

16 dicembre 2014     (Alfredo Laurano)

“…Ancora tuona il cannone,
Ancora non è contenta
Di sangue la belva umana
E ancora ci porta il vento,
Io chiedo quando sarà
Che l'uomo potrà imparare
A vivere senza ammazzare…”
(Auschwitz, Francesco Guccini)



TE PIACE 'O PRESEPE?

Mini presepe marino
Mini presepe classico
Albero tradizionale

"Te piace 'o Presepe?"

- Mini presepe marino,

- Mini presepe classico,

- Albero tradizionale a palle rosse...

Le "grandi opere" (presepi di altre dimensioni, realizzati negli anni) sono incartati, in attesa di appassionati e stimatori.


...."Tommasino (raggomitolato sotto le coperte, reclama):
'A zuppa 'e latte!
Luca: E questa è la sola cosa che pensi: 'A zuppa 'e latte, 'a cena, 'a culazione, 'o pranzo”… alzati, 'a zuppa 'e latte te la vai a prendere in cucina perché non tieni i servitori.
Tommasino: Se non me la portate dentro il letto non mi soso.
Luca: No, tu ti sosi, se no ti faccio andare a coricare all'ospedale.
Concetta: Io nun capisco che ‘o faie a ffa, stu Presebbio. Na casa 'nguaiata, denare ca se ne vanno… E almeno venesse bbuono!
Tommasino: Non viene neanche bene.
Luca: E già, come se fosse la prima volta che lo faccio! Io sono stato il padre dei Presepi …venivano da me a chiedere consigli . mo viene lui e dice che non viene bene.
Tommasino: A me non mi piace
Luca: Questo lo dici perché vuoi fare il giovane moderno che non ci piace il Presepio…. Il superuomo. Il presepio che è una cosa commovente, che piace a tutti quanti…..
Tommasino: A me non mi piace. Ma guardate un poco, mi deve piacere per forza? Voglio ‘a zuppa ‘e latte
Luca: embè, mo te mengo a’ colla nfaccia...."

(Da "Natale in casa Cupiello" di Eduardo De Filippo)


lunedì 15 dicembre 2014

MELE MARCE



In tutti i Paesi del mondo c’è delinquenza e corruzione. Crimini, misfatti, ricatti, narcotraffico e mafie varie fioriscono e si diffondono dappertutto.
Dove ci sono uomini e potere, dove c’è da gestire la cosa e la finanza pubblica, c’è sempre qualcuno che abusa di ruoli e posizioni, che ignora e viola la normale convivenza civile e democratica.
Qualcuno che va ben oltre lo steccato del bene e del male, dell’incerta integrità morale e che calpesta con prepotenza le regole dell’onestà e della trasparenza. Che compra o che si vende, che ruba, che specula e che costruisce immense fortune sul fertile terreno dell’illegalità: sono tante le occasioni di frode criminale che l’articolata fiera della bassezza umana fornisce a larghe mani.
C’è chi è mercenario o prezzolato per indole e natura, chi per vizio acquisito, chi per sete di ricchezza. O chi delinque per avidità, per esaltazione o mania di grandezza, per sentirsi potente e realizzato, appagato dal profumo del denaro!

Si dice che il malaffare trovi molto spazio e consenso tra le pieghe della miseria, dell’emarginazione e della clandestinità e in chi vive in condizioni di ricattabilità. Ma ciò, se è vero, vale solo per chi voglia reperire e acquistare manovalanza criminale, a basso costo, al florido mercato dell’indigenza e del disagio sociale, non per ingaggiare chi è già più che garantito di suo, chi è pronto a vendersi, non per bisogno, ma per accrescere quello che già possiede, il suo patrimonio, la sua sicurezza, la sua condizione di benessere e privilegio.
Sono gli ingordi adepti della filosofia dell’avere.

Secondo gli immorali parametri sociali, oggi si giudica qualcuno non per quello che è, che esprime e rappresenta, ma per quello che ha: chi non fa i soldi è considerato un poveraccio, un incapace, un fallito o un cretino. E’ per questo che lucro, tangenti e mazzette segnano i passi del percorso della corruzione. Fino al trionfo dell’egoismo puro.
Il denaro ti fa bello, bravo e importante, a prescindere da ogni altra eventuale qualità - non necessaria ed essenziale - e da come l’hai ottenuto, rubato o guadagnato. Ti da prestigio, nobiltà e stima sociale.

Ma in questa Italia deviata e perduta, deprivata di valori e degenerata nei principi e nei costumi, la delinquenza si fa sistema, sposando la politica e le istituzioni e assurge al ruolo di “Mafia Capitale”.
Alla mafia storica “coppola e lupara” - quella del tritolo, delle stragi e che fa affari con lo Stato - si sostituiscono, o meglio si aggiungono, altre forme di criminalità organizzata che si riproducono e si propagano per talea: quelle locali, tante piccole “cosa nostra” spontanee e occasionali, che controllano i gangli vitali e i canali di spesa di aree circoscritte. Ogni regione, ogni comune ha la sua “banda della Magliana”, la sua camorra “provinciale” che vigila, presidia il territorio e impone il pizzo e le sue leggi.
Un fenomeno in continua crescita che va sempre più a collocarsi tra le tipicità e le tradizioni del nostro grande Paese, trovando spazio accanto a quelle storiche, artistiche, gastronomiche e di folclore, per le quali un tempo eravamo conosciuti ed apprezzati.
La disonestà è lo strumento di una nuova egemonia culturale, che oggi ci distingue e ci pone al primo posto di quella speciale categoria, nel nostro continente. E ci fa vergognare.

E’ vero che non tutti i politici sono corrotti; che non tutti i grandi appalti odorano di mafia e di tangenti; che non tutti i funzionari e i vigili prendono la mazzetta; che non tutti i professori si vendono, anche in natura, gli esami all’università; che non tutti i rettori sono nepotisti e fanno vincere cattedre e concorsi da primario a figli, mogli e affini; che non tutti i chirurghi operano le vecchiette con scarse aspettative di vita per avere i rimborsi della regione; che qualche centro di identificazione per rifugiati e immigrati funziona decentemente e che qualche cooperativa spende per i rom i soldi che per i rom riceve.
Ma è altrettanto vero che la gestione della cosa pubblica, o di qualsiasi banchetto di potere, sia sempre più vista come l’irripetibile occasione per conseguire profitto e vantaggi personali, per ricevere e scambiare favori, per acquisire consenso, rendite di prestigio e scalare posizioni. Un multiforme contenitore da usare come proprietà privata, da trattare o svendere, quando e come più conviene, in un processo che eccita l’autostima, favorisce il vizio e annacqua la coscienza.
Come dice Travaglio, non sono marce le mele, ma il cestino che le contiene.

A questa distorta e fuorviante mentalità - che a volte suscita persino invidia e ammirazione per chi ha la fortuna di praticarla (ricordiamo, solo per esempio, l’apprezzamento di molti poveri italiani per le promiscue imprese pubblico-private dell’indomito Berlusconi) - ci stiamo un po’ tutti adeguando e abbandonando, forse per noia, forse per stanchezza.
O, forse, perché manca nel popolo-nazione l’idea fondamentale del bene comune, della cosa che è di tutti e che da tutti va difesa e rispettata.
La concezione che chi ruba denaro pubblico, lo sottrae alle nostre tasche. Che chi corrompe o si vende, lo fa sfruttando le nostre risorse, le nostre sicurezze.
Come chi sporca le strade e i monumenti insulta la storia e deturpa la nostra casa.
Farabutti, truffatori, criminali e parassiti sono spesso l’altra faccia della nostra indifferenza.
Se vogliamo liberarcene, dobbiamo estirparla dalla nostra consapevolezza e, forse, dal nostro DNA.

14 dicembre 2014                                          (Alfredo Laurano)