mercoledì 30 marzo 2016

L’ORRORE PERCEPITO

Strage dopo strage, giorno dopo giorno, questo mondo precipita sempre più verso l’orrore, scivola negli abissi della malvagità.
Bombe nelle manifestazioni, irruzioni e sparatorie nei college, atti di terrorismo con attentatori che si fanno esplodere tra la gente ignara, in una stazione, in un aeroporto, in un bar, in un teatro, nella metropolitana o nella strada.
Ogni volta, si rinnova il brivido dell’atrocità e della paura, si riaffaccia la sorpresa e lo stupore e l’asticella dell’incredulità si deve alzare alla successiva tacca della efferatezza.
Ma la partecipazione popolare a questi eventi tragici, la percezione dello strazio e il coinvolgimento di chi osserva non è sempre lo stesso, non è sempre uguale.

Nel villaggio iracheno di al Asriya, 50 chilometri a sud di Baghdad, si può morire allo stadio, dilaniati dall'esplosione di un kamikaze, senza che il resto del mondo se ne accorga. Un campo sportivo, un torneo di adolescenti, una strage di ragazzi.
La partita è appena terminata. Il "martire suicida", anch’esso un ragazzino, entra nello stadio, si mischia tra la folla e si fa saltare. Ha azionato la sua cintura esplosiva mentre venivano consegnate le coppe ai calciatori.
Muoiono 41 persone, i feriti sono 105 di cui molti in gravi condizioni. Almeno diciassette delle vittime avevano tra i 10 e i 16 anni.
L'attentato è avvenuto venerdì, nel tardo pomeriggio, e sembra rivolto, come altri di pochi giorni precedenti, contro le milizie Sciite, da parte dei Sunniti.

Poteva poi mancare il vile eccidio nel giorno della pace e della resurrezione?
“Così, percossa e attonita, la terra al nunzio sta": giunge notizia, un po’ attutita e lontana, anche della strage talebana di cristiani: 72 persone uccise, 320 ferite, in maggioranza donne e bambini della minoranza cristiana, in un attacco suicida in un parco pubblico di Lahore, nel Pakistan centrale, gremito di famiglie che celebravano la Pasqua.

Fossero avvenute in Europa, queste due recenti stragi, s'indignerebbe e piangerebbe il mondo, come è stato per Parigi, per Madrid, per Londra, per Bruxelles. Fra larghissimi tappeti di fiori, di candele e di lumini, di biglietti, di gessetti colorati e di preghiere collettive nelle piazze. Con il sentito e rituale cordoglio delle istituzioni e dei politici, con i Tg e gli speciali non stop, con le notizie e i continui aggiornamenti, con i collegamenti in diretta e centinaia di inviati e quotidiani dibattiti nei talk.
Niente di tutto questo è accaduto per le due tragedie, irachena e pakistana, appena raccontate dai media per dovere di cronaca: non hanno lo stesso peso informativo o analoga importanza, anche se tra le più crudeli e disumane.

L'emozione personale e collettiva che suscita un massacro, un naufragio di migranti o un attentato non è mai la stessa: la perdita della vita di un familiare, di un amico, di un concittadino o di un italiano - non a caso, il primo dato che viene fornito dalle agenzie è proprio la nazionalità delle vittime -  non è mai uguale a quella di qualcuno che vive in un Paese che poco conosciamo o che è molto distante per cultura, tradizione e geografia.
Di molti posti della terra sappiamo, a malapena, poco più che il nome e, spesso, nemmeno l’ubicazione sulla mappa: dunque, la reazione è innegabilmente più blanda e relativa e il dispiacere più o meno intenso e articolato.

Così, come la commozione è più forte se si tratta di un bambino, di un anziano, di un essere più debole o di un’etnia fragile e indifesa.
E’ come se il significato della vita e la dimensione del dolore, per ognuno o per alcuni, fossero variabili o avessero una diversa quotazione nella scala dei valori o dipendessero da parametri convenzionali e spazio-temporali.
Come se il pianto, la sofferenza e la disperazione di una madre siriana, israeliana o palestinese fossero sentimenti meno veri, meno autentici e profondi di quelli di una qualsiasi madre belga, francese o, comunque, occidentale.
Ma come il sangue, anche il dolore non ha colore o nazionalità.
 30 marzo 2016 (Alfredo Laurano)

UNO SPIRAGLIO UMANITARIO

Cinque anni di guerra in Siria hanno provocato, oltre a centinaia di migliaia di morti, 13 milioni di sfollati e profughi. Uomini, donne e bambini - circa la metà della popolazione dell’intero Paese - hanno dovuto abbandonare le case distrutte e le proprie cose.
Sono finiti nei campi profughi di mezzo mondo, ma circa due milioni vivono ancora lì, sotto assedio, intrappolati nella guerra. 
Molte città sono rase al suolo e 63 ospedali sono stati bombardati in attacchi mirati (non certo per errore, come si vuol far credere, vista l’alta tecnologia e i satelliti impiegati) contro strutture civili, accanto ad obiettivi e gente che non combatte.
In particolare, ad Aleppo - la città più popolosa della Siria, detta la Bigia, la capitale del nord -  dove ogni giorno l'esercito e i ribelli combattono gli uni contro gli altri. 
La città è un campo di battaglia e quasi tutti i civili l'hanno abbandonata. E’ completamente devastata, alcuni sopravvivono in condizioni impossibili, senza niente, senza cibo, senza luce: manca tutto, perfino l’acqua.
Un milione mezzo di siriani, con un flusso inarrestabile, si sono rifugiati in Libano, dove non ci sono altri campi profughi e dove vivono come possono, sotto tetti e terrazzi o in baracche fatiscenti, pagando affitto, cibo, elettricità. Si scaldano bruciando plastica.
Intere famiglie, con bambini e anziani, sopravvivono all’addiaccio o sotto il sole cocente senza protezione, abbandonate a loro stesse e c’è chi, non avendo altra alternativa, considera l’opzione più estrema, emigrare per mare: “Ci stanno stringendo un cappio intorno al collo, da qui ci cacciano e in Siria non possiamo tornare. Preferiamo morire in mare che sotto il sole in una strada”.
Intanto, al largo della Turchia, nell’Egeo, nel Mediterraneo e nella via dei Balcani si continua a morire tutti i giorni. Profughi e migranti, tra cui moltissimi bambini, annegano in quei mari, ma anche nelle acque dei fiumi, o per malattia e stenti.
E queste cronache, ormai, non fanno quasi più notizia, se non per l’orrore e il malessere che provocano certi incredibili reportage televisivi, realizzati da coraggiosi inviati.

Nei risvolti amari di questo epocale disastro, si è aperto finalmente, quasi per miracolo, un timido spiraglio di speranza: un progetto-pilota realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dalle Chiese Evangeliche e dalla Tavola Valdese che unisce la solidarietà e la sicurezza e consente di aiutare persone che fuggono dalla guerra.
Cento profughi provenienti dal Libano, tra cui bambini, disabili, anziani e vedove di guerra con figli, sono già stati trasferiti in Italia, attraverso viaggi sicuri in aereo. Un canale legale contro i viaggi della morte e il traffico dei mercanti.
Nei prossimi mesi, grazie a un accordo con il governo italiano, attraverso altri corridoi umanitari arriveranno nel nostro Paese un altro migliaio di profughi - attualmente in Marocco, Libano ed Etiopia - scelti in base alla condizione di vulnerabilità (vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, malati).
Tale iniziativa indica che un’altra via è possibile e che si può e si deve affrontare questa emergenza umanitaria con modalità diverse da quelle arrangiate fino ad oggi. C’è da sperare che le istituzioni europee, incapaci, indecise e titubanti, o in molti casi assenti, possano decidere qualcosa di nuovo e di efficace, in questa direzione.
Lo stesso Francesco, il cui primo viaggio da papa è stato proprio nel segno di Lampedusa, lo definisce segno concreto di impegno per la pace e per la vita, esprimendo grande ammirazione per la scelta dei corridoi umanitari.
Questo progetto è come un accordo di pace perché permetterà di salvare tante vite umane.
Per la prima volta, disciplinando flussi, spazi, numeri e reali possibilità, chi ne ha diritto potrà finalmente entrare nel nostro Paese evitando le scommesse con la morte e col destino: un modello replicabile dappertutto, a condizione che ci sia la volontà di farlo, invece di erigere altissimi muri e reti spinate.
Le spese per i viaggi, in aereo o in nave, per l’ospitalità e l’assistenza legale saranno tutte a carico delle associazioni e dei privati, in larga parte con l’8 per mille dei Valdesi e con fondi della Comunità di Sant’Egidio. Attendiamo, con fiducia, anche la disponibilità della Chiesa cattolica.
Ai profughi, una volta arrivati in Italia, si offrirà anche un programma di integrazione che prevede l’apprendimento della lingua italiana, l’avviamento al lavoro e l’iscrizione a scuola per i minori.
Mille persone, per ora, ma con la speranza che in futuro siano molte di più ad essere finalmente sottratte al rischio di morire in mare, ma anche allo sfruttamento economico da parte dei vili mercanti di uomini.
Per qualcuno, più che un viaggio, è iniziato un sogno, il sogno di non patire più la violenza, le bombe, la fame, il freddo e il dolore per i figli senza futuro.
(Alfredo Laurano)




domenica 27 marzo 2016

COME RITO COMANDA

Tra una strage e l’altra, anche quest’anno arriva Pasqua. E porta il suo messaggio di amore e fratellanza.
Cristo risorge, ma non vede. Sangue e teste continuano a scorrere nei fiumi immensi della follia umana, a dispetto delle feste e delle tradizioni. E nemmeno i tanti Lazzaro del mondo risorgono, si alzano e camminano.
Intanto, domenica scorsa, i cristiani si sono scambiate le palme e i rami d’ulivo in segno di pace e domani celebrano la rinascita del Cristo.
Soprattutto a tavola.
Oltre ad essere (o, forse, lo era) un momento di riflessione spirituale, carico di simbologie, allegorie e di contenuti storico-metaforici, questa festività vanta anche una lunga tradizione gastronomica, costituita da ricette particolari, piatti caratteristici e dolciumi tipici, i cui ingredienti vengono tramandati da secoli.
Colombe dolci (simbolo di pace), uova sode e di cioccolato (simbolo di rinascita), torte pasqualine, pizze al formaggio, coniglietti e pecorelle di zucchero.
Ma, soprattutto, l’agnello che rappresenta il sacrificio di Gesù - buono e mansueto come l’animale stesso -  che ha dato la vita per salvare l’umanità: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” e, nello stesso tempo, è anche il simbolo dell’innocenza e del candore, offerto dall’uomo in sacrificio, durante la Pasqua ebraica.
L’episodio di Abramo che immola l’animale in luogo del figlio Isacco, dalla cultura ebraica venne poi adottato dal cristianesimo, che paragonò l’agnello a Cristo che, come l’animale, fu sacrificato senza colpa.
Ancora oggi è il cibo della Pasqua giudaico-cristiana: simbolo sacrificale per eccellenza, offerto a Dio, ma consumato e divorato dall’uomo. Per devozione.

Privarsi e rinunciare è da pagani, perché Pasqua è la festa della Resurrezione. Ma, anche strage di piccoli agnellini che, dopo tre giorni, non risuscitano.
Una strage che si è consumata in queste ore.
Anche se in Occidente non ci sono più riti e sacrifici dedicati a una qualche divinità, in nome di una qualche religione, resta la tradizione della tavola imbandita, dell’abbuffarsi d’abbacchio e di regalare, ipocritamente, ai bambini l’agnellino di zucchero, con fiocchetto rosso e campanellino.
Gli agnellini ci ispirano tenerezza quando li vediamo, eppure, a un mese di vita, vengono strappati alle madri e portati in un lurido macello.

Ogni anno, a Pasqua, vengono uccisi 900 mila tra agnelli, capre e pecore. Animali che arrivano quasi tutti dai paesi dell'est, con lunghi ed estenuanti "viaggi della morte", stipati in camion strapieni, in condizioni insostenibili - molti arrivano al macello più morti che vivi - e mai sottoposti a controlli.
Gli animali terrorizzati camminano sul sangue e urlano mentre sono spinti con la forza al macello. 
Vengono immobilizzati, issati a testa in giù, storditi con una scarica di corrente elettrica e sgozzati, mentre alcuni di loro ancora si agitano e sono coscienti. Appesi a un gancio, per una zampa, e lasciati dissanguare. Prima di essere appesi e uccisi, sentono l'odore del sangue e i guaiti di terrore dei loro compagni.
Tutto questo, perché? 
Solo perché a molti piace mangiarli!
Non potrebbe esistere un motivo più futile per sottoporre questi cuccioli a tanta sofferenza e alla morte precoce.
Salvarli è facile: basta non mangiare agnello a Pasqua, né in nessun'altra occasione.
Pasqua 27 marzo 2016 (Alfredo Laurano)




giovedì 24 marzo 2016

FO NE FA NOVANTA!

Oggi, Dario Fo, il nobile giullare, compie 90 anni! 
Una straordinaria avventura artistica la sua.
Che altro dire, scrivere o pensare di questo geniale menestrello che, con la sua stupefacente mimica, con il suo stile beffardo e canzonatorio e con la sua suadente capacità di affabulazione, ha da sempre raccontato il rapporto fra Potere, religione e società? 
Che in una lunga serie di commedie, ritratti e personaggi ha rappresentato i grandi temi della nostra quotidianità, anche attraverso la storia, i miti e la leggenda?

Ricordo tutti gli spettacoli di Dario e Franca che ho seguito al Teatro Tenda di piazza Mancini di Roma, negli anni settanta.
Da “Mistero Buffo” recitato in “grammelot” - un linguaggio eccezionale che si rifà alle invenzioni dei giullari e alla Commedia dell'Arte, fatto di suoni che imitano il ritmo e l'intonazione di dialetti padani e popolari - a “Morte accidentale di un anarchico”, al “Fanfani rapito”, a “La signora è da buttare”, a “Settimo, non rubare”, a “Pum pum! Chi è? La polizia”…
E ricordo, soprattutto, le sue spassose improvvisazioni, i commenti caustici ai fatti del giorno, le parodie, le battute che introducevano, di solito, la commedia. Uno spettacolo nello spettacolo! Ogni volta entusiasmante!
In ogni passaggio, si coglieva la magia, la spontaneità, la bravura imbarazzante, la vis comica innata, l’ironia pungente, la capacità di coinvolgere gli spettatori e di farli sentire partecipi, amici e protagonisti.
Sotto il palco, prima e dopo la recita in programma, Dario e Franca ridevano e scherzavano con tutti, fra abbracci e pacche sulle spalle.

I testi erano di satira politica e sociale per un teatro militante e popolare, critico e alternativo, anche nei luoghi in cui si realizzava: piazze, fabbriche, case del popolo e per un pubblico ben diverso da quello tipico dei teatri classici o borghesi.
Gli incassi servivano spesso per sostenere la militanza in Soccorso Rosso, che aiutava, anche legalmente, i detenuti della Sinistra extraparlamentare e controllava le loro precarie condizioni carcerarie.
Tutta l’opera di Fo è intrisa di valori sociali e libertari, è anticonformista, anticlericale e fortemente critica nei confronti delle istituzioni e della morale comune, sempre attraverso lo strumento della satira feroce che non fa sconti.
La costante opposizione a ogni forma di potere prepotente e vessatorio ha reso Fo, almeno fino al premio Nobel del 1997, un artista particolarmente "scomodo". 
Non a caso, fu cacciato dalla Rai nel 1962 e poi dimenticato per parecchio tempo.
In molte farse, con o senza Franca, si è preso gioco anche del mondo ecclesiastico che non l’ha mai molto amato.

Oggi, dando ulteriore prova di onestà intellettuale e del suo spessore umano, il laicissimo Dario Fo, l’impareggiabile buffone che da sempre ha preso in giro Chiesa, potere, papi, presidenti, politici e cardinali, è arrivato, paradossalmente, a schierarsi con il rappresentante massimo della chiesa cattolica, papa Francesco, che in più occasioni ha apertamente criticato il mondo del business internazionale, le banche e i poteri forti, i fanatici del profitto a tutti i costi, i fabbricanti di armi, di guerra, di morte e di violenza.
Un uomo che Dario ammira, in una naturale e non troppo sorprendente vicinanza di pensiero e sentimenti, perché tenta migliorare il mondo e di tutelare i più deboli ed emarginati e che per questo dà fastidio.
Come dava fastidio lo stesso Fo, fino a qualche tempo fa. Auguri!

24 marzo 2016 (Alfredo Laurano)

mercoledì 23 marzo 2016

FISIOLOGIA DEL TERRORE

Non riusciamo e non facciamo in tempo a metabolizzare l’orrore, il dolore o la paura di un attentato, di un feroce omicidio o di una incredibile disgrazia, che già siamo costretti a partecipare emotivamente - se non siamo coinvolti fisicamente - a un nuovo fatto di sangue che sconvolge la nostra vita, la quotidianità, le presunte certezze, le abitudini di quella felice e, spesso, noiosa condizione che chiamiamo, per contrapposizione, normalità.
Già l’attentato di Charlie Hebdo aveva scavato a fondo nella coscienza collettiva di intere comunità di cittadini e ridimensionato ogni illusorio baluardo di sicurezza, che sono arrivate le stragi nei musei e nelle spiagge della Tunisia, quelle nei bar e del Bataclan di Parigi, quelle in Turchia e nello Yemen.
Siamo stati sopraffatti dall’indignazione per altre atrocità commesse dalla belva umana o per un delitto per gioco e senza senso o dallo stupore di una terribile sciagura che uccide per caso tredici giovanissime fanciulle e i loro progetti di studio, di vita e di futuro.
Ci stiamo piano, piano, abituando al male, al disastro, alla tragedia, all’ineluttabile destino del terrore.
Aumenta progressivamente l’incertezza e il senso di precarietà cresce, ogni volta, a dismisura, fino a stravolgere ogni residuale tentativo di equilibrio fisico e mentale.
Prevale allora la sensazione di impotenza, mista ad angoscia, che incalza e scalza quella timida voglia di ottimismo della volontà, che con grande sforzo, ci imponiamo e che ci dà conforto.

E così, in questo forzoso cammino verso l’assuefazione all’empia fatalità, perfino i gravi atti di terrorismo, di stragi e devastazioni diventano un male fisiologico, qualcosa con cui convivere, qualcosa che non può essere che così. Un fenomeno che rientra nei limiti della norma, organico e reale.
E puntualmente accade e riaccade, si ripropone come un ciclo ricorrente, ma disordinato e irregolare, al di là di ogni possibile previsione. Intelligence, Apparati e Servizi risultano inefficaci e impreparati, vengono sconfitti ed umiliati, come tutte le buone e le migliori intenzioni di chiunque vigili sulla salute pubblica.
Anche Bruxelles, la città da tempo più blindata e militarizzata del mondo, è stata colpita nel vivo, con ordigni e kamikaze all’aeroporto e in centralissime stazioni della metro.
Un’ennesima strage. Non certamente l’ultima. Altre vittime di esaltati che disprezzano la vita propria e di chiunque, altro sangue da versare, da piangere, ma da lavare subito, per lasciare pulito e pronto il prossimo palcoscenico dell’orrore. Ovunque sia, ovunque e quando, casualmente, il male sarà ancora in onda.

Se ci riescono a Bruxelles, teatro, da mesi, di una capillare caccia all’uomo, figuriamoci cosa possono fare altrove. Chi non lo pensa?
Sta qui la grande paura di queste ore. Se il 13 novembre avevamo tutti provato orrore e pietà per la Parigi insanguinata, oggi, in questo 22 marzo, mentre si contano i morti di Bruxelles, proviamo soprattutto altra paura. Una paura che l’opinione pubblica sente salire sempre diversa e sempre più crescente e che investe istituzioni, famiglie e comuni cittadini.
22 marzo 2016 (Alfredo Laurano)


MISERABILI

Non bastavano i tifosi olandesi che qualche giorno fa, a Madrid, per divertimento e originale passatempo, hanno sbeffeggiato e umiliato alcune mendicanti, lanciando loro monetine, come mangime per piccioni, costretto a fare flessioni e dato fuoco a banconote che le stesse poverette dovevano cercare di prendere e salvare a mani nude. 
Né, quegli altri barbari, sempre olandesi, sempre travestiti da pseudo tifosi, che hanno devastato mezza Roma e la Barcaccia qualche mese fa. Ci infuriamo, protestiamo, condanniamo, ne facciamo un caso internazionale, tra tante parole di sdegno e riprovazione delle istituzioni.
Ma gli infami non finiscono mai. Sono sempre in libertà, esportano la propria malvagità, non hanno confini, circolano indisturbati nelle nostre città.

A Roma, altri esseri immondi - stavolta tifosi dello Sparta Praga, ma poco importa - hanno urinato addosso a una donna che chiedeva l'elemosina, prostrata a terra, a ponte S. Angelo. Tra chi passava, chi guardava e chi girava la testa dall'altra parte, senza intervenire. Qualcuno ha anche sorriso, gustandosi lo spettacolo.
Apatia e colpevole indifferenza davanti a una scena che fa rabbrividire e che dovrebbe suscitare totale indignazione. Un'immagine che andrebbe stampata in manifesti enormi e affissa ovunque, per far conoscere un ripugnante esempio di vergogna umana.

La logica che guida questa gentaccia che deride, che mortifica, che disprezza, è la stessa che animava i nazisti che giocavano con le proprie vittime nei campi, che le uccidevano al tirassegno, che si esaltavano nella cultura del sangue e della violenza pura, come nei circhi dell’antichità.
Un’essenza ibrida di imbecillità e bestialità primitiva che avvolge e deforma ogni presunta definizione di civiltà.

21 marzo 2016 (Alfredo Laurano)

giovedì 17 marzo 2016

PERCHE’ LO SPORT FA BENE!


Ci hanno sempre insegnato - e noi abbiamo insegnato ai nostri figli - che lo sport non solo fa bene a livello fisico, ma aiuta il bambino ad apprendere valori come l’amicizia, la lealtà, la solidarietà, il lavoro di squadra e la capacità di crescere e maturare.
Chi pratica o frequenta uno sport impara presto a gestire i rapporti con gli altri, ad avere rispetto nei confronti di compagni ed avversari, a riconoscere lo spirito di squadra e di gruppo, perché ogni disciplina sportiva favorisce l’integrazione sociale, al di là della provenienza etnica. Lo sport parla un linguaggio universale che riesce ad unire i giovani, superando differenze culturali, religiose, sociali.


Tutti principi, valori e belle parole che i civili tifosi del Psv Eindhoven hanno rinnegato ieri, in occasione della partita di Champions con l’Atletico Madrid.
La mattina, prima dell’incontro, seduti comodamente al sole a bere birra in un bar di Madrid, hanno inventato un bel giochetto passatempo nei confronti di alcune mendicanti della piazza.
Si sono sonoramente divertiti a lanciare monetine, come fossero briciole tirate ai piccioni, urlando olè e facendo la ola, ogni volta che le poverette, in cerca di elemosina, si chinavano per raccogliere i pochi spiccioli da terra, venendo letteralmente umiliate e sbeffeggiate.
Altri, le hanno costrette a fare flessioni in cambio di qualche soldo e dato fuoco a banconote che le stesse cercavano di prendere e salvare a mani nude.  

In serata, giustamente, la loro squadra è stata sconfitta ai rigori dall'Atletico ed eliminata dal torneo, ma loro, quei barbari olandesi invece avevano già perso, molto prima la partita della civiltà, mortificando e schernendo quegli emarginati.
Ennesimo e significativo esempio della nuova cultura, sempre più violenta e razzista, espressa da certe frange dello pseudo-sport, che vivono di stupidità, di pochezza intellettuale e disprezzo dell’altro, in antitesi a tutto ciò che significa imparare, pensare e vivere sportivamente.  
16 marzo 2016 (Alfredo Laurano)

lunedì 14 marzo 2016

PERSI E PERVERSI DENTRO

Una vita di eccessi e di sballo. L’epilogo non poteva che essere inevitabilmente tragico. Indipendentemente dai gusti e dagli orientamenti sessuali, le turbe mentali dei due assassini di Luca Varani - ingannato, catturato e ucciso per un pugno di quattrini - sono certamente profonde, anche se aggravate dall'uso abnorme di sostanze stupefacenti.

Uno, Manuel, il ragazzo “modello”, dichiara che, mentre massacrava Luca, voleva in realtà ammazzare il padre, quello che a poche ore dal delitto consumato dalle due belve umane, è andato da Vespa, nel solito salottino bianco delle vergogne umane, per dipingerlo ed esibirlo alla nazione, come figlio quasi esemplare. Come dire, quel ragazzo “modello” avrebbe commesso un omicidio vero, ma metaforico e per vendetta sul piano motivazionale. Scaturito, cioè, da un irrisolto complesso edipico, che sarebbe all'origine dei suoi gravi disordini psichici e dei suoi desideri sessuali ambivalenti.

L’altro, il fico Marco, descritto come depravato, aggressivo e decisamente borderline, si traveste da donna mentre uccide, perché avrebbe voluto cambiare sesso. Ma qualcuno, la famiglia, le convenzioni, la società cattiva e omofoba, glielo avrebbero impedito, allora è costretto ad ammazzare qualcuno per altra “giusta” vendetta, non per malvagità.
E sempre per queste ragioni, è costretto a frequentare discoteche e notti mondane, nonché a organizzare party non stop a base di droga, alcool e sesso, a fare regolarmente uso di cocaina e farmaci in quantità industriale, a non fare un cazzo dalla mattina alla sera, a inventarsi serate insane e folli per vincere la noia, dove gira un circo di sballati e macchiette umane.
E’ gay e bisessuale, non distingue e non discrimina ciò che provoca piacere e appaga un qualsiasi desiderio; conosce Luxuria e frequenta Flavia Vento, come è normale per chiunque, ma anche tanti altri personaggetti allucinati, sconvolti e stralunati, fino a diventare un mostro e a precipitare nel vasto buco nero del delirio e dell’aberrazione.

Nell’ambiente omosessuale romano circolano molte voci sullo stile di vita che amava condurre: si dice che spesso i suoi rapporti intimi erano consumati nel sangue e che, addirittura, amasse ingerire zollette di zucchero bagnate con sangue e sperma, un gesto perverso al culmine di giochi erotici, di ruolo e sadomaso. 
Molti lo definiscono “bipolare”, cioè affetto da un disturbo caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore e, quindi, delle emozioni e dei comportamenti: dalla fase di esaltazione maniacale a quella depressiva, senza alcuna apparente ragione.

Non tipico omicidio, non delitto come tanti, quindi, ma pura e forse lucida rappresaglia contro qualcosa o qualcuno. Come in tempo di guerra, quando, per reagire a un attentato, a una provocazione, si colpisce il nemico, ricorrendo alle armi dell’orrore, della minaccia, della paura.
Ma sempre di orrendo crimine si tratta. Da punire, con esemplare condanna, al di là di ogni attenuante psichiatrica, che non giustifica le scelte volontarie di drogarsi e di crearsi una realtà parallela. Che, come dice l’altro padre di quest’altro assassino, “annebbia la speranza, richiama dolore, intacca la fiducia nella bontà delle relazioni umane e fa a brandelli la vita di tre famiglie”.
Forse, anziché affidare al suo blog le sue amare riflessioni, questo pentito padre avrebbe fatto meglio a scrivere e chiedere perdono alla famiglia di Luca, che il proprio figlio non vedranno più, per scelta ignobile del suo.
14 marzo 2014 (Alfredo Laurano)


NASCERE NEL FANGO

Nel fango, spesso, si finisce, ma non ci si dovrebbe nascere, soprattutto nel XXI secolo e nella colpevole indifferenza della collettività.

Migliaia di rifugiati siriani, temendo di rimanere intrappolati in Turchia, hanno raggiunto la Grecia e il campo di Idomeni, al confine con la Macedonia.
E lì sono accampati, bloccati e ammassati da giorni, in attesa di attraversare la frontiera e raggiungere altri Paesi europei. Non c’è spazio per tutti, molti dormono fuori al freddo“.
La situazione è tragica, dicono i "medici senza frontiere", che lì stanno operando,
anche da un punto di vista sanitario: i pazienti sono soprattutto bambini che hanno infezioni respiratorie, gastroenterinali e cutanee. Ma anche adulti con stress post traumatici; anziani con malattie croniche che da settimane non hanno accesso alle cure, disabili, donne incinte che hanno bisogno di un letto d’ospedale…

Nelle ultime ore, il campo è stato sommerso da grandi piogge.
Tutti cercano legna da ardere per riscaldarsi davanti alle migliaia e migliaia di tendine estive affogate nel fango. Si comincia a tossire parecchio per il fumo.
La quantità di arrivi, che continuano, è stata notevole. Si parla di 15mila persone, ma nessuno tiene più i conti.
Ci sono migliaia di bambini con biscottini e bottigliette d’acqua in mano.
Una situazione oltre ogni limite che poteva essere evitata. Non siamo di fronte a un terremoto, a un tifone o a un’alluvione…(A. La.)

TATUAGGI, SIMBOLI E LINGUAGGI

VIDEO http://www.romatoday.it/eventi/cultura/video-tatuaggi-roma.html

"...Perché è un modo di dimostrarsi se stessa...perché fanno bene al corpo e alla mente...non è più una sottocultura..."

Forma d’arte, di costume, di moda, di decadenza?
Le origini del tatuaggio si perdono nei tempi. 
Nelle pitture funerarie dell'antico Egitto (2000 a.C.) compaiono sui corpi delle danzatrici, i Celti adoravano divinità animali, quali il toro, il cinghiale, il gatto e in segno di devozione se ne tracciavano i simboli sulla pelle. 
Gli antichi romani, che credevano fermamente nella purezza del corpo umano, lo usavano esclusivamente per marchiare schiavi e criminali, mentre i primi cristiani si tatuavano la croce di Cristo sulla fronte.  
Da quando la stirpe umana ha avuto la capacità di marcare la pelle, ha preso il via il fenomeno, dalle prime rudimentali metodologie e disegni, fino ad arrivare ai dettagli tecnologici di oggi.
Marchiati come buoi, o illustrati come quadri e tele, o murales corporei sulla pelle. Paesaggi, scritte, slogan, aforismi, fiori, paesaggi, teschi, serpenti, simboli d’amore, di guerra o religiosi, ma anche di schiavitù, di usanze tribali o di appartenenza a un gruppo o segni antropologici di delinquenza, come sosteneva Lombroso. Infatti, una volta si marchiavano i condannati.

Può essere e significare davvero tutto. 
Ci si tatua per fissare un momento della propria storia: un pensiero, una prova, un credo, un amore, un rito di passaggio, un marchio distintivo, un ricordo che non si vuole cancellare dalla mente e dalla vita.
C’è un’ideologia di fondo che accomuna praticamente tutte le varie forme del tatuaggio: queste creazioni della pelle hanno tutte un significato fondamentale e personale per l’individuo che lo pratica: è la chiave di ogni disegno.
Le motivazioni per cui oggi ci si tatua non sono molto diverse o distanti da quelle che contrassegnavano l’individuo come membro di una determinata tribù.
Ricordando, soprattutto, che nel secolo scorso, i tattoo erano il marchio di minoranze etniche, marinai, veterani di guerra, malavitosi, carcerati ed erano considerati indici di arretratezza e disordine mentale.
Tali forme “artistiche” erano e sono, non solo espressioni per celebrare l’io individuale o il proprio corpo, ma avevano ed hanno legami più intimi, in relazione a convinzioni religiose, spirituali e magiche.
Ognuno gli attribuisce un senso o un valore: per vanità, per omaggiare il corpo, per prestarlo all’arte, per soddisfare il proprio narcisismo, per esibire l’opera di qualcuno sul proprio cartellone itinerante, scegliendo e decidendo come essere “marchiato”, con quale decoro strabiliante.
Le composizioni oggi coprono qualsiasi porzione del corpo e della pelle, dalla testa, ai piedi, attraversando il collo, il petto, l’inguine, le braccia, la schiena, le gambe, fino al pene o le labbra vaginali, in compagnia spesso di anellini, borchie e catenine.

L’uso massiccio del tatuaggio, e anche del piercing, ha trasformato, comunque, il corpo in nuovo strumento di comunicazione.
Di che, è tutto da scoprire, da capire e interpretare.
12 marzo 2013 (Alfredo Laurano)

Per chi volesse osare di più, suggerisco un paio di link video:

https://www.youtube.com/watch?v=9ZAr3zwTIh8
https://www.youtube.com/watch?v=9ZAr3zwTIh8






giovedì 10 marzo 2016

PER VEDERE COME STANNO LE BESTIE FEROCI

Torturato e massacrato a coltellate e colpi di martello, a 23 anni, durante un lungo festino a base di 1500 euro di coca, di alcol e sesso gay.  Un omicidio premeditato, aggravato dalla crudeltà, dalle sevizie e dai futili motivi.
Per gioco estremo, per noia, per bisogno di brivido ed emozioni forti, per una intensa scarica di adrenalina, quale diversivo alla propria nullità. Senza, all’apparenza, un qualsiasi altro movente.
“Ti vogliamo pulito, dicono alla vittima, fatti una doccia”. E quando esce, mezzo nudo, gli sussurrano brutalmente “Abbiamo deciso di ucciderti”.
Siamo oltre la più feroce bestialità, che solo un umanoide guasto può consapevolmente esprimere.
Il giovane Luca Varani, viene reso inoffensivo, intontito e stordito da una mistura di farmaci e metadone e subito torturato con coltelli e un martello.
L’agonia dura ore. Viene sgozzato prima di essere ucciso e non urla, né chiede aiuto, perché gli hanno reciso le corde vocali. Decine di ferite fino all’ultima, decisiva, al cuore.
Gli inquirenti lo troveranno con il coltello ancora conficcato nel petto.
Dopo aver ucciso, i due assassini dormono a fianco del cadavere per circa sei ore.

Una vita vissuta sniffando e sballando, come in tante altre precedenti occasioni, con altri soggetti che ne sono usciti per fortuna vivi, dove il vuoto esistenziale, casualmente intriso di occasionali rapporti sociali e incontri personali anaffettivi, viene riempito da spazi e soggetti quasi virtuali.
In un non luogo, o luogo dell’apparenza e del verosimile, come quello dei social e del Web, dove è facile costruire un’identità che manca, disegnare un percorso fittizio della propria esistenza, tra le vie dell’alcol e della droga, e incontrare altri figuranti dell’essere. Come pretende la cultura dello sballo portata alla massima espressione.
Un limbo privo di passioni vere, di slanci e di umanità, dove l’assenza di ordinaria quotidianità si riversa drammaticamente nel patologico bisogno di provare qualcosa di forte, di eclatante, di non comune: uccidere “per veder l’effetto che fa”, come hanno candidamente confessato le due belve umane e come stupendamente cantava il grande Jannacci, mentre andava allo zoo comunale.

Vengo anch’io? No, tu no. Anzi, si.
Per completare questa insensata fiera del disgusto, non poteva mancare uno spicchio di farsa nella tragedia, in ossequio alla vigente cultura mediatica, che spettacolarizza morti, disgrazie e violenze d’ogni tipo.
Il padre di uno degli assassini ha avuto il bel coraggio e l’improntitudine di presentarsi in TV, dal solito, nauseabondo Vespa - depositario e cantore di intrighi politici, drammi umani, risotti e gossip quotidiano - per difendere, con lucidità e distacco, e senza un minimo di naturale sconvolgimento, il proprio figlio, che aveva appena ammazzato per capriccio un giovane quasi sconosciuto:  “Un ragazzo modello, buono e riservato, contrario alla violenza e con un quoziente intellettivo sopra la media”.
Mancava solo che aggiungesse “un figlio che tutti padri vorrebbero avere!”

Che fortuna poter avere un ragazzo così “modello”, modello esemplare di una vita rovesciata, sprecata e trascorsa tra vizi, festini, cocaina e altre mitiche imprese eroiche e umanitarie. Un privilegio che mi pregio di non godere.
Sia ergastolo per lui e per il suo abietto sodale, spietato assassino.
La società civile della gente che ama e che lavora, e di tutti gli altri padri, non ha bisogno di questi modelli rari e schifosi, da museo degli orrori.
Questi “modelli” devono marcire in galera.
10 marzo 2016 (Alfredo Laurano)