mercoledì 31 maggio 2017

DOVE NASCE L’ALLEGRIA

Brillante, vivace e molto divertente il “Dueinuno” che un abile Tonino Tosto, col virtuale permesso di Eduardo De Filippo, ha messo in scena ieri al piccolo Teatro Lo Spazio di via Locri, a Roma, con i giovani attori della Compagnia Teatron.
Giovani gagliardi, dotati, preparati, pieni di spirito e passione, esuberanti quanto basta, che hanno coinvolto e deliziato tutto il folto pubblico presente, che ha riso, apprezzato ed applaudito, a lungo, in entrambi gli atti.
Due quadri in uno, legati dalla continuità comica: qui sta la geniale intuizione del regista che merita di essere sottolineata.

Tutti conoscono la felice commedia di Eduardo, “Pericolosamente”, che racconta la disavventura di Michele o’ FreddAstaire che, tornato a Napoli dopo quindici anni di lavoro negli Stati Uniti, cerca di una camera in affitto. 
Il vecchio amico Arturo (un credibilissimo Giuseppe Cattani) si offre di ospitarlo in casa propria, dove, in sua assenza, la capricciosa moglie Dorotea (Elisabetta Perrotta, perfetta e naturale nella parte e nelle mosse) confessa a uno spaventato Michele (un bravo e attonito Pierluigi Giordano, nei panni che già furono anche del sommo Gigi Proietti), che il marito, ogni giorno, le spara con una rivoltella nei momenti d'ira: l'uomo è allibito da tale confessione.
Ed è esattamente ciò che accade quando torna a casa Arturo.
Il finale è dirompente e delizioso.

Partendo da questa surreale vicenda, dal tipico sapore partenopeo, il Tonino autore sopraffino, si è chiesto: “perché non immaginare un prima, un antefatto, un prologo, altrettanto brioso e spumeggiante, che introduca la storia e il trio dello stupore?

Detto fatto: nasce il suo “Prologosamente”.
Uno spaccato fantasioso e audace di ordinarie giornate di verace napoletanità.
Nel bar di Eustachio Cinquina (Federico Anastasia), cameriere impacciato e innamorato, si incontrano e si scontrano una serie di personaggi eccentrici che inseguono un sogno, una storia, un amore o una passione.
Tutti si muovono con leggerezza e disinvoltura, quasi danzando, in modo armonico e corale, sfruttando spazi, cadute e posizioni.
Dal funereo Ciro Schiattamorti (Valerio Tedesco) allo stravagante baroncino Tumisturbi (Roberto Giancristofari), da Genny Boccascena (un ardente e incalzante Andrea Scaramuzza), che insegue Shakespeare e il sacro fuoco del teatro, a tutte le altre brave e giovani promesse (Jessica Aiudi, Benedetta Ferraro, Sara Pusceddu, Natalia Balestra).

In questa galleria dell’allegria, della speranza e del paradosso, manco tanto, si affacciano, anche, “prologosamente”, i protagonisti di quel secondo atto, tra un caffè e l’altro, fino a quattro.
Dialoghi asciutti ed essenziali, ritmo crescente, battute a misura e mimica aderente: ogni macchietta si propone e si realizza a proprio agio, tra musica “bella Napoli” e clima d’euforia. Incanta e trascina la platea e sollecita il meritato plauso.
Bravi tutti, ci avete proprio divertito.
 (Alfredo Laurano)

lunedì 29 maggio 2017

“HO PIANTO SEMPRE, DA SOLO, COME UN MATTO”

Quanto amore ieri in quello stadio. Quanti diversi e contrastanti sentimenti hanno affollato e toccato quegli spalti, già pieni di gente assai provata.
Quanta commozione, quanta passione, quanta sofferenza hanno segnato quei volti senza età, sopraffatti dal pianto e dal dolore.
Quante lacrime hanno trasformato l’erboso Olimpico in una piscina, in un mare di emozioni che
potevano toccarsi, stringersi scambiarsi.
"Sei unico": era scritto su migliaia di magliette. Qualcuno ha scritto: “Fiero di essere vissuto ai tempi di Totti” o, addirittura, "Volevo morì prima!".
Quanti cartelli, striscioni, slogan, numeri dieci, hanno colorato l’aria, lo sfondo e il colpo d’occhio di quel teatro popolare e vero che si chiama stadio.
Forse perché non siamo più abituati a tanto spettacolo genuino di umanità.

Il saluto a Totti è stato un lungo e vibrante momento di partecipazione individuale e collettiva, una manifestazione di amore intenso, reale e spontaneo. Un tributo all’imperatore che ha fatto sognare più generazioni, con le sue gesta e i suoi tanti momenti d’arte e di magia.
Ma tutto questo, quasi a specchio, si è riprodotto nello stesso Cesare-Francesco di Porta Metronia, emozionato come un principiante, che su quel campo è arrivato da bambino, è cresciuto, si è fatto uomo e campione di sport e di vita.

Ha girato tutta la pista con la sua famiglia, ha salutato tutti i tifosi, uno a uno, e i suoi increduli e attoniti compagni.
Anche lui ha pianto, insieme all’amico De Rossi che lo abbracciava e sosteneva, turbato e sconvolto da tanta generosità e devozione.
Nonostante gli evidenti sforzi, non è riuscito a trattenere le lacrime: i suoi occhi buoni hanno tradito quel groviglio di pensieri che lo stavano opprimendo e consumando e nemmeno la consueta sua ironia ha potuto dargli una mano.
Almeno in due momenti, si è sentito solo e triste, in mezzo ai settantamila, quando si è fermato a capo chino, per un po’, appoggiato a un cartellone e quando ha cercato l’abbraccio di Ilary e dei suoi amati figli per farsi consolare.
“È un privilegio essere romani e romanisti, ma purtroppo è arrivato quel momento che mai avrei voluto che arrivasse, in questi giorni ho pianto sempre, da solo, come un matto” - ha detto nella sua lettera ai tifosi, che con difficoltà è riuscito a leggere - e ora dovrò affrontare nuove sfide. Vi ringrazio per tutto quello che mi avete dato, in particolare tutti i bambini, di ieri e di oggi, che con me sono cresciuti e hanno imparato ad amare lo sport. Una favola da raccontare, mi levo la maglia per l’ultima volta, ma ho paura, ho bisogno di voi e del vostro calore: aiutatemi. Vi amo”.
In quella cornice di dimenticato romanticismo e di valori sani, si è scritta una straordinaria pagina di partecipazione popolare, di orgoglio sportivo, di passione collettiva, di affetti liberati e veri che hanno la forza di tramandare i miti e raccontare la leggenda.
Si è scritta la pagina dell'amore e della grande bellezza.
E anch’io ho pianto.
29 maggio 2017 (Alfredo Laurano)


domenica 28 maggio 2017

CORE DE STA CITTA’

“Unico grande amore de tanta e tanta gente, c'hai fatto innammorà…”
È il giorno dell’addio, la Roma lo "pensiona" e il mondo del calcio lo saluta.
Finisce un’epoca sul campo, una storia di sport e di passione di un ragazzino di Porta Metronia, innamorato di Roma e della Roma, cresciuto a pane e pallone in una famiglia sana e semplice, che l’ha aiutato a pensare, a scegliere, ad amare.
L’ultima volta di Francesco Totti, con la maglia della Roma, sarà Roma-Genoa di oggi 28 maggio 2017. Sarà una grande festa, un tributo d’affetto e di stima eterna che il suo stadio, i suoi tifosi, il popolo giallorosso gli riserveranno, tra lacrime, tristezza e commozione.

Lo sarà anche per me, che, conosciuto a sedici anni, l’ho visto crescere come un figlio aggiunto di una grande famiglia collettiva.
Lo è stato anche per molti suoi “nemici” storici, avversari di ogni campanile che lo hanno già omaggiato in tanti stadi in cui ha giocato e lasciato il segno.
Perché un campione è di tutti, perché diventa simbolo di genialità universale, al di là delle singole bandiere. E lui, come pochi altri, lo è stato.  

Anche se, a quarantuno anni, non si sente pensionato.
“L’ultima volta in cui potrò indossare la maglia della Roma. È impossibile esprimere in poche parole tutto quello che questi colori hanno rappresentato, rappresentano e rappresenteranno per me. Sempre. Sento solo che il mio amore per il calcio non passa: è una passione, la mia passione. È talmente profonda che non posso pensare di smettere di alimentarla. Mai. Da lunedì sono pronto a ripartire. Sono pronto per una nuova sfida”.  
Questo ha scritto pochi giorni fa, ma non sappiamo bene cosa significhi.
Resterà alla Roma come dirigente, secondo un contratto già firmato per altri sei anni, o andrà a giocare altrove, magari in America o a Dubai?
Tutto può succedere quando crepita il fuoco sacro della passione.

Lascerà, comunque la sua squadra, i suoi compagni e l’erba odorosa dell’Olimpico, dopo 25 stagioni, dopo circa ottocento partite e dopo aver segnato oltre 300 reti. Anche se non svanirà la sua bella immagine di calcio pulito, di bravo ragazzo generoso, di icona popolare, di idolo e modello di almeno tre generazioni, per le emozioni che ha saputo regalare.
Non vedremo più la sua arte pedatoria, le sue incredibili magie, le sue invenzioni, le sue funamboliche giocate. Quel suo talento che, a lungo, ha infiammato gli animi e le sfide: grazie per tutto il bello che ci hai dato.
Il suo saluto sarà doloroso, come una partenza obbligata e non voluta. Perché se Francesco ama la Roma, Roma l’ama di più e lo ha fatto imperatore.
Uscirà dalla sua Roma, da quella maglia che non ha mai cambiato, ma entrerà nella leggenda, con i suoi colori.
28 maggio 2017 (Alfredo Laurano)

sabato 27 maggio 2017

LA GITA DEI SETTE PIU'

Una bella gita in uno dei posti più belli del mondo e della nostra Italia.
La prima giornata dei lavori del G7 a Taormina, blindata come mai nella sua storia (quattro unità navali, 10.000 uomini), che si è chiusa con una "discussione diretta e sincera” (cit. Gentiloni), siglata da una generica dichiarazione congiunta per la sicurezza e contro il terrorismo, soprattutto dopo l'attentato di Manchester.
Degli altri tre temi principali nell'agenda che i capi di Stato e di governo devono affrontare in due giorni, immigrazione, clima e commercio internazionale, restano divisioni di vedute.

In serata, il Teatro Greco, con i suoi 24 secoli di storia, restaurato dopo cinquant’anni di abbandono, ha fatto da sfondo alla foto di famiglia dei sette Grandi al vertice di Taormina e sul suo maestoso palcoscenico, affacciato sul mare e con vista sull'Etna, i gitanti più importanti del mono hanno avuto il privilegio di assistere al concerto dell'Orchestra Filarmonica della Scala, con brani scelti di musica italiana: da Verdi a Puccini, da Rossini alle malinconiche, dolci note dei violini della Cavalleria Rusticana di Mascagni. Un incanto per l’orecchio, per gli occhi e per lo spirito, nato dalla soave fusione di paesaggio ed armonia musicale.
Poi, anche il corpo dei “potenti” ha avuto la sua parte nella cena a base di specialità siciliane - soprattutto dolci, come cassate e cannoli - offerta dal presidente Mattarella.

Per le consorti dei premier del G7, era previsto shopping e passeggiata lungo il corso principale della cittadina, sospesa tra rocce e mare, in uno scenario di bellezze naturali, unico per varietà e contrasti. Attese con grande curiosità Melania Trump, che indossava una giacca botticelliana piena di fiori colorati da 52.000 dollari, confezionata da Dolce e Gabbana, e Brigitte Macron, fresca premiere dame di Francia. La Merkel è ormai di casa.

La Sicilia, come si legge in una bozza del documento finale, sottoposta a un negoziato aperto, per la sua posizione geografica particolare, rappresenta un ponte tra le due sponde del Mediterraneo, il mare dei barconi, degli sbarchi, dell'emergenza. "Pur sostenendo i diritti umani dei migranti e rifugiati, riaffermiamo i diritti sovrani degli Stati di controllare i loro confini e fissare chiari limiti ai livelli netti di immigrazione, come elementi chiave della loro sicurezza nazionale e del loro benessere economico".

Intanto, la nave Prudence di Medici Senza Frontiere, che ha una capienza massima di 600 persone, ne ha soccorse millecinquecento nel Canale di Sicilia, dopo aver intercettato dodici barconi partiti contemporaneamente dalla Libia e, presi tutti a bordo, sta navigando da ore in condizioni di enorme rischio.
Vista la chiusura di tutti i porti siciliani nei giorni del G7 di Taormina, la Prudence ha avuto ordine di sbarcare i migranti a Napoli, dove non riuscirà ad arrivare prima di domenica pomeriggio. E a bordo non ci sono neanche cibo e generi di prima necessità sufficienti a dare il primo soccorso a tutti.
Neanche una cassata siciliana.
(Alfredo Laurano)



mercoledì 24 maggio 2017

VENGO DOPO IL TG

Due notizie da TG, già nei titoli, con quasi lo stesso risalto, la stessa enfasi, all’interno di spettacoli musicali.
Pochi giorni fa il rapper Fedez - quello tatuato come una carta geografica - ha sorpreso il suo pubblico e soprattutto la sua fidanzata, la blogger Chiara Ferragni: dopo averle dedicato una canzone, l'ha chiamata sul palco dell’Arena di Verona e, mettendosi in ginocchio, le ha chiesto di sposarlo. Un regalo importante per il suo trentesimo compleanno.
Lei, ovviamente, ha detto sì con un commosso bacio.
Un coup de theatre, un’ennesima trovata pubblicitaria un po’ banale, ormai abusata anche nello sport e nei salotti bene.
La scena, a beneficio del vasto pubblico presente, coinvolto in qualità di testimone, è stata subito raccontata da radio, TV, Web e stampa, come si annuncia o si promuove una fiction di successo.
D’altro canto, non poteva che essere così.
Non c’è nulla di strano o di anomalo perché oggi non c'è quasi più niente di privato, anche nelle vicende personali e sentimentali, soprattutto negli idoli di una generazione che vive, cresce e si riproduce sui social.
E tutto si fa pubblico, tutto si dilata, tutto accade on line, quasi in diretta, e si rivela al grande pubblico sui canali della Rete, dove si vive una realtà, di fatto, assai poco virtuale e molto partecipata. In particolare per i vip internazionali, marcati e pedinati a vista da milioni di ammiratori e followers, che in quel percorso obbligatorio, spesso, si annullano o si completano.
Tutto, commenti, dirette, foto, video e discussioni - inutile ribadirlo - sotto la luce costante dei media e delle breaking news, capace di regalare la stessa intensità e quasi la stessa attenzione a fatti di cronaca rosa, gialla, nera, di gossip, di spettacolo o di tragica attualità: disastri umanitari, traffici illegali, guerre endemiche o vile terrorismo.

Come l’ennesimo attentato di Manchester che ha fatto una strage di ragazzini e adolescenti che avevano l’unica colpa di ascoltare musica in un concerto. Proprio, come quello del promesso sposo di cui sopra.
Un altro eccidio che - nonostante il sangue e le tante giovani vite spente per gioco o per capriccio, sotto una lurida bandiera di ideologica follia - quasi, non fa più notizia o ne fa meno della dichiarazione d’amore di Fedez o di un divorzio di Belen.
Perché ci stiamo abituando al peggio, a convivere col terremoto della ragione, ad accettare il male, come inevitabile scelta di molti o di condizione naturale di intere comunità.
Alla legge della Comunicazione, asettica e globale, non importa che un fatto susciti consenso, gioia, paura, orrore, sdegno o condanna collettiva. Conta la notizia.
Tutto scivola e trova spazio fra i titoli di un qualsiasi TG, dalla visita a sorpresa di Francesco a uno stupito condominio di Ostia, a quella di Obama a Milano e in Toscana; da quella di Trump in Medio Oriente e a Roma, all’abito spettacolare di Melania, senza velo.
O  a quella di un qualsiasi, solito attentato.
 (Alfredo Laurano) 


martedì 23 maggio 2017

QUASI QUASI M’AMMAZZO

È come se esistesse una nuova crociata, molto più che virtuale, contro l’abbaglio della coscienza e della ragione, al grido di “il web lo vuole”.
Se “tutto il mondo è social”, che risponde a un insopprimibile comandamento imperativo, deve esserlo anche la vita di ciascuno.
La Rete siamo noi: è il nostro pane quotidiano, il vino che ci inebria e ci fa volare, la droga eterea che assumiamo in varie e massicce dosi, il nostro comune dio fittizio o il grande fratello della dipendenza. Conformismo, fedeltà, appiattimento, condivisione (che diventa spesso sottomissione), le regole che ci impone. Soprattutto ai giovani, ai ragazzi che vivono di sfide, di emulazioni, di confronti, di contraddizioni e che si nutrono di tale catechismo.
È lecita questa riflessione? È logica e coerente? Non lo so, ma potrebbe esserlo.

I social hanno oggettivamente assunto uno strapotere reale, economico, e culturale. Hanno modificato le nostre abitudini personali, intime, relazionali e commerciali, hanno condizionato le nostre scelte.
La Rete consente anche che pensieri comuni, falsità e opinioni volgari e impopolari possano viaggiare, senza biglietto e senza pagare pegno, fino alla stazione del dialogo e della ragione, fino al delta della popolarità. Consente a chiunque di mettersi alla guida di una missione d’odio e integralista o di paura e sudditanza. Consente l’orientamento, la diffusione e la propaganda, fino a convincere molte fette di variegata umanità che quel che di virtuale si costruisce e si elabora su Internet sia altrettanto vero e valga per la l’intera popolazione reale della terra. Una doppia dimensione che poi si sovrappone.

Vedere quelle immagini di ragazzine che si lanciano nel vuoto da edifici altissimi, per ammazzarsi in virtù di un gioco tragico, allucinante, incredibile e molto più che assurdo - un tributo all’orrore sociale, una concreta prova di obbedienza a un persuasore occulto - lascia senza fiato. Increduli, attoniti, confusi.
Induce a considerare il fallimento della società tecnologica, a danno di residui spiragli di umanità ormai deviata, annichilita, compressa, condizionata. Per non dire cancellata.
Una storia del terrore, che è riuscita a rimbalzare da un capo all’altro del mondo.

Il Blue Whale è un "gioco" macabro, nato in Russia, diffuso in Brasile, Canada, Francia e poi arrivato anche da noi.
Regole folli per partecipare a una roulette che non sorteggia un vincitore, ma solo vinti: adolescenti prostrati spinti al suicidio, come purificazione da ogni male, fra mistero, paura, plagio, leggende metropolitane, bufale, fake, trovate commerciali per vendere notizie sconvolgenti.
Una fantasia social? Un’invenzione di qualche mente malata?

Dietro questa catena dell’orrore, esisterebbe una rete di ideatori, organizzatori o tutor psicopatici (detti Curatori) in grado di influenzare e plagiare i giovani più disagiati ed emotivamente instabili, attraverso sfide e ordini che li privano di ogni capacità cognitiva.
Le vittime prescelte sono ragazzini dai 9 ai 17 anni. Il fine, quello di farli suicidare, manipolandoli psicologicamente.
Questi mostri, fanno loro credere, che la vita è inutile.
Li contattano attraverso i Social e gli danno una serie di regole assurde da seguire.
Ad esempio, guardare film dell’orrore per un giorno intero, incidersi sul corpo con un rasoio una balena azzurra, svegliarsi alle 4.20 del mattino, tagliarsi un labbro, passare un ago sulla mano più volte, procurarsi dolore: il tutto per 50 giorni.
L’ultimo giorno, il gioco prevede che si devono ammazzare, buttandosi da un palazzo, il più alto della città.
Il volo viene ripreso da altri partecipanti e conoscenti del gioco, perché poi i video vengono inviati. Durante il suicidio, il profilo della vittima, viene gestito da queste stesse persone.
La regola base, è di non parlarne con i famigliari e di non farsi scoprire.
Il simbolo del gioco è una balena, perché la balena, a volte, si suicida spiaggiandosi.
Le vittime ad oggi, solo in Russia, sarebbero 157, contro i 1700 di “normali” suicidi annuali di adolescenti. Quelli che si sono lasciati trasportare in questo vortice di orrore, prima di farla finita, lo dichiarano sui social con frasi piuttosto enigmatiche: “Questo mondo non è per noi” oppure “Siamo figli di una generazione morta”.

Il servizio delle “Iene” di pochi giorni fa documenta tutto questo, come hanno già fatto numerosi quotidiani, e sembra confermare il tragico gioco. Anche se ricerche su vari siti, dimostrano che i suicidi di teenagers filmati, come quelli di cui si parla nel servizio, sono una tragica realtà in Russia non da ieri, ma da anni, ben prima che il Blue Whale apparisse sul web.
I primi a parlarne a maggio 2016 sono stati i redattori della Novaya Gazeta russa.
Tutto partirebbe da un social network russo VKontakte che, come il nostro Facebook, ha gruppi chiusi di svariato genere, tra cui alcuni dedicati ai depressi o agli aspiranti suicidi, all’interno dei quali sarebbe stato fatto circolare questo “gioco” e che il tutto avrebbe portato a suicidi improvvisi. 
Sull’onda dell’articolo della Gazeta, le segnalazioni e i gruppi si sono moltiplicati, ma sempre senza nessuna prova vera che colleghi i suicidi a quel gioco.
Che sia emulazione, effetto troll, ricerca di visibilità malata?
Non si sa. Quello che è certo è che, da quel primo articolo, la vicenda pian piano ha fatto il giro prima della Russia e ora se ne parla anche in USA e Europa.  
A Livorno, a febbraio, un ragazzino si è buttato dal 12º piano. Un’altra vittima del Blue Whale?
In Costa Rica il fenomeno della balena blu pare sia molto noto. Si vedono moltissimi giovani con il "branding" della balena nel braccio e diversi sono arrivati all'ultima "prova" del suicidio. La polizia nazionale l’ha catalogato allarme nazionale.

Al momento, sembra che le tante notizie in merito non abbiano alcuna verifica, come anche, però, nessuna smentita. Sono di quelle non provate, su cui mancano elementi sufficienti per poterle inquadrare con certezza. Le fonti continuano ad essere troppo fumose e resta difficile capire la verità, distinguere tra vero e verosimile, tra certezza e dubbio e falsità.
Intanto, andrebbe maggiormente indagato il perché nella fase adolescenziale - tra solitudine e bullismo, tra partecipazione e dipendenza, c'è spesso un problema serio di depressione che può portare anche a gesti estremi.
Ma anche cosa potrebbe esserci dietro il terribile Blue Whale: dalle teorie complottiste al guadagno per traffico visualizzazioni: più è virale e tenuta in vita la possibile fake news sul gioco-suicidio, più si alimenta la curiosità, la ricerca e il traffico on line che genera molti click. E si sa, traffico e visualizzazioni vogliono dire soldi.

Al di là della retorica e delle supposizioni, o di servizi shoccanti a tutti i costi, è importante e prioritario ricordare che spacciare notizie non verificate come buone e riportarle sui giornali rischia di fare danni ulteriori, perché lo spirito d’emulazione dei ragazzi è forte e i casi potrebbero aumentare: se questo gioco macabro non esistesse, inizierebbe ad esistere realmente e molti giovani fragili e disagiati si sentirebbero "liberi" di togliersi la vita.

Come avrebbe candidamente ammesso ai professori, ai compagni di classe e alla polizia, quando si è accasciata davanti a tutti, priva di forze, la ragazzina di 13 anni di Pescara, arrivata a un soffio dalla sua purificazione finale, dopo aver compiuto l’intero percorso delle cinquanta prove. L’hanno salvata le amiche che sapevano del suo stato di depressione profonda
Sul suo profilo, si è scoperto poi, aveva postato foto eloquenti, tra cui un volto triste, affacciato sul vuoto e aveva anche programmato il suicidio finale. “Si, è vero, ho partecipato al Blue Whale”.
Complimenti anche alla famiglia.
(Alfredo Laurano)




sabato 20 maggio 2017

OPERAZIONE “BOCCONE AMARO”

Con il sequestro per riciclaggio di Assunta Madre, il noto ristorante di pesce di via Giulia, frequentato da vip dello spettacolo e dello sport e già teatro dell’intercettazione sulla fuga di Dell’Utri, è andata in onda un’ennesima puntata del dramma “Roma Criminale”. Arrestate sei persone (imprenditori, commercialisti, direttori di banca), fra cui lo stesso titolare che, a breve, avrebbe dovuto inaugurare un altro ristorante a Montecarlo insieme a Flavio Briatore. 
Solo un paio di mesi fa una straordinaria inchiesta di Presa Diretta ci aveva dettagliatamente spiegato come la Capitale fosse assediata dai grandi gruppi criminali di mafia, ‘ndrangheta e camorra. 
Altro che Mafia Capitale di Buzzi e Carminati! 
Sono riusciti ad inquinare tutti i settori economici e produttivi e sono presenti ovunque. Dalle periferie al centro storico, in una mappa senza confini, le mafie sono impegnate nel riciclare il denaro sporco, frutto del narcotraffico, e si spartiscono interessi milionari. 
Roma, per chi non lo sapesse ancora, è la più grande piazza dello spaccio di fumo, cocaina e eroina. Soltanto negli ultimi cinque anni, la Dia ha sequestrato patrimoni per un miliardo e mezzo di euro e, solo nel 2016, circa 9400 Kg di stupefacenti.
Una piazza di spaccio di cocaina a Roma “fattura” sessantamila euro al giorno. In alcuni quartieri la droga si vende in sette piazze di spaccio contemporaneamente e un quartiere arriva a muovere 10 milioni di euro al mese. 
Tutti i soldi sporchi della criminalità organizzata finiscono nell’economia pulita, i clan si comprano interi settori dell’economia romana, cercando di infilarsi anche nel business del caro estinto degli ospedali o nel mercato dei fiori del cimitero Flaminio, il più grande d’Italia. 
Roma, dunque, vera Capitale della droga, per un mercato che vale circa un miliardo di euro all’anno. 
Anche il biondo Tevere è ormai un fiume di cocaina e nello stesso ponentino romano sono state ritrovate abbondanti tracce della stessa coca e di altre sostanze tossiche, come il benzopirene e l’hashish, oltre alla nicotina e alla caffeina. 
Ogni anno a Roma si requisiscono aziende e patrimoni mafiosi. Attualmente, Lazio compreso, ci sono più di cinquecento aziende confiscate.
Un anno fa, sono stati chiusi una trentina di esercizi commerciali, bar, gelaterie, ristoranti e pizzerie, oltre al sequestro di decine di immobili e veicoli, centinaia di conti correnti, società fittizie intestatarie di alcuni beni confiscati, centinaia di migliaia di euro in contanti.
Alcuni molto conosciuti, come i tanti locali con l’insegna di “Pizza Ciro”, “Da Ottavio”, l’Osteria “della Vite”, il “Mangianapoli”, l’Hostaria “Sora Franca”, il Cafè de Paris, il “Varsi Bistrot”, la caffetteria Ferrara, la Pastarella e i bar “Pio Er Caffè” e “L’Angolo d’Oro”, tutti in zone centralissime o nei pressi del Vaticano, intestati formalmente a terzi.
Roma sembra essere il terreno ideale per riciclare il denaro sporco - sostiene il prefetto Gabrielli - grazie ai tantissimi esercizi pubblici e commerciali in aree pregiate come quelle del centro storico, al vasto mercato immobiliare e le attività presenti in numero elevatissimo. Anche se, come ci informa “La Stampa”, le mafie hanno in mano cinquemila ristoranti in tutt’Italia, per un giro di affari di 22 miliardi di euro.
Con la crisi del mattone, hanno capito che conviene puntare sul cibo e sulla gastronomia: in trattoria, per una pizza o una fritturina, prima o poi, ci vanno tutti. 
Magari, quando tocca a noi, cerchiamo di scegliere quella giusta, condita senza sangue e senza cocaina.
 (Alfredo Laurano)

giovedì 18 maggio 2017

MALTESE, L’ALTRO COMMISSARIO

Quello che via via, ma forse quasi subito, colpisce di questa nuova fiction di Raiuno è l’umanità del protagonista e di tutti i personaggi principali, a discapito di violenze, pistole e poliziotti e in contrasto con la dura verità, che la stessa trama vuole con forza raccontare.
Dario Maltese, il commissario, è lontano da certi abituali cliché di investigatore, è una specie di eroe positivo, un uomo di legge siciliano fuggito molti anni prima dalla sua terra e inseguito da un passato doloroso. 
Quando nel 1976, il suo migliore amico viene ucciso davanti ai suoi occhi, decide di tornare nella sua Trapani e affrontare la mafia, un mostro di cui all’epoca in molti negavano l’esistenza, e di smascherare gli intrecci fra la stessa mafia e la politica. 

E’ uno sbirro atipico, non è un duro, è un uomo dolce, anche nei modi e nell’aspetto, che ritrova momenti del suo passato (soprattutto l’adolescenza e il “suicidio” del padre) nel percorso che intraprende, mischiandosi alla nuova realtà e diventandone parte. 
La sua storia personale, i suoi ricordi, i flashback dell’infanzia contribuiscono a creare un clima non troppo cupo e pesante, anzi, alleggeriscono un racconto così duro e drammatico, ingentilito dagli affetti e dai sentimenti. 
Nonostante la sua vita verrà messa in pericolo, tanto che sulla sua testa pende ormai una vera e propria condanna a morte e il rischio, anche per chi gli sta vicino, si fa sempre più alto, lui non è intenzionato a mollare, non cederà di un passo. Per determinazione, per amore della verità, per ostinata ricerca di giustizia, continuerà le sue indagini senza sosta, arrivando a scoprire il malvagio intreccio fra la mafia trapanese e i vertici delle istituzioni locali e nazionali.
Tutto si svolge in una cornice naturale e spettacolare, come la Sicilia e in particolare Trapani, capace di incantare lo spettatore in più di un passaggio, come del resto riesce a fare il protagonista, un credibile, austero e sensibile Kim Rossi Stuart, e tutto il cast di bravi attori, che entrano perfettamente nei propri personaggi (tutti con un soprannome tipicamente siciliano), quasi confondendosi con essi, in un racconto vero, spontaneo, coinvolgente e mai esagerato.

Non a caso, il cast è stato scelto con cura, analizzando su giornali e documenti dell’epoca, i volti dei poliziotti siciliani. 
Fedeli anche le ambientazioni, anni settanta, di case, di uffici e gli arredi, nonché gli abiti, il taglio di capelli, le auto, l’abuso di fumo e sigarette nelle scene: tutto reso realisticamente attraverso una fotografia essenziale e puntuale che accompagna una narrazione filologicamente corretta, nei colori, nelle sfumature, nelle odorose sere trapanesi, nei paesaggi, nei suggestivi scorci marini, nei giorni grigi e senza sole. 
Ricostruzioni, perfette inquadrature, appropriati silenzi e ritmi, volutamente lenti, favoriscono il pathos, la suspense e la partecipazione emotiva.

Alcuni ruoli della fiction sono ispirati a figure realmente esistite. 
Quello di Maltese è ispirato a Ninni Cassarà, poliziotto assassinato da Cosa Nostra nel 1985. Il cronista coraggioso e idealista, Mauro Licata, si rifà a Mauro Rostagno, anch’egli poi ucciso dalla mafia.
In conclusione, un ottimo esempio di diversa sperimentazione narrativa che sceglie un linguaggio inusuale e innovativo, pur nella tradizione del genere drammatico, per raccontare un mondo violento, spietato ed ingiusto in una vicenda di scottante attualità, non vera, ma che ha molti elementi di realtà.
Anche se, alla fine di questa originale storia, si affaccia una singolare riflessione, un indizio che spiega l’origine di un particolare fenomeno mafioso, che nasce imprevedibilmente da una perversione umana, non solo del potere: "esistono cose contro cui non puoi combattere, l'amore è una di queste". 
Chi ha visto il romanzo del commissario sa bene perché. (Alfredo Laurano)

VIVE LA MAMAN

Si, proprio lui, ancora lui, sempre, ineguagliabilmente, inesorabilmente lui.
Lui che ha colorato la sua vita di maschio italico, di imprenditore, di politico e statista, di irrefrenabili passioni per le “nipotine” minorenni, egiziane o napoletane non fa differenza. 
Che in una ventina d’anni di ribalta mediatica e di governo si è circondato di giovanissime olgettine, sempre pronte, a libro paga e compiacenti. 
Che ha inventato il Bunga bunga nelle sale dell’arcorico piacere, facendo del vizio uno stile da invidiare. 
Che ne ha sparate d’ogni tipo e dimensione, sotto forma di banali barzellette o battute da osteria, anche oltre i confini della vergogna nazionale.
Lui che - nonostante l’incalzante senilità e l’ostentato, infantilismo cronico - ha perso il pelo, ma non il vizio, ci racconta, ancor oggi, che Macron, neo presidente della Patrie, è un ragazzo di 39 anni, con belle esperienze di lavoro alle spalle e, soprattutto, con una bella “mamma” (la moglie Brigitte, di 64) che lo ha portato sotto braccio, ancora quando era bambino. 
Certo che il nostro Silvio sciupafemmine mai potrebbe o avrebbe potuto concepire, o solamente ipotizzare, tale blasfemo rapporto, dalle consistenti sfumature edipico-freudiane, con una compagna così matura, per non dire vecchia. Una scelta anomala e aberrante che umilia e contraddice il più sano, virile, naturale e sacrosanto lolitismo.
L’inconcepibile liaison di quella “strana coppia", non è proprio scritta nel suo Dna, nella sua storia, nelle sue pulsioni inimitabilmente giovanili, anche se dimentica, sempre per l’età, che anche lui stesso è un nonno che si accompagna con una Pascal trentenne, che gli può essere badante e pronipote…come tutte quelle che l’hanno preceduta. 
Ma questo è assai normale e di routine, rientra nei canoni dell’uso, del costume e del comune sentire popolare. Prendete esempio da Trump e dalla giovane Melania.
Come diceva il fedele illuminato o il senza Dio: “da quale pulpito viene la predica!”

Per non perdere, poi, la succulenta occasione elettorale, nello stesso comizio a Monza, il pervicace patriarca Berlusconi ha ironizzato anche sui "due esponenti più in vista del Movimento 5 stelle" (Dai Maio e Di Battista): ""Non hanno né arte, né parte, si fanno scrivere le risposte, non si sono mai laureati, al massimo hanno fatto le hostess allo stadio San Paolo per vedersi le partite gratis".
Ha proprio ragione, lui le hostess se le faceva portare a casa, come la pizza a domicilio.
17 maggio 2017 (Alfredo Laurano)



martedì 16 maggio 2017

MITICI SPALLINI

Per quelli della mia generazione, la promozione della “mitica” Spal in serie A, dopo quarantanove anni, è un piacevole ritorno all’antico, un inedito tuffo nel passato e nella giovinezza, nel segno di un calcio pulito e romantico che non c’è più.
E’ come aprire, con pudore e un po’ di nostalgia, quel cassetto dei ricordi che custodisce momenti importanti e formativi della storia di ciascuno, quando gli anni dell’adolescenza, delle passioni e dello sport si sovrapponevano a quelli dello studio e dei sentimenti. Pezzi di vita semplice e normale che costruivano un futuro di legittime speranze.
Erano i tempi che, all’oratorio, noi ragazzi, tra un obbligatorio “Padre Nostro” e un maritozzo col formaggino di cioccolato, imparavamo ad apprezzare lo sport come gioco e divertimento, ne apprezzavamo la sua utilità sociale e scoprivamo i valori di lealtà e di rispetto.
In quei campetti improvvisati e polverosi, quasi tutti in terra battuta o pozzolana, si iniziavano a dare i primi calci al pallone, la domenica mattina. I pali delle porte erano quadrati, il pallone pesantissimo e non esistevano le docce.
Forse così, su un campo di periferia, nacque, tanti anni prima, anche la storia della Società Polisportiva Ars et Labor, o più semplicemente SPAL, fondata nel 1907.

Erano, appunto, gli anni cinquanta e sessanta, i tempi della Spal, della Pro Vercelli, della Triestina, del Lanerossi Vicenza e delle figurine dei famosi calciatori. 
Quanti e importanti hanno militato nella squadra di Ferrara, per poi passare a squadre più prestigiose: da Bugatti a Fontanesi, Da Zaglio a Carpanesi, da Massei a Pandolfini, da Picchi a Capello, da Bigon a Reia, Del Neri e Malatrasi.
Dopo tante retrocessioni, promozioni e fallimenti, alla corte estense oggi si fa festa.
La Polisportiva SPAL - protagonista di tanti campionati italiani, nella prima metà del Novecento -  si riappropria della sua fierezza storica e sportiva, forte della bellezza senza tempo della sua città.
Bentornati “spallini”, anche se ciò che vi aspetta è ben diverso da quel che avete lasciato quarantanove anni fa. (Alfredo Laurano)

lunedì 15 maggio 2017

Da LIBERO, di Feltri

Puliam, puliam andiamo a ramazzar...
Adesso Roma è splendida splendente, Virginia prendi esempio.
Dopo la patata bollente, un po' di satira sessista non guasta mai, vero Feltri?


domenica 14 maggio 2017

NEL SEGNO DI ZORRO

Non sapevo, non me l’aspettavo: anche Oliviero Beha se n’è andato all’improvviso, dopo breve malattia, a sessantotto anni. Aveva, da pochi giorni, ricordato e salutato, sulle pagine del Fatto Quotidiano, Boncompagni e Valentino Parlato.
Libero, lucido, diretto, indipendente. Mai banale, anzi stroncava la banalità dominante e appariva sempre, soprattutto sullo schermo, come persona vera che interpretava la voce della libertà. Mai asservito al potere ma, al contrario, sempre autentico, totalmente indipendente e a volte scomodo.
Radio, TV, giornali, libri, sempre nel segno di Zorro (suo programma, prima radiofonico, poi televisivo), nel segno della denuncia, della critica feroce, della scomoda verità e senza sconti per nessuno: nello sport, nel costume, nella politica, nella società delle contraddizioni. Diceva spesso che il compito di un giornalista è raccontare la verità perché è un diritto di chi legge sapere i fatti per poter elaborare una propria opinione basata sul vero e non “indirizzata” o “deviata”.

L’ho conosciuto tanti anni fa nel corso di una complicata intervista sul tema della pubblicità, fatta, in mezzo al traffico, a piazza Venezia: attento, paziente, disponibile.
Poi, ci siamo incontrati a cena, insieme all’amico Antonio, inventore creativo del relativo festival a suon di spot con animali, per discutere il programma e i vari aspetti di quanto da lui ideato.
Forse, la migliore descrizione di Oliviero l’ha data una delle sue figlie, in un una lettera appena scritta per lui: carattere burrascoso, a volte irriverente, spesso ironico, dispotico e a tratti per alcuni arrogante, è stato, è, e rimarrà un giornalista libero. La “libertà è un lusso di pochi” mi ripeteva…
E lui l’ha sempre cercata, perseguita e rispettata. E oggi, raggiunta per sempre, anche se ha lasciato solo “suo nipote nella giungla”.

 (Alfredo Laurano)