martedì 31 ottobre 2017

LA BELLEZZA, FORSE, SALVERA’ IL MONDO

Una riflessione dopo aver visitato una recente mostra di pittura dell’artista amico Carlo Grechi.
Grazie all’arte, ma non solo, è più facile penetrare nell’intimità della bellezza, attraverso il mondo spirituale di un suo spontaneo portatore, che la vive, la rielabora, la asseconda e la riveste, nell’incanto magico di una sua rappresentazione.
Insomma, l’artista come mediatore di grazia e venustà, organico a quello stesso ambito, come lo erano gli intellettuali gramsciani, non separati per mestiere e appartenenza, dal resto della società.

“La bellezza salverà il mondo”.
Non so se è vera o ancora condivisibile l’affermazione che Dostoevskij mette in bocca al principe Myškin, protagonista del suo “Idiota”, ripetutamente deriso per averla pronunciata.
Quelle parole, citate oggi infinite volte, hanno tuttavia un contenuto profondamente letterario, intensamente ambiguo e mistico, troppo spesso usato come un mantra consolatorio o liberatorio, invariabilmente adatto ad ogni contesto: è un modo di dire piuttosto abusato, quasi un'evocazione lontana, ricordo di qualcosa di non ben definito.
Oppure, è vero che non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace, come recita un detto popolare? Cioè, perché una cosa sia reputata bella, è sufficiente che piaccia?
Ciò significa che ogni cosa, gesto o azione, se di gradimento anche solo ad un essere umano può avvalersi del titolo di “bello”.
Ma può la Bellezza essere subordinata a delle categorie bizzarre e volubili, come quelle umane?

A volte, in un mondo così brutto, la Bellezza, nascosta sotto il velo della noncuranza, dell’oblio, dell’indifferenza, ha solo bisogno di essere svelata, al di là della nostra superficialità, nelle sue infinite sfaccettature.
“Il mondo ha bisogno di bellezza” – l’ha detto anche Francesco – perché la bellezza è una cura per l’anima, regala gioia e rende felici.
Quando la percepiamo di fronte a noi, questa comincia a manifestarsi come una sensazione di bello dentro di noi: siamo più aperti, disponibili, meno tesi, cade la paura, si affievolisce la rabbia. Ci fa sentire parte della realtà che ci circonda.
Dobbiamo solo imparare a vederla e riconoscerla anche nei gesti più semplici, ma carichi di empatia, del nostro vivere quotidiano.

Essendo un puro ideale - un valore assoluto a cui l’uomo tende ogni momento, in virtù del presupposto che è espressione di un qualcosa più elevato del suo stesso essere - la Bellezza non può venire ordinata tramite gli strumenti umani, dato che li trascende. Essa è nell’ordine, nella misura, nell’equilibrio, nel senso profondo e segreto della vita. Ma anche nella ricerca del vero e nell’eleganza delle cose, dei gesti, dei sentimenti, dei pensieri, nell’autonoma armonia della natura.
E non solo nella realtà esterna, come siamo portati a credere, ma anche interna alle cose stesse, ai fatti, alle persone.

Una bella donna può essere tale, anche soltanto dentro e non sempre e necessariamente nelle sue forme, nelle sue fattezze, nella sua esteriorità. In ciò che di essa appare.
Non sempre riusciamo a coglierla.

C’è fame di socialità, di momenti da condividere, di uscire dall’isolamento che modernità e tecnologia hanno progressivamente portato.
Bellezza è anche prendersi cura di qualcuno, aiutare, sostenere, proteggere, salvare. O nello star bene insieme, perché la forza di più persone, unite dagli stessi valori e spinte dalle stesse motivazioni, crea fiducia attenua la fatica, fa dimenticare il sacrificio.
La sua dimensione estetica si sovrappone a quella morale e filosofica e, attraverso il bello, raggiungiamo il bene. Ce lo ricorda anche il messaggio cristiano della “via pulchritudinis”, il cammino privilegiato della bellezza e dello splendore, per avvicinarsi al mistero di Dio

Per rendere il mondo un posto migliore, serve un sogno collettivo.
Anche se ognuno ha i suoi canoni estetici che variano nel tempo - appunto perché si dice che è bello ciò che piace - il concetto di bellezza ha una sua componente determinante di oggettività, un’autonomia che va oltre la soggettività e i variegati gusti personali, e diventa universale.
Di fronte agli incredibili miracoli della natura o alle migliori espressioni dell’opera umana, chi può rimanere insensibile, chi può non esserne turbato e sbalordito?
Percepiamo l’idea della perfezione e quell'armonia ci travolge in un istante.
Può essere un dipinto, una sinfonia, un panorama, un sorriso, una forma, un monumento o un insieme di colori, un sublime gesto sportivo, d’amore o di generosità: la sensazione è sempre la stessa: stupore, commozione, estasi, piacere, gioia.
Quando entriamo in contatto senso-spirituale, anche per poco, con qualcosa di perfetto e di sublime, ne restiamo affascinati, colpiti, quasi folgorati, fino star fisicamente male, come accade nella sindrome di Stendhal.
A volte, tuttavia, l’attrazione per la bellezza può diventare fatale perché la confondiamo edonisticamente con la ricchezza, con l’accumulo di beni e oggetti di valore, dimenticando che non sono le cose o gli eventi in sé a darci piacere, ma le emozioni che essi ci procurano.
Perché il significato vero della bellezza è nell’essere, non nell’avere.
(Alfredo Laurano)

domenica 29 ottobre 2017

SE TUTTO IL MONDO E’ SOCIAL

Tonnellate di odio, di rancore, di insulti, di istigazione alla violenza, di pratiche persecutorie, di stolking e di bullismo viaggiano da tempo, indisturbate, sull’impalpabile mondo del Web e sono del tutto reali, pericolose e nocive e, come tali, perseguibili per legge. Chi ne è colpito può denunciare, querelare, citare in giudizio, o ignorare, se ci riesce, per non essere ulteriormente coinvolto.
Ma quella realtà rimane, è vera, oggettiva e concreta da quando la Rete ha dato nuova linfa, nuovi spazi e nuove paternità anche all’infinito mondo degli imbecilli e dei malvagi.
Tutti possono fruire senza spese e senza patente di una tribuna sconfinata, possono dire la propria, sparare giudizi, pregiudizi, cazzate e proclami senza freno, diffondere bufale o insulse teorie, creare comunità e false chiese o truffare, irretire, plagiare, barare, vendere, ingannare o abbindolare.

Dall’imberbe adolescente al nonno beat, dal giovane rampante alla casalinga stanca, dall’acchiappone al ciarlatano, dal narciso al megalomane, dall’onesto al criminale, dalla perpetua alla escort d’alto bordo. Chiunque può esibirsi nel suo più genuino o falsissimo splendore.
Se ne parla con disgusto tutti i giorni nei media, nei talk, nelle famiglie, nelle scuole. Ognuno può raccontare le sue esperienze, il suo caso personale, le sue tristi disavventure e, magari, cercare aiuto.
Si cerca di combattere o circoscrivere il fenomeno, ma con scarsissimi risultati. Il potere del Web è assoluto e totalizzante, non teme confronti, è quasi inattaccabile.

Molti però sostengono che, al contrario di quanto fin qui detto, i rapporti di scambio, di amicizia, di stima e di affetto - e in qualche caso d’amore, quando non c’è inganno o premeditazione per secondi scopi - che si sviluppano sui social, non sarebbero mai autentici come quelli di “c’eravamo tanto odiati”, perché sono fasulli, fittizi, eterei e "virtuali".
Virtuali perché non ci conosciamo di persona, perché, al massimo, ci vediamo, ma non ci tocchiamo.
In verità, sono comunque reali perché esistiamo, pensiamo, parliamo, ascoltiamo le nostre voci, le nostre percezioni, ci scambiamo sensazioni, riflessioni, come in un normale rapporto umano.

Le chat erotiche, o casarecce, per esempio, lo confermano, perché svolgono un profondo ruolo in questo senso e in questa direzione: attrazione, seduzione, eccitazione sono del tutto autentiche e reali. Il sesso on line spesso eguaglia quello live, anche perché immune da fatiche, da gravidanze e malattie.
Dietro quel display, batte pur sempre un cuore, c’è una vita, una personalità, un modo d’essere che, alla lunga, non si può non disvelare.
Con molti limiti spazio-temporali, certo, ma con un indubbio vantaggio: la libertà di espressione, la spontaneità, l'autenticità, l'autonomia culturale che ci caratterizza e che condividiamo.
È una proficua conoscenza, un'amicizia a distanza, senza riserve mentali o condizionamenti di sorta, che ci fa andare dritto nella via dell'anima, per scoprirne l'essenza, chi siamo, che pensiamo, cosa vogliamo o chiediamo alla vita.

È un po' come l’approccio a una diversa cultura, come entrare e viaggiare in un altro spazio, da scoprire da inventare.
O come conoscere un autore attraverso le sue opere, i suoi libri, i suoi quadri, i suoi pensieri: Dante, Leonardo, Michelangelo, Kant, Mozart, Leopardi non li abbiamo mai visti o toccati di persona, ma ne conosciamo a fondo il relativo mondo, il loro essere, il loro peso, il loro testamento.
O come, ancora, il sacramento della "confessione" dei Cristiani o la psicanalisi spontanea, senza il sofà e l’analista, che ci costringe a guardarci dentro e ad esibire, in un certo modo e con un adeguato pudore, la nostra profonda intimità. E a condividerla.
27 ottobre 2017 (Alfredo Laurano)


RECITAR TANGANDO

Qualche anno fa, la mia carissima amica Caralella di Cerignola, provincia di Milano, mi ha fatto dono di una sua spontanea interpretazione di un mio scritto dal titolo “Ti ricordi quando”, una riflessione tra biografia personale e racconti di vita collettivi e condivisi.
Momenti vissuti e rivisitati con un velo di nostalgia, tra gli angoli e le vie del tempo che scorre veloce e tutto ricopre, che ha saputo subito leggere nella chiave giusta, tra toni di scherzo e serietà, forse per comune sensibilità e per naturale empatia.
Voglio ancora ringraziarla per quel suo impegno, che le pagine dei social mi hanno ricordato, riproponendo la mia risposta a quel suo brillante modo di fare “arte”, che sa di strada e di teatro popolare.

Dietro il sipario di qualsiasi suo palcoscenico, reale o virtuale - come anche nella vita quotidiana (in famiglia, al parco, al ballo, al mercato, nell’intimità - si riflette sempre la sua anima, si affacciano i suoi cento volti, le sue mille espressioni: 
Lella felice, Lella triste, Lella bambina, Lella sognante, capricciosa, pensosa, narcisa, vivace, turbata, sexy, folle, stravagante, delusa, arrabbiata, pittoresca, eterea, evanescente, con o senza veletta, cappello o coroncina. Tante umane maschere per rappresentare i variegati momenti di un’esistenza senza paletti e senza età.

Con non poca curiosità, ho assistito alle tue lodevoli prove di interpretazione del mio testo. Noto e apprezzo, innanzitutto, l’impegno e lo sforzo per i quali ti ringrazio fin da subito.
Poi, alcune mie impressioni personali e qualche considerazione, diciamo tecnica.
Quando racconti e descrivi, con autentica emozione, i lontani momenti di vita velati dal ricordo - certamente miei, ma nei quali ti riconosci in buona parte perché comuni o uguali ai tuoi - colpisce subito, e non è certo una novità, la naturale ironia con cui li condisci. Forse, inconsciamente, anche per sconfessare e un po’ ignorare il tanto tempo passato da quei giorni.
Come il prenderti continuamente in giro danzando il valzer anzi, nel tuo caso, il tango dell’autocritica costante: gli occhiali, le esclamazioni originali, la voce roca alla Tina Pica, le interpunzioni.
E così si prospetta, sulla scena e alla disfida, Lella contro Filomena, doveri di nonna contro esigenze di donna, fantasia contro pragmatismo, sogno contro realtà.
Spiritoso l’intercalare e molto divertente la frequente alternanza della forma dialettale con quella dell’italiano formale, ornata da spontanee imprecazioni e osservazioni estemporanee.
Come ho già avuto modo di dirti, ciò denota lo stampo della “fiera terrona padanizzata suo malgrado”, che non rinnega le sue origini ma le esibisce con orgoglio.
In questo magico mix di passato e presente, di favola e realtà, di recitazione verace arricchita da spunti personali, passionali e da un pizzico abbondante di malcelata nostalgia, si coglie comunque il proposito di rispettare sempre lo spirito dell’autore e del testo, senza alterarne il senso ed il significato.
Ciò ti rende attenta, severa con te stessa e fa intuire quanto sia da te sentita e condivisa la narrazione, le situazioni descritte, le forme, i colori e le atmosfere, pur di volta in volta con sfumature e valutazioni diverse (ad esempio, la colonia). Esilarante o seria, comica o triste, ma sempre vera e genuina.
E si riconosce soprattutto l’emozione, i sentimenti che quei ricordi fanno riaffiorare.

Da un punto di vista squisitamente tecnico, mi permetto un solo, umile consiglio.
Lo spettatore deve sempre essere catturato, coinvolto e attratto dal percorso narrativo che gli proponiamo, Specialmente quando lo invitiamo a rievocare, a rivedere, a rivivere fatti ed episodi che conosce o che ha vissuto, in cui tende a identificarsi, con soddisfazione e una qualche gratificazione: anch'io l’ho fatto… anche a me è successo. Che belli.. che momenti..che gioie…che pene…che tempi!
Per stimolare e garantire una attenta partecipazione e la giusta empatia, dobbiamo mantenere ritmo e continuità, perché non si distragga (oggi la TV esaspera ad oltranza questo concetto mediatico, fino alla nausea e al rifiuto totale e perciò mi fa schifo). Quindi, non possiamo divagare molto all'interno di un paragrafo descrittivo o di un concetto che stiamo illustrando (come ho appena fatto io!). Meglio farlo e commentarlo tra un argomento e un altro.
Come diceva il grande Fellini, non si interrompe un’emozione, come fa sempre e purtroppo la pubblicità.
A te, novella Gelsomina, artista di strada, da palco e da ringhiera, grazie, grazie ancora e un convinto applauso.
 25 ottobre 2017 (Alfredo Laurano)









sabato 28 ottobre 2017

NEL NOME DEL PADRE

Nel nome del padre, del figlio e della figlia.
Magari, poi, si esibirà anche la madre di tanti gloriosi figli, nonché moglie del patriarca Ciontoli. Viola, la fidanzata inspiegabilmente complice del primogenito, alla Corte ha detto poco e pianto assai.
L’ultima udienza del processo Vannini dell’altro giorno è sembrata una specie di siparietto comico in un clima tragico, un frammento della commedia dell’assurdo, dove la fantasia ha violentato la razionalità, l’improbabile ha sfidato l’inverosimile, l’impossibile ha cercato, invano, di prevalere sull’incredibile.

E’ inaccettabile e inconcepibile, nel nome del padre, che il Ciontoli, di professione militare, affermi che pensava che la pistola fosse scarica e che avrebbe sparato per sbaglio e poi per scherzo, dopo aver mostrato a Marco come si caricava e scarrellava l’arma.
Ha sparato istintivamente, come fanno i bambini di sei anni che giocano col fuciletto di plastica e lo puntano contro l’amichetto avversario.
Il tutto, girato e raccontato come fosse una sequenza grottesca di un film di fantascienza, nello scenario innaturale di una vasca, dove un aitante giovane, nudo, è immerso per lavarsi. 
Probabilmente, lì, in quella casa, si usava così: chiunque poteva entrare in bagno, occupato, per mostrare una pistola, chiacchierare di politica, del tempo o della cena consumata, o raccontare la favola della buona notte.

Nel nome dell’inattendibile figlio Federico, bisognerebbe candidamente credere che, uno che ha frequentato la prestigiosa Scuola militare dell’Annunziatella, non sia e non fosse in grado di riconoscere un fragoroso colpo di pistola - che non è proprio del tutto simile al rumore di un oggetto che cade o a un colpo di tosse - esploso in casa e nel silenzio della notte. Né di avvertire il tipico odore acre della polvere da sparo. Forse il giovane distratto era raffreddato.

E nel nome della figlia, Martina, fidanzata da tre anni e amatissima da Marco, cosa pensare?
Studia da infermiera, ha fatto esami universitari e tirocinio in ospedale e non si accorge della gravità della situazione? Che Marco si lamenta di continuo per il dolore (non urla, secondo lei) e lei - presumibilmente in apprensione e preoccupata - non si prodiga per farlo arrivare subito al Pronto Soccorso, in auto o in ambulanza?

E’ vero, come imputati, hanno il diritto di mentire per difendersi, ma manco al convegno dei cretini si sentirebbero simili castronerie.
Sembra veramente la fiera del paradosso, il clan dei vili Ciontoli, degli imbelli e degli incapaci. Anche se per tali vogliono far passare il tribunale, i giurati, la famiglia del povero Marco e tutti noi.
Hanno avuto oltre due anni, questi inetti, per imparare maldestramente la parte che avrebbero dovuto recitare in tribunale e per confondere le acque della logica e della sensibilità umana.
Ma non possono così goffamente offendere l’intelligenza del comune cittadino.
(Alfredo Laurano)

mercoledì 25 ottobre 2017

C’E’ PASTA PER TE

"Maccarone, tu m'hai provocato e io ti distruggo!", dice il mitico Alberto Sordi, alias Nando Meniconi, nella fantastica sequenza del film "Un americano a Roma", mentre si accinge a divorare un enorme piatto di spaghetti.
Questa scena immortale può ben rappresentare il Word Pasta Day, la giornata dedicata al piatto italiano per eccellenza, che si celebre oggi nel mondo.
E noi italiani, oltre ad essere poeti, santi, artisti e navigatori, siamo fieri di essere anche, e non solo, "pizza, spaghetti e mandolino", in una felice, quanto bistrattata sintesi del concetto di felicità.
Siamo anche il Paese del sole e dell’amore, ma quello che ci rende inconfondibili è proprio la nostra inimitabile tradizione culinaria.

La nostra pasta si lega con facilità a diversi prodotti e stili di cucina del mondo, ha un costo accessibile, la sua produzione è sostenibile, non offende popoli o diverse religioni, si sposa con tantissimi ingredienti, anche con scelte vegetariane e vegane.
La pasta è l'alimento democratico e semplice per eccellenza!
Si macina il grano, si ottiene la semola, si unisce l’acqua e il gioco è fatto.
3.2 milioni di tonnellate è la quantità di pasta che l'Italia, leader mondiale del settore, riesce a produrre in un anno, seguita da Usa, Turchia e Brasile.
In Italia, operano attualmente 139 pastifici.
Ne esistono 200 formati diversi.
Come piatto simbolo della Giornata della Pasta 2017 è stato scelto lo spaghetto al pomodoro, un piatto sano, semplice, gustoso, buono sempre e profumato, che gratifica il palato e tutti i sensi e mette di buonumore.
Per questa edizione - dopo New York, Rio de Janeiro, Roma, Città del Messico, Istanbul, Buenos Aires e Milano e Mosca nel 2016 - come capitale del World Pasta Day è stata scelta San Paolo il primo paese del Sudamerica per produzione.
Sono in programma tante iniziative in Italia, tra cui quella di 12 Regioni che hanno donato alle mense Caritas tredici tonnellate di pasta, per circa 160mila pasti.
Oltre all’Italia parteciperanno a questa iniziativa anche tanti altri produttori del resto del mondo che tutti insieme garantiranno oltre tre milioni di piatti per combattere la fame.
(Alfredo Laurano)

martedì 24 ottobre 2017

GOLIARDIA A PROVA DI IMBECILLI

Questa non è una curva, questo non è calcio, questi non sono i valori universali dello sport. È la malattia del tifo che degrada.
Ci risiamo. Dopo i manichini con la divisa giallorossa impiccati, le banane alle scimmie nere, le svastiche, gli insulti e i cori razzisti, un manipolo di barbari, pseudo tifosi lazialesi, hanno imbrattato la curva sud, "casa" abituale dei nemici romanisti, con adesivi inequivocabilmente razzisti. 

Un disgustoso campionario della vergogna: "Romanista ebreo", "romanista Aronne Piperno", quello del Marchese del Grillo, e ancora immagini di Anna Frank con la maglia della Roma, già comparse alcuni anni fa in giro per Roma. Tutto firmato dal gruppo ultrà laziale degli Irriducibili, “stupiti da tanto clamore, in un contesto di goliardia"
Pensare che i fedelissimi abbonati in curva nord non avrebbero nemmeno dovuto esserci allo stadio, dopo la chiusura della curva stessa per gli insulti ai giocatori del Sassuolo: sono potuti entrare soltanto grazie a una mossa decisa dall’ineffabile Lotito, che, grazie alla sospensione degli abbonamenti ha potuto concedere i biglietti della curva "rivale" ai suoi stessi ultrà, alla cifra simbolica di un euro. La Figc ha aperto un'inchiesta per verificare le responsabilità della società Lazio, che rischia una nuova e più pesante squalifica.

È inconcepibile che un esiguo numero di sconsiderati possa provocare clamorosi danni d'immagine e materiali a una società di calcio che, pure, ha qualche responsabilità.
Certo, questi quattro latitanti della ragione e della lealtà sportiva, che squalificano un’intera categoria di appassionati, non sono affatto “normali”, non sono affatto tifosi, né sportivi, né amanti del pallone.
Sono una banda di razzisti, di repressi, di ignoranti, di incapaci, di falliti, di fascisti da stadio e da tribuna. Sfruttano la curva come campo di battaglia, per colpire, per menare, per sfasciare, per condurre la guerriglia fra teppisti.

E non sono gli unici: queste spennate aquile laziali non volano nei cieli, ma ristagnano, in buona compagnia, nelle fogne degli stadi di buona parte d’Italia.
Usare quel nome e quell’immagine di Anna Frank  - di cui sicuramente ignorano la storia ed i tormenti - per insultare i romanisti è qualcosa di spregevole di cui dovrebbero vergognarsi a vita, se solo conoscessero il senso del rispetto e della dignità.

 (Alfredo Laurano)

COME NELLE FAVOLE: SA PARADURA

Qualche volta, sia pur raramente, succede anche nella realtà.
C’era una volta Elia, 17 anni di Posada, che fin da bambino andava in campagna con il padrino ed era affascinato dal contatto con la natura e con gli animali. Sognava di fare il pastore.
E ci stava pure riuscendo, era partito da poche pecorelle e col passare del tempo e con tanti sacrifici, pian piano stava arricchendo il suo piccolo gregge.
Ma qualcuno ha pensato bene di rubargli tutto il bestiame, gettandolo nello sconforto e nella profonda delusione.

Un ragazzo che cerca di coltivare il suo sogno non può perdere il sorriso, devono aver pensato tanti altri pastori più esperti e più maturi di lui e, come nelle favole, hanno fatto scattare "sa paradura", un gesto di solidarietà della Sardegna rurale, dedicato ai pastori che, in seguito a furti o catastrofi naturali, hanno perso il gregge. Ogni membro della comunità dona allo sfortunato un animale dei suoi affinché il collega pastore possa ripartire nel suo lavoro.
Un atto di fratellanza che i pastori sardi hanno compiuto anche verso gli allevatori del Centro Italia colpiti dal terremoto dell'agosto 2016.

Si è scatenata, così, una vera gara di solidarietà con la complicità del web. 
Una delle prime a chiedere un aiuto per Elia è stata la pagina Facebook di Laura Laccabadora, che proponeva, appunto, di regalare qualche animale al ragazzo. E le risposte sono subito arrivate.
"Grazie ai sardi, ho di nuovo il mio gregge. Ora ne ho 80, non dimenticherò mai questa generosità".
Elia Taberlet ancora non ci crede. Non pensava che la sua storia facesse tanto clamore.
La sua vicenda, invece, quella di un ragazzo che, di questi tempi, vuole fare il pastore, è diventata famosa. Sia per la sua giovane età, sia per ciò che rappresenta: un simbolo di generosità, un momento di amicizia.
(Alfredo Laurano)


PER MARCO

“Vedremo se avranno il coraggio di parlare – dice Valerio Vannini, papà di Marco – non sappiamo ancora chi ha sparato a nostro figlio, né per quale motivo. Si sono chiusi come un branco, ma noi vogliamo verità e giustizia. Io e mia moglie Marina non ci stancheremo mai di lottare”.
Oggi si torna in aula e sarà il giorno in cui, i Ciontoli, che non hanno mai rilasciato una dichiarazione alla stampa, parleranno e si sottoporranno all’esame degli imputati.

Poco o niente, in realtà, si sa su cosa sia accaduto veramente e sul perché di un omicidio così efferato ed inspiegabile.
Ci aspettiamo tutti che le strade della verità processuale e di quella storica possano coincidere e non restare divise per sempre, che possano spiegare in modo inequivocabile - soprattutto alla famiglia - il motivo della morte di Marco, ancora drammaticamente avvolto nel mistero, incartato con le bugie, amissioni, omissioni e ritrattazioni dei protagonisti di questa brutta storia.
La posta in gioco, al di là dei destini degli imputati e dei familiari ed amici di Marco, annientati dal dolore, è restituire giustizia e pace a Marco, in questi due anni divenuto il figliolo di tutta Cerveteri.

Ad aggravare ancor più la situazione di tensione che accompagna tutta la vicenda, va anche osservato che, di recente, la memoria di Marco ha subito un’ulteriore oltraggio: nei pressi del cancello della villetta dei suoi assassini, in via De Gasperi, erano stati posti da tempo una foto e un mazzo di fiori, in ricordo del giovane, precisamente su un palo della luce all’estremità del marciapiede.
Quella foto e quei fiori sono stati strappati e buttati via, in un gesto vile e meschino, ben lontano dal sentimento della pietà umana.
 23 ottobre 2017 (Alfredo Laurano)

CHE BELLE QUELLE DONNE!

Le meravigliose femmine di Carlo Grechi - tristi, pensierose, vaghe, sognanti, annoiate, deluse, dolci, severe - guardano in solitudine le stesse acque che avvolgono il Castello “baciato dal mare”.
Straordinario gioiello di storia, cultura e archeologia, il maniero di Santa Severa - rimasto chiuso per oltre dieci anni di lavori di restauro, ha di recente riaperto i suoi spazi al pubblico, all’arte, agli spettacoli, alle visite all’interno di quelle mura, segnate dalla Storia.

Siamo in un luogo affascinante, a due passi da Roma, e, mentre timidamente il sole tramonta, anche attraverso le finestre di quelle antiche sale, la magia dell’arte si distilla e si discioglie in quella, cornice suggestiva, senza limiti e censure, che solo la natura e l’ambiente sanno regalare.

È tantissima la gente che visita la mostra di Carlo Grechi, che apprezza le sue opere, che le commenta, che rimane incantata da quei colori e quelle forme che costituiscono il suo “eterno femminino”, che ne raccontano la sua sensibilità pittorica: quelle donne sono l’essenza della femminilità percepita come mistero, incanto e fascino, cui l'uomo o l’artista s’arrende e vi soggiace.

Quelle donne che da sempre sono una “magnifica ossessione”, nelle loro mille sfumature, nelle pose, nell’animo, nei gusti, nei ricci e nei capricci. 
Sono, forse, anche l’espressione della sua idea della donna, amata e pensata nei suoi mille contorni, nelle sue infinite proposizioni.
O simboleggiano il suo intimo e inconfessato racconto di una ipotetica donna ideale, che tutte le comprende: nuda o vestita con abiti semplici, scalza, seduta, china, sdraiata, silenziosa o che comunica con lo sguardo e la postura, in un lirico linguaggio non verbale.
Sono eteree e carnali, sensuali e voluttuose, immaginarie e reali nello stesso attimo fuggente.
Vivono una dimensione propria, senza spazio e senza tempo, anche se rappresentate nella quotidianità, in ambienti naturali o familiari, come una casa, una stanza più o meno spoglia, un pavimento, una spiaggia, con un gatto, un tavolo, un letto, un libro, con un’altra sé stessa o accanto a una finestra per sognare. 
Fanciulle giovani, magre e senza orpelli che guardano al passato e al futuro, che si guardano dentro per scoprirsi fragili, ma vere, in un mondo nefasto, che osservano con distacco, anelando spazi lontani e speranze propizie.
Divinizzate, mitizzate, ossequiate, anche se normalissime fanciulle, per l’autore sono quasi creature superiori in un universo contemplativo e magico, dove l’amore si unisce al desiderio. Una legittima, piacevole e ricorrente attenzione, scevra, però, da ogni e qualsiasi risvolto morboso o patologico.

Ogni pennellata cattura un gesto, un particolare, un’espressione che scopre la forza e la bellezza di ciascuna. Gli sfondi, i contorni e le ambientazioni sono racchiusi nella misura di un singolo frame e non invadono più del necessario.
Sulla tela o sulla carta paglia, con la china, con l’acrilico o i pastelli, quelle figure restano sospese nel mistero della vita, ma sono autentiche e speciali. Ombre, luci e colori intensi tracciano la storia delle donne in ogni “inquadratura”, fino a farle diventare prima immagine, poi simbolo universale.

L’eterno, immutabile, fascino femminile esiste da sempre, nasce con il mondo, va oltre i miti, le mode o il costume, vive di luce propria nell’universo non solo maschile.
Nel piccolo Eden che ha costruito Grechi, lo stupore e il piacere si fondono con la spiritualità, alla ricerca di una difficile, ma forse possibile felicità.
E quelle femmine, che quel paradiso abitano, sono coinvolgenti, uniche, originali e non si fanno mai dimenticare.
Perché ognuna è donna, mistero senza fine.
22 ottobre 2017 (Alfredo Laurano)



sabato 21 ottobre 2017

PER CARLA, LA CAPOCLASSE

Insieme, grazie alla letteratura, abbiamo imparato a scrivere, grazie alla filosofia, abbiamo imparato a pensare, ma grazie alle tabelline, ancor prima e in tempi assai lontani, abbiamo imparato a contare.
Abbiamo preso confidenza con i numeri, con le unità e le decine, che abbiamo usato per calcolare, elencare, misurare, valutare, quantificare, ma anche per raccontare la nostra esistenza.
Per fissare tappe e momenti di vita, per giudicare conquiste e sconfitte, per classificare affetti e delusioni, gioie e dolori.
Per ricordare i tempi dell’infanzia, delle mele, della scuola, del lavoro, della maturità e della inevitabile terza età.
Ogni fatto si riferisce a un numero, a una data, a un’età, spesso del tutto virtuale, che lo colloca nella ferrea memoria del proprio, consolidato passato: la nostra storia, la nostra vera, inalienabile ricchezza.

Noi abbiamo avuto il non comune privilegio di rincontrarci, dopo tanti lustri e decenni, e di ritrovarci in una nuova dimensione affettiva, dove il tempo si è fermato o quasi non esiste, felici di poter ancora condividere esperienze e scambiarci sentimenti, come quando eravamo giovani e non soltanto “diversamente”.

Oggi, anche tu, cara “capoclasse” per antonomasia, in virtù di quei numeri che scandiscono il nostro essere, entri in una nuova decina anagrafica, segnando in rosso un’altra festa nel tuo personale calendario, fortificata e sostenuta dal calore della tua famiglia e da quello di tutti noi, amici felicemente ritrovati e affezionati.
Ti auguriamo ancora tanta gioia e serenità, nella stagione dai colori e dai profumi seducenti, dove sbocciano le magnifiche rose d’autunno. (Alfredo)

20 ottobre 2017