domenica 30 dicembre 2018

SCIAMANI PREDICENTI


Siete pronti, siete in attesa, siete caldi, siete in ansia?
Io non vedo l’ora di sentire le stronzate di Paolo Fox, di Branco, di Simon & The Stars, di Marco Pesatori - i più quotati e celebri astrologi del momento -  sul nuovo anno. Una volta, c’erano i Nostradamus e i San Malachia, che prevedevano disgrazie e papi.

Le preveggenze di questi nuovi ciarlatani e imbonitori, senza l’uso di quartine, riportano il medioevo nelle case e ai nostri giorni, attraverso gli oroscopi dei segni zodiacali, tutti più o meno fortunati, che regalano ai poveretti una qualche illusione, un contentino, uno straccetto di speranza che, come sempre, sarà delusa, sarà fallita puntualmente.
E come sempre, come ogni anno - oltre alle rubriche fisse che tengono in giornali e giornaletti, nei talk e nelle TV - tornano a leggere e a raccontarci le stelle del 2019, secondo il proprio calendario astrologico.
Se la fine dell’anno precedente è stata la liberazione da un pianeta e dalla sua forza distruttiva – dicono, ad esempio, questi mediatici indovini - il prossimo potrebbe benissimo essere l'anno della ricostruzione per tutti i segni. 
Risveglio, cambiamento, consapevolezza saranno le parole chiave e portafortuna dell'anno a venire. Appunto, 
come sempre.
Nuovi transiti e spostamenti degli astri sono pronti a regalarci delle belle sorprese. Ancora, come sempre.
Strega, mago, cartomante, uomo delle stelle, veggente, guaritore, nonché sciamano, quando serve, che significa letteralmente “uno che vede nel buio”.
Lo Sciamanesimo, nella storia delle religioni, in antropologia culturale e in etnologia, indica un insieme di conoscenze, credenze, pratiche religiose e tecniche magico-rituali, riscontrabili in varie culture e tradizioni (soprattutto originarie della Siberia e dell’Asia centrale).
Lo sciamano è guaritore, è mago e persino sacerdote. Egli è mistico, poeta, ma soprattutto un manipolatore di anime. Proprio come loro, sibille e oracoli fasulli della nostra ipertecnologica civiltà.

“Se la logica e la matematica prendessero il posto della religione e dell'astrologia nelle scuole e in televisione - scrive Odifreddi nel suo “Matematico Impertinente” - il mondo diventerebbe gradualmente un luogo più sensato, e la vita più degna di essere vissuta.”


E allora, c’è chi non esce di casa senza controllare prima il suo oroscopo. C’è chi chiede subito a chiunque il suo segno zodiacale, anche a chi incontra per la prima volta e prima ancora che ne conosca il nome. Tutto ciò perché è convinto che le stelle, i pianeti e i loro movimenti influenzino o determinino la vita umana ed i destini di ciascuno.
A chi mi domanda di che segno sei, io rispondo sempre: sono della Lupa (giallorossa, unica magia che riconosco), ascendente scettico.

"In barba a Galileo, Keplero e Newton l’astrologia è ancora il culto religioso con più adepti sulla Terra - scriveva vent’anni fa la grande Margherita Hack - storia, artifici e ignoranza di una pseudoscienza, figlia anacronistica dell’antropocentrismo."
L’astrologia è “un'arte” originaria della Caldea (Babilonia) dove, alle osservazioni puramente scientifiche dei movimenti degli astri, si aggiunsero teorie riflettenti, appunto, la supposta influenza dei corpi celesti sulla vita degli uomini e delle loro cose: la nascita di ogni mortale veniva, infatti, sottoposta all'influsso di un astro di una determinata costellazione.

“Verrà il tempo in cui la gente si renderà conto che gli astrologi sono dei grandi imbroglioni”, pensava ingenuamente anche Voltaire, quasi tre secoli fa: invece nel terzo millennio siamo ancora ai tarocchi, al pendolino e alla lettura della mano.
Nonostante, ormai, oltre a studiare i corpi celesti e il sistema solare, viaggiamo tra le stelle, abbiamo (pare) stazioni nello spazio, siamo andati (pare), sulla Luna e ci stia aspettando Marte (sempre, pare).
Dopo aver a lungo creduto - e troppi lo credono tuttora - che quelle ambigue stelle controllassero i destini degli uomini.
30 dicembre 2018 (Alfredo Laurano)

MIRACOLI ITALIANI


Nella generosa terra di Sardegna, pochi giorni fa, si è rinnovato per la ventiduesima volta il Miracolo di Natale.
Non è solo un film commovente, un libro, una commedia strappacuore o un pezzo di teatro popolare, è l'appuntamento di beneficenza, tra i più partecipati delle festività natalizie, a supporto e nei confronti delle famiglie bisognose: migliaia di pacchi dono di derrate alimentari a lunga scadenza, prodotti e giocattoli per bambini.
Sono 15 i comuni della Sardegna che hanno dato vita in contemporanea a questo importante e concreto gesto di sensibilità nei confronti di chi vive una situazione sfortunata e di precarietà: dalla scalinata di San Simplicio ad Olbia a quella di S. Bonaria a Cagliari, dalle vie di Iglesias a quelle di Decimomannu, da Sassari a Quartuccio, a Bosa, Porto Torres, Villacidro e tanti altri.
In poche ore, grazie alla Caritas, alle associazioni, ai supermercati, ai cittadini e ai volontari, quelle piazze, quelle vie e i gradini di quelle scalinate si sono riempiti di ogni ben di Dio e di tantissimi giocattoli.

Su ogni gradino e in ogni busta, non solo generosità, ma anche un pezzetto di speranza e di calore umano: un bel segnale universale di vicinanza e solidarietà, che ti fa sentire meglio.
“Basta poco che ce vò”, diceva il comico Covatta, per far felice gli altri, ma soprattutto se stessi e la propria coscienza.
 A volte, stranamente, accadono i miracoli.
29 dicembre 2018 (Alfredo Laurano)



giovedì 27 dicembre 2018

MERCATINI


Da una parte, la scontata monotonia, l’eleganza formale, luminosa, appariscente dei centri commerciali, così uguali, asettici, studiati, prevedibili. Così anonimi, uniformati, standardizzati, spersonalizzanti e massificati.
Tra grandi spazi, firme, abiti, scarpe, borse, orologi e preziosi, oggettistica e tempo libero, intervallati da bar, ristorantini, market, paninerie e pizze a taglio, si coglie inequivocabilmente l’idea più bassa del commercio, la necessità di vendere, convincere, sfruttare le debolezze umane per incassare, fare fatturato. Non conta offrire un servizio, un sorriso o un consiglio autentico e disinteressato, conta soltanto il volume d’affari.

Dall’altra, vintage, moda, usato, arte, oggettistica, antichità, hobby, antiquariato, modernariato e tanto artigianato. 
Ma anche, cibo confezionato, prodotti alimentari regionali e della tradizione: sono i tanti mercatini che, in tutt’Italia - ma anche e soprattutto all’estero - riempiono le strade e le piazze di città, paesi e di quartiere, Bolzano e Merano su tutti.
In questo periodo di festività, oltre al consueto shopping, crescono gli stand dedicati ai dolci natalizi, che contribuiscono a creare l’ancor più giusta atmosfera.

A Roma, è piacevole passeggiare all'interno di questi piccoli villaggi: da via Sannio a Porta Portese, da Belle Arti a Ponte Milvio, da Piazza Navona a Piazza Mazzini, a quella Dei Quiriti.
Curiosare tra le bancarelle e magari trovare pure il paio di scarpe di marca in stock o l’abito firmato un po’ retrò, un pezzo di arredamento vintage o un regalo artigianale che colpisce. 
O anche antichi giocattoli di legno o latta, bambole di pezza, orologi, lampade, radio, poltrone, piccoli mobili, quadri, attrezzi e strumenti vari.
I mercatini sono parte integrante della cultura, del territorio e del folklore di una città.
Sono espressione autentica della tradizione, della storia del costume, del riuso e del riciclo, dove nulla si distrugge, tutto si rinnova e si riproduce. Con la dovuta attenzione alle “sole”, ai falsi, alla paccottiglia, ai fondi di magazzino e alle cineserie.
E poi, rispetto ai Centri dove conta solo vendere, lo spirito è diverso: si coglie la passione, si riscoprono i rapporti umani, la trattativa, le spiegazioni e l’affascinante storia di quel pezzo raro, compresa nel prezzo dell’acquisto. 
(Alfredo Laurano)





IL CICCIONE ABUSIVO


Questa festa tanto amata. Questa festa che tutti aspettano con fremiti e palpitazioni. 
Natale non è solo una ricorrenza, non è solo una festa. O, perlomeno, da anni ormai non lo è più, è diventata altro.
Luci sfolgoranti, addobbi nelle case e nelle strade, vetrine decorate, alberi pieni di palle e intermittenze, qualche raro, approssimativo presepe, anche diffuso, vivente o semovente, per giustificare una certa tradizione.
Ma, soprattutto, Babbo Natale, le sue renne e i suoi spesso inutili regali.
La nostra adorabile società dei consumi ha, praticamente, trasformato l’incarnazione del sacro bambinello nella figura di un vecchio barbone apparentemente alticcio, di rosso vestito, dal viso ebete e paffuto, che si muove su una slitta immaginaria.
Che non ha nulla a che vedere con quel povero Cristino. Che non è nonno, né lontano parente di quel frugoletto nato per sbaglio in una grotta, al gelo, appena ecologicamente riscaldato dal fiato di un bue e un asinello.

Ma allora, chi è quel ciccione rosso che dicono venire dalla Lapponia?
Un extracomunitario buono e generoso, che piace anche a Salvini? O un abusivo che si è appropriato di quella tradizione?
No, è la personificazione per eccellenza del consumismo. Il volto vero della speculazione commerciale, della discriminazione sociale che premia i ricchi e i privilegiati per quello che sono, non per quello che fanno. E’ il piazzista di Amazon, il nuovo ambasciatore delle merci a domicilio.

Da troppo tempo, Natale è festa del conformismo, dello spreco, del consumismo sfrenato, che insegue i beni materiali.
Basti osservare il traffico nelle strade di macchine e persone: file, caroselli, clacson, negozi e bancarelle, dove trovare la cosa giusta per caio o per sempronio: “na cosetta”, “basta il pensiero”, che unisce tutti in un delirio collettivo.
E poi il Cenone obbligatorio, “cor fritto de broccoli, de pesce e il capitone; li spaghetti ar tonno, er baccalà e l’insalata de rinforzo, dove “te devi sfonnà”, come si dice a Roma, pe rispettà l’usanza e la leggenda. E pe finì, li panettoni, lo schiumante e li torroni che te spiaccicano li denti”, prima de aprì, satolli, li pacchi infiocchettati”.
C’è gente che va ancora a messa la notte di Natale e poi per tutto l'anno è cattiva, razzista, falsa, intollerante, indifferente e maldicente. Na volta, se chiamavano farisei.

Iglesias, la via della solidarietà
Simbologie e credenze antiche, culture ancestrali e primitive, arcaiche liturgie, sopraffatte dalla tecnologia, dal Mercato e dai suoi ambigui miti.
Riti cristiani che, a Natale, più pagani non si può, dove i sentimenti sembrano prevalere sull’ignoranza e l’egoismo, dove si diventa buoni e generosi, a comando, per un giorno, perché lo dice il calendario. Auguri, baci, abbracci e pacche sulle spalle in un quadretto triste e finto, che suggella il cerimoniale. Ipocrisia portami via.
 Natale 2018 (Alfredo Laurano)

lunedì 24 dicembre 2018

PRESEPE DE NA VORTA

L’origine del presepe si fa risalire a san Francesco che, rientrato da un viaggio in Palestina, decide di celebrare il Natale all’eremo di Greccio, tra le rocce, a 700 metri di altezza, la notte del 24 dicembre 1223. Voleva vedere, dicono i cronisti dell’epoca, con gli “occhi del corpo” il disagio in cui nacque Gesù.
Non fu un presepe (vivente) come lo conosciamo noi, con gli angeli, i pastori e la sacra famiglia. Si trattò della celebrazione dell’Eucarestia su una mangiatoia (praesaepe, in latino) con solo l’asinello e il bue, ma davanti a una folla di poveri accorsi per l’occasione.
Tutto ciò per ribadire che l’umiltà e la povertà sono la culla del cristianesimo, come ricorda ancora oggi papa Francesco.
Solo successivamente nei presepi del mondo sono stati aggiunti gli altri personaggi.
Da quel momento, infatti, si diffuse l’usanza di riproporre quest’allestimento nelle chiese durante il Natale, con figure di terracotta, cera o legno e, con il tempo, anche nelle famiglie. Inizialmente solo tra coloro che potevano permetterselo, come le case dei nobili dove era un prezioso soprammobile, svuotato dal suo significato originale, un modo per mostrare la propria ricchezza.

Anch'io, senza essere ricco e nobile, sono stato sempre affascinato dalla magia del presepe. Del suo calore, della sua costruzione, della sua sempre diversa scenografia, piena di angoli e paesaggi, di monti e fiumicelli, di luci e di colori, e dell’odor soave del muschio vero di una volta. 
Passione, amore e tanta fantasia, ricordi d’infanzia e di famiglia, di figlie stupite, emozionate e rapite da quel sogno: sensazioni scolpite nel tempo, che solo quelle scene antiche e serenamente pastorali sanno regalare. Ne ho fatte tante, ve ne propongo alcune.

“Trovavo ‘n’angolo, ‘n cammera de pranzo e ‘ncominciavo a fa’ ‘n telaio d’aricoprisse co la carta azzurra traforata de stelle.
Aricoprivo tutto co la carta mimetica, sortiva fòra ‘n grottone. Le lampadine intramezzo a li du foji faceveno arisarta’ le stelle.
Co la carta mimetica, stropicciata, ce facevo le montagne e intramezzo lasciavo er vòto de la grotta.
L’impianto de luci che giranno ‘n’interuttore facevno cambia’ arba, giorno, sera e notte. Arivaveno li pupazzetti e tutto s’ariempiva cor muschio (quello vero) e ‘na sporverata de farina a fa’ la neve.
La notte de Natale, ar ritorno da la Messa de mezzanotte, ce mettevo e Bambinello e er sei gennaro arivaveno li Maggi.
Peccato che nun se ne vedeno più tanti ne le case, sostituiti dar pagano Arbero de Natale.
Scusateme la prolissità, ma quanno ce penzo me commovo.” (Svardo)
24 dicembre 2018 (Alfredo Laurano)










sabato 22 dicembre 2018

LA MITICA SCHEDINA

Addio schedina, addio Totocalcio, amico di tante domeniche e, soprattutto, ambito porto di tantissime speranze.
L’Italia manda in pensione uno dei concorsi a premi che ha caratterizzato un pezzo della sua storia del costume e della tradizione, dal secondo dopoguerra in poi: un emendamento dalla Manovra finanziaria lo cancellerà insieme al Totogol, sostituendolo, pare, con un nuovo gioco gestito dai Monopoli.

Introdotto nel 1946, il Totocalcio, da sempre e da subito, è entrato nell’immaginario collettivo di quasi tutti gli italiani, come gioco nazional-popolare e come ancora di salvataggio economico di chi provava a cambiar vita con l’1X2 della schedina: tutti inseguivano un Tredici milionario.
Si giocava singolarmente o anche in società, a quote, e poi con mille pronostici varianti e sofisticati sistemi, basati sul calcolo delle probabilità e delle statistiche. I sistemisti più esperti adottavano astrusi calcoli matematici per realizzare giocate multiple che escludessero determinate combinazioni: per esempio che il risultato “2” uscisse tre volte di seguito nella stessa colonna, o l’ ”1” più di quattro e cosi via di seguito.

Adesso, dopo la crisi degli ultimi anni, dovuta alla liberalizzazione delle scommesse, che catturano l’interesse di tanti giocatori, ma soprattutto alla frammentazione continua del campionato, non ha quasi più senso: come scommettere sui 13 mitici risultati, poi diventati 14, se lo spezzatino del calcio, fra anticipi e posticipi dal venerdì al lunedì, fra orari prandiali, pomeridiani e serali, prevede partite in onda ogni momento, secondo le regole e le esigenze commerciali delle Pay TV?
Una volta, le partite si giocavano, in contemporanea, solo la domenica e solo alle 14 o alle 15 e, subito dopo, cominciavano a svanire o a concretizzarsi i sogni di milioni d'italiani, con la radiolina incollata all’orecchio per seguire i risultati di “Tutto il calcio, minuto per minuto”: Il catalizzatore di questi sogni milionari, era proprio la mitica schedina, destinata alla scomparsa.
Pochissimi ancora la giocano, forse per abitudine, ma senza la passione di una volta.
Il Totocalcio resta e rappresenta, tuttavia, una fase rituale, apotropaica e propiziatoria, dei nostri comportamenti collettivi e del calcio di un tempo, ormai cancellato dalla realtà, ma ancora vivo e presente nei nostri ricordi.

Ogni sabato, ci si recava dal tabaccaio, si ordinava un caffè e lentamente ci si chinava su quel foglietto colorato. Si rifletteva, si facevano due calcoli in silenzio, si roteava un po’ la penna e si dava inizio alla mistica funzione: uno-ics-due, con o senza le doppie o le triple, compilata e ricopiata su tre riquadri uguali. La schedina, su cui il ricevitore applicava in alto, con la colla, il talloncino gommato di convalida della giocata, veniva poi tagliata a mano con un righello, in tre parti, “figlia-spoglio-matrice”: la prima andava al giocatore, la seconda alla ricevitoria e la terza al Totocalcio.

Quando ero ragazzo, alle cinque della domenica pomeriggio, anziché uscire con gli anici che andavano a ballare, per guadagnare un paio di mille lire, entravo insieme a tanti nella sede del Totocalcio a Ponte Milvio per spogliare montagne di schedine, con precisione, con occhi attenti, concentrazione, buona memoria e velocità.
In un unico stanzone, a ciascuno seduto a un banco o a un tavolino, veniva consegnato il suo bel pacco pronto di schede fermate con l’elastico. La colonna vincente veniva annunciata in sala da un microfono (e subito trascritta) e scattava immediatamente l’esame. Era vietato sbagliare, niente spazio alle chiacchiere o alla stanchezza per garantire precisione e puntualità.
Dovevamo controllare, una ad una, le parti di schedine, per verificare quelle vincenti. Tutto era eseguito rigorosamente a mano, nel giro di poche ore, perché si doveva comunicare per tempo a Sisal Milano l’esito del concorso, indispensabile a stabilire e annunciare le quote dei vincitori. Poi, venne l’automazione.
Questo era un tempo il Totocalcio, che appassionava milioni di italiani. Una fonte di svago per chi univa l’amore per il calcio alla volontà di togliersi qualche sfizio, nella speranza di una possibile vincita.
Un’abitudine collettiva, un antico rito settimanale a cui non si rinunciava mai: quando si dimenticava di giocare la schedina, si usciva di notte alla ricerca di un bar aperto fino a tardi, che contribuisse a portare un sogno nelle case di tantissimi italiani.
Almeno fino alla domenica pomeriggio, quando prima la radio, poi la TV, comunicavano alla nazione se eravamo diventati milionari o se dovevamo rinviare, ancora una volta quel nostro difficile, ma appagante sogno.
 (Alfredo Laurano)


venerdì 21 dicembre 2018

LA MEGLIO GIOVENTU’


“Oggi, tutto il mondo parla di te, quando eri tu che volevi parlare del mondo”, ha riassunto in una efficace considerazione, tra tante altre assai significative, una sua commossa amica. Ma tutti abbiamo pianto, ascoltando quelle parole così vere, così sentite, vibranti e cariche di affetto e di dolore, pronunciate dai suoi amici, avvolti nella bandiera blu-stellata dell’Europa.
C’è una bella gioventù che spera nel futuro, che crede nella speranza. Che vive di desiderio.
C’è una bella gioventù che crede nella verità e si dispone a raccontarla anche mettendo in rischio la propria vita.
C’è una bella gioventù che ha studiato, sognato e desidera un mondo migliore.
C’è una bella gioventù che si chiamava Antonio Megalizzi che faceva il giornalista a Strasburgo per la sua redazione Europhonica, un progetto radio legato al mondo universitario. Così scriveva Claudia Pepe, all’indomani del mortale agguato.

I funerali di Antonio Megalizzi, barbaramente ucciso a Strasburgo da un terrorista islamico, quando, dopo una normale giornata di lavoro, con alcuni amici aveva deciso di farsi un giro tra i mercatini di Natale della città francese, si sono tenuti ieri nella cattedrale di Trento, a piazza Duomo.
Alle esequie hanno partecipato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente del consiglio Conte, Tajani e la vicepresidente della Camera. Durante la funzione sono stati chiusi anche i Mercatini di Natale di Trento, in segno di rispetto.

“Se Europhonica fosse stata una metafora, sarebbe stata Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento dell’indifferenza sull’Europa. Antonio non solo era il primo a guidare la carica contro i mulini, ma aveva comprato i cavalli, studiato il percorso e venduto i diritti d’autore della storia a Cervantes”.
Un ricordo anche dll’amico Bartek,- accomunato dalla stessa passione e dallo stesso obiettivo, cioè raccontare, tramite la radio, quell’Europa che li ha portati fino a Strasburgo - morto accanto a lui, l’11 dicembre.
Conoscevo Antonio solo da tre anni e avevamo un rapporto bellissimo. Il suo motore una sana ambizione, “Il mio lavoro vale molto di più di una vacanza”, soleva dire. Ora Antonio continua a vivere dentro di noi, porteremo avanti noi il suo sogno, il nostro sogno”, ha detto un amico e collega di Antonio, raccontando, tra le lacrime, la sua passione e il suo impegno.
L’Inno alla gioia, dalla nona di Beethoven, simbolo musicale europeo, suonato da una piccola, giovane orchestra, ha accompagnato l’ultimo saluto al Mega e al suo nobile progetto.

“Il tempo è troppo prezioso per passarlo da soli. La vita troppo breve per non donarla a chi ami. Il cielo troppo azzurro per guardarlo senza nessuno a fianco. Nulla muore e tutto dura in eterno”, scriveva il Mega nelle sue riflessioni. 
Ma così muore, invece, la meglio gioventù. Quella sana, curiosa, aperta, solidale, progressista. Quella che odia l’indifferenza, che sfata i falsi miti, che ripudia i modelli ingannevoli e fasulli e combatte il degrado culturale, quella che vuole costruire anziché distruggere, contro la paura e l'odio.
Muore per l’amore, per la verità, per la giustizia, per nulla.
Per una violenza cieca, assurda e senza senso, che ancora una volta ha decapitato una giovane vita e spento quel naturale, bellissimo sorriso, che trasmetteva e significava entusiasmo, passione di un ragazzo che accarezzava il sogno di un’Europa vera, senza confini e senza pregiudizi. (Alfredo Laurano)

DEDICATO A TE, AMICO MIO


Dopo tanto tempo di inattività presepiale, nel 2012, ho voluto realizzare questo piccolo presepio per dedicarlo al mio grande amico perduto un mese prima, ricordandone l'ironia che accompagnava il suo, sempre uguale, sempre approssimativo e sballato nelle sue distratte proporzioni: Giuseppe era la metà di Maria e alcune pecore più grandi dei pastori. Non parliamo delle piante e delle case, di ogni dimensione, stile e fattura.
Quel maledetto anno, non poté più farlo: se ne andò, senza il suo improbabile presepe, un mese e mezzo prima di Natale.

Lo canzonavo per quel suo improbabile allestimento, affettuosamente lo prendevo in giro dicendogli, ogni Natale che ostinatamente lo riproponeva, sempre uguale, che doveva decidersi a fare qualcosa di meno infantile, di più serio e più realistico, che doveva studiare la prospettiva, le misure, le proporzioni, gli elementi scenici in primo piano.
Si accendevano dispute sofistiche sui significati, sui valori e sull’arte presepiale.
La sua semplice rappresentazione, ripensandoci oggi, aveva tuttavia qualcosa di magico e surreale: l’autenticità, la freschezza, la genuinità, la spontaneità, l’innocenza dell’eterno bambino, che va oltre ogni gabbia razionale per inseguire la pura fantasia.
Infatti, come lui disinvoltamente diceva, a conclusione di ogni burlesco confronto, "ma che te frega, conta il simbolo, la tradizione!"
E, forse, aveva ragione.
Auguri Mimmo, in qualunque presepe ora tu sia!
Nel mio, ci sei sempre.
 (Alfredo)




giovedì 20 dicembre 2018

SCENOGRAFIA PRESEPIALE



Questo mio presepino, diciamo in scala "N", ha oltre 15 anni. 
L'ho recuperato nella vecchia cantina e l'ho risistemato e rincollato alla meno peggio. 
Non è tra i migliori che ho fatto negli anni, non ha le belle statuine di qualità che hanno gli altri e la prospettiva è un po' particolare: andrebbe visto girandogli intorno, "circumnavigandolo". 

L'allestimento scenografico prevede il villaggio in primo piano, con l'osteria e la stradina del mercato, degli artigiani e dei viandanti, la collinetta dietro, sul cui declino si trovano la capanna, i ripari dei pastori e il fiume, con i pescatori, la barca e le lavandaie.  Sul fiume affaccia un altro piccolo gruppo di case. Sulla cima rocciosa, la torre dominante e il piccolo
borgo antico arroccato. 
(Alfredo Laurano)