domenica 28 gennaio 2018

DAVANTI A QUEGLI OCCHI

E’ stata la giornata del pensiero, del pianto e della commozione, del ricordo e della conoscenza per chi sa, per chi sa poco o niente, o per chi non sa o non vuol sapere.
E’ stata la giornata che ricompone l’idea concreta di umanità, che le restituisce un senso, una dignità.
Il 27 gennaio del 1945 i soldati dell’Armata Rossa fecero il loro ingresso nel campo di concentramento di Auschwitz e liberarono i pochi prigionieri sopravvissuti, svelando al mondo l’atrocità e l’orrore della Shoah.
Dal 2000, cinque anni prima di quella internazionale deliberata dalla risoluzione Onu, l’Italia ha istituito, per legge, il 27 gennaio “Giorno della Memoria”, proprio per ricordare lo sterminio degli ebrei, le persecuzioni, le leggi razziali e la deportazione nei campi subita da milioni di persone (insieme agli ebrei, zingari, omosessuali, disabili, oppositori politici), nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti a quella infamia e, a rischio della propria, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. 
Il ricordo dell'orrore è tanto più sentito, quanto più passano gli anni e scompare la generazione dei sopravvissuti e dei testimoni della Shoah.
“Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo…Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, diceva Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz.  
E appunto per riconoscere gli errori del passato e per evitare di ripeterli è importante rievocare quella tragedia.
Tanti incontri, mostre, appuntamenti e manifestazioni, quindi, ieri, nel Giorno della Memoria, proprio per non dimenticare quella follia ideologica, culturale e storica, per confrontarsi insieme nei teatri, negli spazi culturali: dai film, alle letture, alle testimonianze, fino ai luoghi simbolo della memoria collettiva, alle biblioteche e ai musei diffusi nel territorio di tutto il Paese. In tutto il mondo vengono organizzati eventi, cerimonie e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione.

Toccante e struggente il docu-film di Walter Veltroni "Tutto davanti a questi occhi" - trasmesso in contemporanea nella stessa serata su Sky, Rai 3, Iris e LA7, (è la prima volta che accade) - che racconta la tragica storia di Sami Modiano, uno dei pochi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz Birkenau. Deportato da Rodi quando aveva solo quattordici anni con suo padre e sua sorella, tornò soltanto lui.
Un omaggio ad una persona i cui occhi, che ancora piangono, hanno visto troppo e dicono tutto. A una persona che, dopo aver visto familiari e amici uccisi in quell’inferno, dopo aver sofferto pene indicibili, ha riscoperto dopo anni la forza di parlare e di tornare in quei luoghi. Il coraggio di raccontare cosa fu quell’orrore, perché non torni più.
Lo stesso coraggio di tanti altri testimoni della Shoah, che hanno trovato in se stessi una forza incredibile, per superare quel dolore profondo e perfino “i sensi di colpa” per essere sopravvissuti ai propri genitori, ai propri fratelli e sorelle, parenti e amici che, caricati come bestie nei vagoni piombati, partirono dal Binario 21 di Milano o dalla Stazione Tiburtina di Roma. Senza più tornare.
Un racconto dalla straordinaria forza emotiva che contribuisce a sensibilizzare le nuove generazioni, perché solo attraverso la consapevolezza del passato si può leggere il presente e costruire il futuro.

Lo stesso Sami e il suo fraterno amico Piero Terracina, altro sopravvissuto conosciuto al campo, col quale ha condiviso lo stesso orrore, hanno avuto diversi incontri, a Roma, a Perugia, ad Aversa, con ragazzi e studenti, raccontando pezzi della loro vita e delle loro tribolazioni.
Hanno invitato non solo a non dimenticare, a custodire la memoria dell’Olocausto e degli orrori del nazifascismo del secolo scorso, ma hanno anche sottolineato quanto per il futuro siano preziosi i valori della democrazia, della libertà, della pace. E l’impegno contro ogni forma di sopraffazione, discriminazione, odio razziale e verso il diverso, nel rispetto della dignità umana.
In ogni momento, in ogni teatro, l’emozione, la partecipazione, l’empatia hanno colorato e bagnato quei volti giovani e quelli assai segnati dagli anziani testimoni.

Se una storia non viene raccontata, diventa una storia dimenticata, non lascia traccia. E’ come se non fosse mai accaduta: ce lo ricorda il bel film “La chiave di Sara”, messo in onda su La Sette, per concludere questo prezioso 27 gennaio.
A fare i conti con la verità, a far capire quanto ancora non sappiamo e a riempire i cuori di nuova speranza per il futuro, l’arrivo alla fine del film della novella Sarah, piccola figlia di Julia, conferma che, al contrario, “quando una storia viene raccontata, non può essere dimenticata. Diventa qualcos’altro: il ricordo di chi eravamo, la speranza di ciò che possiamo diventare”.
 28 gennaio 2018 (Alfredo Laurano)





sabato 27 gennaio 2018

I CARE, ANZI ME NE FREGO

Nei nostri ospedali, soprattutto nei prontosoccorso di grandi città, ci sono lunghe attese per esser visitati, mancano posti letto, i pazienti sono parcheggiati per giorni nei corridoi o sulle sedie, c’è poco personale medico e paramedico, mancano le barelle che, all’occorrenza, vengono prese dalle ambulanze in arrivo (e che, quindi, non possono ripartire).

Le prenotazioni alla Asl per una visita specialistica, per un esame, un’ecografia, una mammografia, prevedono tempi biblici da sei, sette mesi a un anno per una risonanza.
Questi lunghi tempi di attesa e il peso eccessivo del ticket - il cui costo a carico dei pazienti negli anni è fortemente cresciuto - porta i cittadini a considerare il privato come scelta alternative al Sistema sanitario.
Senza dimenticare i casi - documentati dalle segnalazioni arrivate al Tribunale del malato - delle liste d’attesa gonfiate o deliberatamente rallentate per indirizzare i cittadini proprio verso l’intramoenia, cioè verso le prestazioni che offrono i medici d’ospedale, al di fuori dell’orario di lavoro e a fronte del pagamento di un onorario da parte del paziente.

Ma, nel bene e nel male, fra pregi e difetti, sprechi e casi di malasanità, eccellenze e disservizi, una Sanità pubblica c’è, esiste per tutti ed è gratuita - grazie alle tante tasse che paghiamo - garantisce l’emergenza e l’assistenza, nonostante i tagli sciagurati, le chiusure inspiegabili di strutture importanti e le ciniche manovre di bilancio, previste da improvvide scelte politiche e finanziarie.
E tutto questo, nel nostro Paese, rappresenta ed esprime un indubitabile valore sociale.

Al contrario di quanto accade nello stato più ricco, più democratico e più libero del mondo, dove se non hai i mezzi, un’adeguata assicurazione sanitaria o una copiosa carta di credito non sei curato e assistito, vieni sbattuto fuori dalle strutture mediche e cacciato dagli ospedali.
Come dimostra il recentissimo caso, che ha commosso e indignato il web, di una giovane donna afroamericana abbandonata fuori dall'ospedale di Baltimora, con addosso solo il camice dei pazienti, i braccialetti ospedalieri ancora ai polsi e con ai piedi soltanto dei calzini.
Così è stata "dimessa" e lasciata alla fermata dell'autobus, in evidente stato confusionale, perchè non poteva pagare le cure. Fuori la temperatura era di un grado sotto zero.
"Ho visto l'impensabile: una donna spinta su una sedia a rotelle fuori dall'ospedale in questo freddo cane. Ho cercato di aiutarla, di soccorrerla." Così ha riepilogato la scena Imamu Baraka, che passava in quel momento, che ha notato la scena e iniziato a girare il video, poi pubblicato, nel quale chiede spiegazioni e aiuto al personale che lo ignora, si gira e rientra nell'ospedale con la carrozzina vuota.
Sono immagini incredibili che non possono non suscitare rabbia e l'indignazione.

A differenza dei paesi europei, dove la sanità è un diritto universale garantito per legge a tutti, a prescindere dal censo e dal reddito, negli USA tutto si fonda, sin dalle origini, su criteri di natura essenzialmente privatistica.
A parte i tentativi dell’Obamacare del 2010, che ha esteso diritti e incentivi fiscali a fasce di reddito più basse e che Donald Trump vuole eliminare o ridurre progressivamente come sussidi per i poveri, il cittadino può curarsi soltanto se ha i soldi sufficienti per far fronte ai costi dell'operazione, della visita o del ricovero.
Insomma, se non hai dollari, nella civilissima America, patria della democrazia vagheggiata, ma incompiuta, non puoi curarti e vieni sbattuto fuori a zero gradi.
26 gennaio 2018 (Alfredo Laurano)






Vedi: https://www.facebook.com/imamu.baraka/posts/1946306892050110?pnref=story

IL BAMBINO NEL VENTO

Da sempre la Storia ci racconta di stragi, guerre e violenze inaudite, ma lo sterminio nazista - rispetto a tutti gli altri spietati delitti perpetrati dalla belva umana -  è stato, resta e costituisce il peggior crimine consumato contro un intero popolo per cancellarlo dalla faccia della terra. E’ la più atroce infamia di cui si è macchiato l’uomo a livello individuale e collettivo, il più abominevole dei genocidi. 
Un’ ignominia che disonora e fa vergognare tutto il consorzio umano e che significa e rappresenta anche la deriva totale della ragione, la soppressione di qualunque sano sentimento e la negazione di ogni conquista di civiltà e di progresso: Il trionfo della barbarie e dell’oscurantismo sulla solidarietà e sull’uguaglianza.

Ancora oggi si assiste ad un allarmante rafforzamento di ideologie xenofobe e razziste, alimentate da ignoranza, violenza e malvagità che va combattuto con ogni mezzo e con salda determinazione. Occorre in tutti una rinnovata e costante presa di coscienza per non dimenticare, ora e sempre, l’abietta follia che generò l’Olocausto.
Il 27 gennaio, una data ricordata in tutto il mondo, proprio perché in quel giorno nel 1945, le truppe dell'Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, si celebra la Giornata della Memoria, in ricordo delle vittime della Shoah, e per essere, anche e soprattutto, un comune momento di riflessione, di lotta e di ammonimento.
Tanti hanno raccontato quell’orrore e quella inaudita malvagità.
Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, scrive la poesia Shemà (Ascolta!), quale preludio a “Se questo è un uomo”, pubblicato per la prima volta nel 1947, in cui descrive l’internamento e la prigionia nel campo di concentramento.
“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no…”.
Ma scrive anche: "L'Olocausto è una pagina del libro dell'Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria".

D'impatto anche due frasi dai campi di concentramento. La prima è incisa in trenta lingue su un monumento di Dachau: "Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo".
La seconda è apparsa su un muro di Auschwitz, scritta da un internato: "Se Dio esiste, dovrà chiedermi scusa".
Un altro superstite dell'Olocausto, Elie Wiesel, scrittore, saggista, filosofo, attivista per i diritti umani e vincitore del premio Nobel per la pace nel 1986, scriveva: "L'opposto dell'amore non è odio, è indifferenza. L'opposto dell'arte non è il brutto, è l'indifferenza. L'opposto della fede non è eresia, è indifferenza. E l'opposto della vita non è la morte, è l'indifferenza".

Anche Liliana Segre, da pochi giorni senatrice a vita, nel suo "Sopravvissuta ad Auschwitz" scrive:
"Lo racconto sempre ai ragazzi perchè devono sapere, e quando si passa in una stazione qualsiasi e si vedono i vitelli o i maiali portati al mattatoio, penso sempre che io sono stata uno di quei vitelli, uno di quei maiali".
"Vivevamo immersi nella zona grigia dell'indifferenza. L'ho sofferta, l'indifferenza. Li ho visti, quelli che voltavano la faccia dall'altra parte. Anche oggi ci sono persone che preferiscono non guardare".
"Più di 6000 ebrei italiani furono deportati ad Auschwitz. Siamo tornati in 363".
27 gennaio 2018 (Alfredo Laurano)

giovedì 25 gennaio 2018

LA STANGATA IN GONDOETA

A Venezia, 1.143 euro per quattro bistecche, una frittura di pesce e due calici di Amarone.
Il locale, l’Osteria Da Luca, vicino piazza San Marco, ha presentato questo conto a quattro studenti giapponesi, senza neanche emettere lo scontrino fiscale. I giovani hanno pagato con carta di credito e poi, una volta tornati a Bologna, loro città di studio, hanno denunciato tutto alle Fiamme Gialle. La "strisciata" della carta ha costituito la prova incontestabile del salasso lagunare, che sarebbe meglio definire truffa, al quale è seguita una multa altrettanto pesante, da 20 mila euro, ai gestori.
E’ sconcertante leggere, su vari siti, le recensioni, soprattutto di clienti stranieri, che raccontano le gesta e gli abusi di questo locale, definito dai più “immorale, indecente, truffaldino, da schifo, da evitare, trappola per turisti”. 
L’osteria è stata sanzionata dopo i controlli effettuati nel locale, gestito da una famiglia cinese (ci copiano pure questo!), dalla polizia locale, dai carabinieri del Nas e dagli ispettori dell’Asl. Non sono però state riscontrate irregolarità tali da portare alla chiusura del locale.
Le verifiche hanno riguardato anche la conservazione dei cibi, l’esposizione delle tabelle merceologiche, la regolarità della struttura rispetto alle norme sanitarie, le condizioni dei servizi destinati al pubblico e gli spazi usati dal personale che lavora nella trattoria.
Non è certo la prima volta che accadono queste estorsioni a “conto libero”, non solo a Venezia, ma in tutte le città d’arte, dove c’è sempre qualche furbetto che sfrutta sfacciatamente il suo mestiere di imbroglione nel settore della ristorazione.
Non sarebbe sanzionabile, infatti, un altro locale veneziano dal conto particolarmente salato, la Trattoria Casanova, che per due primi, un secondo e due bottiglie di acqua ha fatto pagare 315 euro ad altre tre studentesse giapponesi.
Ma ce l’hanno tutti con questi adoratori del sol levante che, per disperazione, dovrebbero mangiare solo sushi?

Intanto sulla vicenda hanno preso posizione anche le associazioni di categoria e quelle a difesa dei consumatori. A sostegno della qualità offerta dagli operatori e, come strumento utile per i clienti, L’Ascom propone di creare un marchio legato al codice etico, con il patrocinio comunale: una vetrofania da esporre nel proprio locale garantirebbe correttezza e qualità e farebbe sentire il turista tutelato.
Al contrario, il Codacons lancia invece l'idea di un bollino nero per segnalare chi si approfitta dei turisti: di fronte al ripetersi di casi analoghi, che a Venezia si ripresentano con una frequenza sconcertante, chi truffa o tenta di truffare i clienti deve essere immediatamente individuabile, attraverso l'obbligo di affissione di un apposito bollino sulle vetrine e agli ingressi di ristoranti e negozi.
Considerato il grave danno che la vicenda gastronomica dei quattro giovani giapponesi sta comportando all’immagine della città e alla sua capacità di accogliere chiunque desideri vivere a Venezia un’esperienza di arte e cultura, l'Associazione Venezia Albergatori ha deciso, comunque, di offrire un pernottamento di due notti in un hotel a 4 o 5 stelle ai giovani malcapitati.
Una sorta di tardivo risarcimento, di fronte all'ondata di indignazione che in pochi giorni ha raggiunto tutto il mondo e offeso il turismo, le gondole e tutti gli italiani. 
(Alfredo Laurano)

sabato 20 gennaio 2018

BENEDETTA MUSA, SACRA FOLLIA

Qual è la benedetta follia di Guglielmo, depresso e malinconico titolare di un impeccabile negozio d’arte sacra, abbandonato all'improvviso dalla moglie dopo venticinque anni?   Quella di Luna, giovane ed esuberante borgatara romana, con problemi economici e familiari, che irrompe in mini di pelle o short pants e zeppe da cubista nella sua routine quotidiana e si propone come nuova commessa, con tanto di “er curricula” e quattro parole di inglese masticato, in tutti i sensi?
O quella della botta di vita esagerata e sconvolgente - “basta, non voglio più solo esistere, ma vivere” - procurata da una pasticca di ecstasy, spacciata al poveretto come paracetamolo? 

Fin da subito, si delinea nel film una sorta di conflitto tra sacro e profano, tra materia e spiritualità, tra romanticismo e trasgressione dei sensi e della carne.
Dal cardinale paffuto e godereccio, che a ogni movimento strappa l’abito in prova, alla inappuntabile suora laica polacca, esperta e preparata, altra aspirante concorrente al posto.
Dalla seriosità di costei - quale antitesi evidente - al carattere della sfacciatissima coatta, animata da tanta buona volontà, ma incapace e poco adatta a lavorare in quel genere di negozio, tra musica celestiale, tabernacoli e madonne,  o a quello diametralmente opposto del rassegnato Guglielmo – contrapposto ai modi spicci e violenti degli ex “datori di lavoro” della stessa intraprendente Luna – che, a sua volta, lo travolge, lo ammalia e lo iscrive a un sito per incontri proibiti di single allo sbaraglio, per farlo uscire dal suo guscio di tristezza.
Grazie alle intuizioni della bella neo commessa, il Guglielmo ferito, abituato a pie frequentazioni di alti prelati, incontra vari personaggi femminili in appuntamenti al buio, più comici che erotici, più paradossali che bizzarri e stravaganti: l’alcolizzata disinibita e pratica; l’ipocondriaca logorroica che si districa fra desiderio, colesterolo e glicemia; la ninfomane lasciva alle prese con giochetti spinti di vibrazione al ristorante, che finisce in emergenza ginecologica: “Ma dove l'hai messo? - Nel posto più bello del mondo...! - Ridamme il telefono! - Non posso...”
Caricature e situazioni estreme e surreali, ma nemmeno tanto e non volgari, in linea con le ansie esistenziali e le scelte di tendenza, ma anche condizionate da contraddizioni, possibilità e limiti offerti dalla tecnologia (chat, app, cuori solitari on line, correttore di scrittura, vocabolario facilitato ecc.)
Inizialmente turbato e reticente, il confuso commerciante si rimette in gioco e si confronta allo specchio con un se stesso giovane, con la passione della moto e della musica, facendo emergere la figura di un sessantenne fragile e infelice, consapevole della sua età e condizione sociale, ma che cerca di reagire alla delusione di una moglie sedicente lesbica. 
Coincide e si sovrappone al Verdone d’oggi, maturo e disincantato, che dialoga con quello prima maniera, tutto fico, coatto e un sacco bello. E lo osserva con qualche rimpianto.
“Benedetta follia” comprende tutti gli elementi del suo stile, ormai noto e consacrato: alterna spunti, risate e trovate comiche a momenti di dolce malinconia e nostalgia. Come nella riflessione su quel tempo che "non tornerà mai più", sottolineata dalle stupende note de "La stagione dell'amore" di Battiato, o nei dialoghi riservati e timidi con l’infermiera Ornella. 

Tutta la trama, semplice e originale nello stesso tempo, non sempre, però, è supportata da una adeguata sceneggiatura, tanto da apparire un po’ forzata, disunita e, a tratti, approssimativa. Al contrario dell’eccellente, fluida interpretazione di tutto il cast, veramente “benedetta”. 
Le situazioni che si susseguono sembrano una serie di sketch slegati, quasi casuali, utili a creare occasioni e pretesti di naturale comicità.  
La narrazione, di conseguenza, ne soffre, resta piuttosto discontinua, a volte enfatica o esagerata nei tempi, come nella lunga sequenza dell’allucinazione lisergica e del ballo psichedelico, o nella caratterizzazione sotto tono di certi personaggi di contorno, poco credibili (il padre di Luna, i gestori della discoteca). Tempi, movimenti, battute, espressioni prendono tuttavia corpo e vivacità, grazie alla innegabile capacità di giocare, di far ridere e di prendersi in giro del poliedrico cineasta romano, pur nelle pieghe e nei dettagli di un tessuto frammentato e un po’ sconclusionato.
Vincente, in ogni caso, l’idea di esplorare ancora una volta l’universo femminile attraverso il forte contrasto fra due protagonisti, diversissimi fra di loro, che non recitano, ma si incontrano e simpatizzano empaticamente, tra artifici retorici esilaranti di sicuro effetto.  Fino al finale a sorpresa, imprevedibile e teatrale, quanto improbabile e favolistico, che nulla toglie o aggiunge all’economia narrativa del film, pur svelando quegli equivoci e quel certo pudore che costituiscono la cosiddetta vena “malin-comica” dell’autore.
(Alfredo Laurano)

giovedì 18 gennaio 2018

BRONX PARTENOPEO

Un mese fa Arturo, ieri riaffacciatosi a scuola, accompagnato dalla combattiva madre, dopo aver rischiato di non tornarci più per una trentina di coltellate.
Poi, due ragazzi aggrediti a Chiaia a inizio anno; quindi è stata la volta di Gaetano, pestato a Chiaiano, sabato scorso, davanti alla stazione della metro: in ospedale gli hanno asportato la milza.
La stessa sera, nella villa comunale di Pomigliano d’Arco, dieci micro-delinquenti, armati di catene, hanno circondato e malmenato due studenti di 14 anni per rubargli lo smartphone. E per finire, ma forse solo per ora, l'ultimo episodio ai danni di un altro minorenne, pestato e insultato davanti alla Metro Policlinico: gli hanno spaccato il naso.
Tutti vittime del branco, in una città avvilita da un'escalation di violenza che ha un'unica matrice, quella delle brutali baby gang alla ribalta.
Violenze gratuite, immotivate, quasi sempre fini a se stesse.
Le dimensioni del fenomeno stanno diventando preoccupanti.
Ogni giorno un’aggressione a Napoli, come in un nuovo Bronx, evoluzione degenerativa di Scampia, molto più che in altre città d’Italia, forse perché le famiglie di questi teppisti criminali sono spesso legate alla malavita.
Prima o poi, ci scapperà il morto e tutti, istituzioni e benpensanti, piangeranno e si strapperanno le vesti e il pudore. Per il momento, poco si fa e molto se ne parla sui giornali e alla TV, ma, più se ne racconta, più si creano miti, seguaci e spietati imitatori.

Come è possibile che delle bande di ragazzini guasti riescano a terrorizzare e tenere in scacco una città di un milione di abitanti, a imperversare in ogni luogo, a minacciare, massacrare e accoltellare tanti coetanei che non hanno fatto nulla, che passeggiano per i fatti loro?
Come è possibile che Vigili, Polizia e Carabinieri non riescano a prevenire e a mantenere l'ordine di fronte a selvaggi sbarbatelli, che si credono dei mini boss di quartiere?
Tanto marciume dev’essere cancellato.
Bisogna far intervenire l'esercito e introdurre il coprifuoco, come si fa in stato di emergenza? Dare ulteriori poteri ai militari in tutta Napoli, di setacciare la città, andare strada per strada, casa per casa, perquisire cantine e magazzini abusivi, fino a quando il ferino istinto di queste minibestie metropolitane non si plachi e non si arrenda allo Stato, nel trionfo nella vagheggiata legalità?
Atteso e compreso che i rischi ed i pericoli peggiori non vengono dagli stranieri, come molti vogliono far credere, per biechi motivi strumentali e di consenso, ma dalla feroce violenza nostrana - "prodotto tipico" di una certa Italia, peraltro esportato con successo in tutto il mondo - questa cosiddetta delinquenza minorile deve ormai avere una priorità nell'investigazione. Ma non basta la repressione, serve la reazione di tutta la collettività, nella direzione del Diritto, come invoca giustamente la madre di Arturo: la condanna, anche popolare, pesante o leggera che sia, deve essere esemplare. E il deterrente non è la pena, ma la sua certezza!

In questa Napoli squalificata e surreale, è forse tutta colpa di Gomorra, la cui finzione cinematografica ha reso "eroi" dei criminali che, nella narrazione filmica suscitano ammirazione, emulazione, comprensione e anche compassione? Tanti giovani si vestono, si pettinano e si apparecchiano come certi personaggi leggendari, alla moda simil-gomorresca.
Napoli è espressione di storia, cultura, arte e natura. E’ sinonimo di musica, teatro e buona cucina. Napoli è la fantasia al potere, conosciuta e amata in tutto il mondo con le sue bellezze, stravaganze e contraddizioni che la rendono unica. 
Napoli è la città del sole e del mare, non può e non deve essere solo quella della Camorra e dei suoi sporchi derivati.
17 gennaio 2018 (Alfredo Laurano)

martedì 16 gennaio 2018

FATTI, RIFATTI E STRAFATTI

Dopo averci fatto conoscere, tre mesi fa, nel suo domenicale spazzatura live, il “Ken umano” - tale Rodrigo Alves, trentatreenne umanoide inglese, completamente rifatto dalla testa ai piedi, che si è sottoposto a 58 interventi chirurgici (addominoplastica, rinoplastica, lifting facciale, protesi liposuzioni in ogni parte del corpo, dalle mandibole alle gambe), e Pixee Fox, la corrispettiva demente al femminile, che si è fatta togliere qualche chilo di costole superflue per avere un vitino di 35 centimetri e somigliare alla bambola Barbie, stavolta, donna Carmela (Barbara) D’Urso ha deciso di esibire, oltre a se stessa, sempre vestita da adolescente, altri robot dalle sembianze quasi umane.

Come disgustoso antipasto, però, anche per somministrare la dovuta dose di suspense, la mistress del trash televisivo ha deliziato il suo pubblico, la sua “ggente”, i suoi umiliati schiavi - votati per consapevole mortificazione alla sua perversa adorazione - con altri personaggetti di più scarso mediatico rilievo.
Su un piatto altrettanto squallido e indecente, tra galletti, galline e cornacchie, in veste di improbabili  opinionisti da macelleria culturale, ha servito in bellavista un roco e patetico Raffaello (Tonon), altro liposcolpito ad addome e fianchi (quattro interventi di chirurgia plastica, uno dei quali in diretta TV), riesumato dagli sgabuzzini dove si fanno scorte dei materassi che il medesimo pubblicizza, e un altro carneade di nome Emanuele (chi era costui?), magnificato quale illustre figlio, altrettanto plasticamente trattato, della stramatura e giunonica Serena Grandi, decadente sogno erotico italiano degli anni ottanta.

Poi, introdotti, come d’uso, da orripilanti video, comicamente drammatici e incalzanti nel montaggio e nei crescendo musicali alla “Carmina Burana” di Orff o all’Uccello di Fuoco di Stravinsky, sono comparsi i due veri super ospiti del luminosissimo firmamento.
Prima, si è concretizzato il bambolo nostrano, il Ken alla civitavecchiese che si chiama Angelo Sanzio, ha 28 anni e le labbra canottate, più grosse e gonfie di quelle della Parietti.
Maschio, femmina, gay, trans?
Non si sa, non si capisce: può essere un po’ di tutto o un po’ di più.
Si è sottoposto a diversi interventi chirurgici "per inseguire la perfezione": si è rifatto gli zigomi, il naso, la bocca e un trapianto ai capelli ed il suo prossimo appuntamento col bisturi sarà per rassodare le chiappe un po’ consunte o fatiscenti.
Vive e vegeta tra scrub, peeling ed esfoliazione dell'epidermide, per ottenere una “pelle da bambola”, burro di cacao lievemente urticante per gonfiarsi il muso e massaggi due o tre volte a settimane.
Una vera e propria ossessione per assomigliare al suo beniamino britannico suddetto, che ha speso oltre 500 mila sterline per diventare il pupazzetto, marito di Barbie.
Ma lavora, si guadagna il pane, butta il sangue in qualche modo, oltre a quello sul tavolo operatorio?
Forse lo mantiene la sfortunata e rassegnata madre che, come afferma l’effeminato prototipo porcellanizzato - sedicente inventore di profumi - “non mi ha mai fatto mancare nulla, ma, per una persona esteta e sensibile come me, i dolori del cuore non sono mancati”.
In questa sibillina confessione, prendiamone atto, sta tutta l’origine della sua, diciamo, stravaganza.
 
Nella bottega delle ciance perdute e dei neuroni appassiti è quindi apparsa “Tanta roba”, una montagna incantata di raccapriccianti forme, innaturali e finte, che ha sconvolto pubblico e maestranze.
Come una boa galleggiante, extra, extra large, Allegra Cole, americana di Salt Lake City di 48 anni, mamma di otto figli, ex insegnante di pianoforte, si è fatta edificare un seno davvero gigante, “da paura”: 10°misura, 137 centimetri di circonferenza, 11 chilogrammi di peso, tre operazioni e 75mila sterline spese per l’investimento plastico.
A motivarla, l’insopportabile fastidio per il marito che si voltava per strada a guardare le generose scollatura di altre donne.
“Ma non è silicone - spiega, al colto e all’inclita, la Allegra (beata lei) super maggiorata - ma soluzione fisiologica iniettata, periodicamente, all’interno del mio seno, da una sorta di espansore messo in sede pettorale, sotto muscolare, con una piccola valvola a farfalla”. Praticamente, la gonfiano con la pompa, come un canotto o una camera d’aria.
Tutto questo per amore del più giovane coniuge, per il quale si è rifatto pure lo spropositato culo (evidentemente, nelle altre, scandagliava pure quello), in sintonia bilanciata con la smisurata balconata. Anche se le resta assai difficile mangiare e non può allacciarsi le scarpe o raccogliere un oggetto.
Il trionfo dell’abbondanza, dell’opulenza che, in questi casi, fa tanta carestia.

Altre vite inutili e sprecate che, nell’equilibrato patrimonio naturale, non svolgono alcuna funzione, se non quella di sottrarre spazio, risorse e ossigeno agli altri esseri viventi, e che offendono tutti quelli che il male lo patiscono davvero nella sofferenza e lo combattono, per motivi ben più seri, sugli stessi tavoli operatori.
Fenomeni da baraccone da compatire, miserabili modelli culturali, fondati sull’imbecillità e scolpiti nella vacuità, che la discarica mefitica e mediatica diffonde ogni giorno, come ignobili esempi di stranezza, bizzarria ed eccentricità.
Roba da criminali seriali della società e dell’educazione.Vacciniamoci.
 (Alfredo Laurano)


domenica 14 gennaio 2018

E LA CHIAMIAMO CRONACA

L’ho scritto tante volte, troppe volte, inutilmente. Quasi per sfogo o per sedimentata rabbia, lo ripetevo anche un anno fa, insieme a tanti altri: ma non serve, non basta, non cambia, nulla appaga la speranza. Si scopre sempre qualcosa più incredibile dell’incredibile, dell’assurdo, dell’impossibile.
Non so se questo nostro mondo avariato e degradato sia, in effetti, più pazzo o più cattivo. Più inconcepibile, più comico o grottesco, più crudele o stravagante.
Se ciò che accade e ci circonda, oltre ogni possibile perché, abbia un senso o una ragione superiore, metafisica e trascendente, che sfugge alle nostre capacità di analisi e di razionale comprensione. 
Nonostante la scienza, le scoperte, la presunta civiltà, il controllo della natura e la parcellizzazione dell’atomo, del sapere e della coscienza, siamo vittime di un beffardo maleficio, di una nemesi fatale che ci fa scontare il privilegio dell’essere, senza peraltro averlo scelto.
A dispetto della lunga evoluzione e della più raffinata tecnologia, siamo diventati, progressivamente, ostaggio dell’imponderabile, dell’imprevedibile, dell’impensabile. Di categorie astratte e immateriali che si fanno realtà concreta, oggettiva e quotidiana: quanto di più distopico e indesiderabile si possa immaginare.
Poco, o quasi niente, riusciamo a spiegare. Quasi più nulla ci sorprende e quasi tutto ci ha cucito addosso un abito corazzato e impermeabile di estraneità, di egoismo e indifferenza.
Abbiamo perso perfino lo stupore! Dei numeri, dei clown, degli acrobati e delle snodate ballerine del grande circo umano delle meraviglie.

Poi, fra un attentato e l’altro, tra un’autobomba in un mercato e una sparatoria in aeroporto, tra un incidente aereo e un barcone affondato di migranti, si consumano, come sempre, come ogni giorno, come ogni ora, tanti drammi e tragedie nel privato, nelle strade, in ogni dove o nelle case di chiunque. E la chiamiamo cronaca.
Sono quei fatti di famiglie, di persone e cittadini, che nello stesso momento in cui avvengono, per apparente caso, perdono subito il connotato umano e diventano solo news, notizie, trafiletti di giornale o breaking news. Sempre uguali, sempre le stesse, ricorrenti e ripetitive. 
Basta sfogliare un giornale o un TG di un mese o un anno prima, per trovare in fotocopia gli stessi accadimenti di quel giorno, con altri nomi, altri luoghi, altri individui. 
C’è una costante di violenza, di pazzia, di patologico e abominevole, di vizio e imbecillità, che si ripete a oltranza, in loop, del tutto endemica al genere umano. 
Risse, spaccio, vandalismi, omicidi, crimini vari e baby gang che accoltellano ragazzi per capriccio: c’è qualcuno che ruba pure le coperte e qualche spiccio a un clochard, o il suo cagnetto denutrito e disperato, quando non gli dà fuoco per gioco, per divertimento e per scaldarsi un po’. O gli estorce dieci euro per un posto all’aperto, su un cartone: è il nuovo racket sul mestiere di barbone.
Può bastare o vado avanti? 
Il resoconto continua e non s’arresta mai. Si aggiorna, in automatico, come al televideo o nelle agenzie di stampa.


“Paola poteva essere salvata, la sua morte è una nostra sconfitta”: ha detto Federica Sciarelli durante l’ultima puntata di “Chi l’ha Visto?”, del 10 gennaio 2018. 
La storia è quella di Paola Manchisi, una ragazza di 31 anni trovata morta nella sua abitazione, in mezzo a sporcizia, insetti, cibo avariato, immondizia ed escrementi di topi, a Polignano (Bari). Non usciva di casa da 14 anni.
Aveva frequentato il Liceo fino a 17 anni, poi, all’inizio del quinto anno, decise di interrompere gli studi. Una decisione che lasciò perplessi gli amici. Una sua compagna di classe cominciò subito a cercarla, ma ogni volta che telefonava, citofonava o cercava di mettersi in contatto con lei, i genitori le dicevano che in quel momento non era disponibile, adducendo varie scuse. 
L’estate scorsa, l’amica, che da tempo si era trasferita in altro luogo, aveva segnalato la sua scomparsa alla trasmissione televisiva e l’inviato aveva accertato, raccogliendo le testimonianze dei vicini di casa, che la ragazza era reclusa in casa, isolata dal resto del mondo, che non usciva mai e spesso urlava, mentre il fratello conduceva una vita normale. 
A nulla era servito l’intervento degli assistenti sociali e dei carabinieri.

La mamma, intercettata e intervistata, aveva ribadito con fastidio che era una sua scelta, che tutto andava bene, che non c’erano problemi, ma solo chiacchiere.
Paola è morta sabato sei gennaio, pesava meno di trenta chili. L’autopsia ha accertato le condizioni di grave denutrizione e debilitazione del corpo della ragazza. La famiglia si sarebbe rifiutata per anni di ottenere assistenza dai servizi sociali. 
Non è dato sapere come e perché questa povera ragazza, che studiava normalmente, che svolgeva una vita normale e frequentava amici, si sia ridotta in quelle condizioni disumane.
Né perché le istituzioni abbiano lasciato fare, perché non siano intervenute con fermezza, perché non abbiano sfondato quella porta dietro la quale si consumava e si spegneva una giovane vita umana. Perché non abbiano sottratto la vittima a quei genitori, inetti, incoscienti o “distratti”, solo ora indagati per abbandono di incapace, aggravato dalla morte.
Dobbiamo infine chiederci perché sempre più spesso debbano essere le trasmissioni televisive, pur lodevoli e socialmente utili, a sostituirsi, responsabilmente, ma con evidenti limiti di legge e di mezzi, ai compiti precisi delle strutture dello stato e dei preposti enti.
12 gennaio 2017 (Alfredo Laurano)







martedì 9 gennaio 2018

LA DISFIDA DEL SACCHETTO

Si sta diffondendo la rivolta del sacchetto: dall' inizio dell'anno, appena cominciato, le bustine biodegradabili per frutta e verdura, nei supermercati, si pagano due-quattro centesimi l’una, per ogni singolo prodotto a peso. E ciò per molti è intollerabile, al di là di ogni possibile considerazione ambientale.
Fino a ieri i centesimi non valevano nulla, anzi si proponeva di toglierli dalla circolazione: c’è chi non si è mai chinato per raccoglierli da terra. Oggi invece è diventata una questione nazionale.
Già ci fanno pagare le buste della spesa generale, col marchio del rivenditore, ben 15 centesimi (e questa è sacrosanta osservazione), ora pure queste per mele, pere e insalatina! – dicono i consumatori “incavolati”, tanto per restare nell’agro-alimentare.
Ma, facendo due semplici conti e grande spesa tutti i mesi e ogni settimana, i sacchetti bio a pagamento costeranno agli italiani, al massimo, una quindicina di euro all’anno.
Eppure, la novità sta suscitando nei cittadini grande indignazione, un po’ voluta, un po’ montata, un po’ insensata, un po’ di circostanza. Cresce una polemica umorale e parolaia fatta di commenti, slogan, battute e accuse fantasmagoriche, che si rincorrono sul web. Anche se nessuno rinuncia ai propri vizi, alle mode, al gioco, agli ultimi, costosissimi gadget tecnologici. Lì non si risparmia, non si critica, non ci si ribella, non si grida “al ladro, al ladro”.
Ma qualcuno si è accorto che dalla stessa data sono scattati, silenziosamente, una serie di aumenti di ben altra portata?
Gas e luce sono rincarati di oltre il 5% e i pedaggi autostradali del 2,7%, a cui seguiranno, pare, anche aumenti su acqua, metano, RC auto, Tari, tariffe professionali e ticket sanitari.
Quella sulla “tassa” sui sacchetti è, quindi, solo una scaramuccia social per rivoluzionari stanchi da tastiera, un elemento di distrazione di massa, l’esempio più populista e canzonatorio che, come la punta dell’iceberg, distoglie l’attenzione e non fa emergere la serie dei veri costi che incideranno sul budget delle famiglie italiane.
È da una settimana che si grida allo scandalo e che si suggeriscono soluzioni cervellotiche per non pagare quegli impopolari sacchetti della discordia: boicottiamo i supermercati, etichettiamo con peso e prezzo ogni zucchina, ogni patata, ogni acino di uva, torniamo dal fruttarolo contadino o di mercato.
Ma, soprattutto, mettiamo da parte quei due decisivissimi centesimi per il prossimo IPhone da 1.300 euro.
8 gennaio 2017 (Alfredo Laurano)