lunedì 27 febbraio 2017

PRIGIONIERO NELL'INFERNO DEL DOLORE

Quando si parla di dolore e sofferenza, che non vivi direttamente sulla tua propria pelle, una profonda commozione ti prende dentro e da vicino e ti impedisce di capire a fondo quel desiderio di farla finita, di arrendersi al maligno nemico, di chiedere aiuto per lasciare una vita che ormai è solo inferno. Un po’ come accade per il bene, o con lo stato di felicità e di gioia, che non puoi conoscere se non lo provi o non sai cos’è.
E’ sempre difficile trovare una serenità di giudizio e la giusta condizione dello spirito per esprimersi sull’eutanasia e sul diritto a scegliere di vivere o morire e, soprattutto, assumere una posizione convinta e definita, del tutto laica e non condizionata da parametri sociali, valutazioni ideologiche, morali o religiose. E che, comunque, per non essere obbligo o privilegio, o qualcosa di illegale e clandestino, deve essere regolamentata dalla legge.

Morire come necessità, come scelta libera e consapevole, sembra innaturale.
Come si fa a riflettere con asettica razionalità, senza alcun coinvolgimento emotivo e sentimentale, su un tema così grande, così intimo, così delicato e personale, che sembra assai lontano e avulso da quello della semplice quotidianità che definiamo normale?
Ti assale l’ansia e l’inquietudine, un nodo in gola ti blocca le funzioni logiche e la coscienza si tormenta, trovandosi senz’armi a combattere, con impossibile obiettività, contro i misteri del mondo e dell’esistenza.

Fabiano, detto Fabo, aveva appena compiuto 40 anni, era cieco e tetraplegico e desiderava porre fine a una vita che non aveva scelto, "immobilizzato in una lunga notte senza fine", in seguito a un grave incidente stradale. Prima, era un giovane come tanti, pieno di vita, di gioia e di passioni e faceva musica.
Dopo anni di inutili terapie, aveva chiesto che le Istituzioni intervenissero per regolamentare l'eutanasia e permettere a ciascun individuo di essere libero di scegliere fino alla fine.
Era lucido e cosciente che non vi fossero possibilità di guarigione.
Una situazione terribile per una persona con un cervello sanissimo in un guscio vuoto, che non ha più un'autonomia, attaccato a una macchina per respirare e a un ventilatore per poter appena parlare, anche con qualche accenno d’ironia. Ma che non poteva nemmeno grattarsi il mento o un centimetro di pelle.
Quando la malattia ti consuma e offende nel corpo, ti umilia anche nella tua dignità di persona e l’anima rimane mutilata e spenta.
Un’agonia senza fine che “viveva” nella consapevolezza di essere un peso intollerabile per chi gli stava accanto e ostaggio di un corpo immobile che era diventato "una prigione infame", da cui, da poche ore, è evaso.
Ora, il suo inferno è finito, sia pure in un luogo diverso dalla sua casa e dal suo Paese, ma in grado di dargli un’ultima, consapevole possibilità di scelta.

Qual è il significato della parola vita?
In verità non lo sappiamo, ma per convenzione diciamo che è uguale a esistere, amare, mangiare, volere, fare, lavorare, scegliere, decidere. Pensiamo di essere padroni di noi stessi, del nostro corpo e del nostro destino, di nutrire speranze e desideri e non solo dolore e disperazione.
Ma era vita quella di Eluana Englaro, rimasta in stato vegetale per diciassette anni, o quella di Welby a lungo attaccato a un respiratore e finalmente aiutato a morire dal suo medico che dice: "non fu eutanasia, solo desistenza terapeutica"?
Può esistere il diritto di rifiutare le cure, l’accanimento terapeutico e di lasciarsi morire, considerando quella in cui ci si trova una situazione di non vita, al di qua della soglia biologica e svuotata di ogni valore o significato?
O bisogna scegliere la solitudine e la violenza di chi, come Lizzani o Monicelli, si è ritrovato costretto a gettarsi nel vuoto da un balcone o come Lucio Magri, andato anche lui in Svizzera con le sue gambe a farsi suicidare a pagamento?

A queste domande non so rispondere, non ho la presunzione di avere una certezza, tantomeno ideologica, ma solo la speranza di non dover essere mai costretto a farlo.
27 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)

Forse per l'eutanasia si ripeterà quanto già avvenuto con l'aborto. 
Sarà legalizzata anche in Italia per evitare che chi può possa andare a morire in modo umano all'estero, dove non c’è il divieto della Chiesa.


domenica 26 febbraio 2017

A SINISTRA CHE CI MANCA

Consumato l’ennesimo strappo, è ufficialmente nata un’altra isola nell’arcipelago della Sinistra di questo Paese.
Si chiama "Articolo 1 - Movimento democratici e progressisti" la nuova formazione politica lanciata da Roberto Speranza ed Enrico Rossi, finalmente fuorusciti dal PD, insieme a Bersani, D’Alema, Errani ed altri. Con loro, anche Arturo Scotto, in rotta con i programmi di Sinistra Italiana.
“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” è il tratto identitario più bello della nostra comunità. Noi siamo questo e questo è il nostro simbolo, il nostro progetto per l’Italia. Le parole straordinarie dell’art.1 della Costituzione sono ancora una incompiuta. Il nostro primo punto nell'agenda di governo - ha detto Speranza - è dare risposta a questo dramma sociale. I giovani innanzitutto. Oggi non nasce un nuovo partito, ma un percorso, un movimento, libero da smanie autoreferenziali, che vuole unire e ragionare in modo inclusivo”.

Certamente lodevoli queste buone intenzioni, ma non dimentichiamo che, a sinistra del partito ormai rimasto del tutto in mano a Renzi - con l’eccezione del volubile Emiliano, del palloso Orlando e del pontiere mediatore Cuperlo, a far da utili guastafeste, ma senza speranze - già esistono Sinistra Italiana, fresca di congresso costitutivo, le ceneri di Rifondazione Comunista, il Campo Progressista di Pisapia, Possibile di Civati, i Cofferati, i Landini, i De Magistris, Comunisti italiani vari.

Perché gli scissionisti non sono confluiti in una formazione già esistente, per accrescerne la consistenza politica e sociale?
Dove andrà questo nuovo movimento dal nome così vago, scarsamente evocativo e così poco identitario che, peraltro, sembra già depositato da una corrente proprio renziana?
Dove si collocherà, sarà veramente inclusivo, coltiverà il progetto di una grande forza unitaria e popolare? Vorrà davvero resuscitare la Sinistra che ci manca?
Sarà in grado di federare quelle tante isolette irrilevanti, ad oggi prive di rappresentatività? O, per motivi elettorali, finirà per appoggiare proprio il PD dell’odiato Renzi?
Per ossequio alla coerenza, sarebbe demenziale sostenerlo dall’esterno, dopo esservi usciti, forse con ritardo, ma con coraggio e determinazione.
26 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)



DINAMICHE DI GRUPPO

Tra i tanti fenomeni che, negli ultimi anni, i Social hanno creato e, a volte, esageratamente scatenato, ci sono certamente i Gruppi, aperti o chiusi, di ogni genere e materia, formati da appassionati o sostenitori, uniti dallo stesso comune interesse o per lo stesso scopo.
Come, peraltro, le Confraternite, le Accademie e i Blog personali, più o meno di settore o specializzati in temi: arte, filosofia, storia, poesia, musica, pittura, informazione, critica, cinema, collezioni, cucina e baccalà.
Sono i nuovi circoli virtuali che ricordano quelli reali di una volta, letterari, artistici, politici o ricreativi, dove si passava il tempo discutendo di idee, di fatti e di programmi o, semplicemente, giocando a carte, fumando sigari o prendendo un the.

A volte, in alcuni, di questi Gruppi pubblici vi si leggono commenti e vivaci scambi di pensiero, intelligenti, colorite e anche interessanti note, velate di ironia, di stima, di affetto e di razionale concretezza.
In altri, che spesso travalicano il loro ruolo sociale, non si può fare a meno di cogliere, con crescente stupore, per non dire orrore, dialoghi e confronti al limite dell’insulto, della prepotenza, del settarismo. Soprattutto in quelli che, nati per promuovere solidarietà e vicinanza a chi è colpito da una tragedia e per chiedere giustizia e verità, finiscono per essere un manipolo di attacco alla magistratura, lenta, iniqua ed incapace.
La loro intransigenza è carica di responsabilità, non solo morali, nei confronti di vittime e familiari, da indurre forme di odio, di rappresaglia e di vendetta, come, di recente, è accaduto a Vasto.

In certi grotteschi casi, nella spirale di imprevedibili dinamiche, si scoprono surreali e a volte comici interventi di chi, in apparenza, è prodigo di buone parole, di consigli mai richiesti, di veleni, derisioni e accuse a mezza bocca, di goffe insinuazioni e avvertimenti un po’ mafiosi… “perché ti voglio bene”, “un giorno ti dirò”, “occhio, il nemico ti ascolta!”
Quelle comunità, già animate dalle migliori intenzioni, che predicavano valori e buoni sentimenti, diventano, via via, sempre più simili a inedite sette ideologiche, farcite di seguaci faziosi e intransigenti, al cui credo, universale e dominante, tutti si devono allineare e non dissentire mai, se non vogliono essere cacciati. Bande insensate, inflessibili comitati di pseudo potere marginale, dove regnano omologazione, sfacciata ignoranza e fanatismo, fino al rischio inconsapevole di pericoloso integralismo, di tipo religioso.

In quelle pagine, col tempo, si avverte chiaramente la mancanza di proposte illuminanti.
Si coglie la difficoltà di andare avanti, il ristagno di stimoli e di argomenti nuovi e originali, l’obbligo morale di scrivere, a tutti i costi e ogni giorno, una cazzata inutile e melensa, pur di testimoniare un ruolo attivo o una presenza.
Questa forma di stanchezza, di fatto, accresce la tensione interna, accende il malanimo e l’animosità e provoca invidia e rivalità.
Quando proprio non si riesce a partorire niente, arriva un ficcante buongiorno o una rinfrancante buonanotte a tutto il gruppo, ai genitori, parenti e a quanti di passaggio, con tanto di cuoricini intermittenti al seguito. Così, tanto per farsi un po’ notare!

Fra tanta noia e banalità, comunque, si persevera in un logorante esercizio retorico fatto di frasi e citazioni scontate ed abusate, di slogan e pensierini sempre uguali, catturati alla fiera dell’ovvietà, di cuori palpitanti, di fiori, mari, tramonti, effetti lampeggianti di tipo natalizio. Senza dimenticare cristi e madonne piangenti d’ogni tipo e nazionalità, padri pii esausti e intere colonie di angeli sognanti, mani protese o chiuse in intima preghiera.
Tante pallide icone pret a porter, di rapido consumo e fatte in casa, ma poco vicine alla sacralità e all’intima religiosità di ciascuno.
Un caleidoscopio intriso di forte emotività e di partecipazione a un ideale immaginario collettivo, condito e garantito da un marchio d’autore e qualità, in cui ci si identifica: “io sono…”, seguito dal nome della vittima. Una specie di parola d’ordine che ogni brava sentinella di quella rigida caserma deve pronunciare, per fedeltà e per non essere sparata o consegnata in branda.

Poi, per proseguire nei sentieri dell’autentico delirio, tra i cunicoli sotterranei dell’ossessione psicopatologica, c’è pure chi si inventa strani e inconcepibili vuoti esistenziali e animistiche presenze: “non ci sei, il tuo corpo non è con noi ma la tua anima scorre nei nostri cuori…sei pura energia, non è solo il tuo sorriso o il tuo sguardo ...c'è qualcosa, di straordinario, non tangibile... si sente la tua presenza e la tua assenza... sei sempre ovunque e sprigioni solo positività…mi manchi quando cammino, quando dipingo, quando dormo e quando faccio merendina…”
Manco ci fosse (stato) un rapporto familiare, d’amicizia, di frequentazione o di reale conoscenza con la vittima lì onorata e con amore ricordata.
Nemmeno i noti sensitivi Rosemary Altea o Craig Warwick, che vedono e trattano con angeli e defunti, speculando sulle disgrazie altrui, potrebbero fare o dire meglio!
Siamo entrati incautamente nel pittoresco mondo del paranormale, della metafisica umorale dei bisogni e delle pene, all’interno di un pianeta primitivo e alieno, dove la cultura medianica di fenomeni e misteri, appare più incredibile e patetica, che folclorica e ridicola.

Esiste, in realtà, un modo diverso, più efficace, più sano e più giusto per esprimere solidarietà: essere solidali significa partecipare, essere sensibili e altruisti, disposti ad assistere e ad aiutare gli altri in difficoltà, superando paure, egoismo e indifferenza, senza chiedere o aspettarsi nulla in cambio.
E’ un valore antico e senza tempo, un rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno che collega gli uomini, consapevoli di appartenere alla stessa società e di avere obiettivi comuni, con dignità, ma senza manie di protagonismo.
Come fanno, per esempio, i volontari, sempre pronti al sacrificio e all’emergenza.

25 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)

sabato 25 febbraio 2017

Stadio e bucatini

Per fare il sindaco, come per far l’attore, ci vuole innanzitutto il fisico, tanta salute e resistenza, molto coraggio e una buona faccia tosta. Poi, anche qualche capacità non guasta.
Virginia, l’accordo per lo stadio è andato in porto, ora riguardati e fatte un po’ di bucatini, prima di diventà del tutto trasparente! 

LA CAPRA GIARDINIERA

Potrebbe essere il titolo di una bella fiaba per bambini, invece è una reale storia per adulti siciliani.
Da circa un anno, nel poco celebre comune di Aliminusa, un piccolo borgo di mille e un po’ d’anime sulle Madonie, nel Palermitano, c’è una capra di nome Caterina che lavora come giardiniera. E’ instancabile e puntuale, adora il suo mestiere, non timbra cartellini, non va in ferie e non pretende straordinari, assicurazione e contributi.
Con buona pace del vanesio Sgarbi, notoriamente odiato da tutta la categoria, la solerte Caterina è una capra dello zoo contadino di Aliminusa che taglia (bruca) l’erba in tutti gli spazi verdi comunali - parchi, giardini, siepi e cigli stradali - e quando è in difficoltà si fa aiutare da una quindicina di pecore, anch’esse dello stesso zoo.
Savini, alla notizia, dirà che rubano il lavoro agli italiani, come già fanno extracomunitari e clandestini.

In ogni caso, la capretta giardiniera, che clandestina non è, perché ha il permesso di soggiorno a vita e quello di brucare a piacimento, è incoraggiata e sostenuta dal sindaco del paese madonita che, grazie a quella dipendente quadrupede, risparmia cinquemila euro all’anno.
“Abbiamo la capacità di utilizzare al meglio quanto di buono la tradizione contadina di questa terra ci ha lasciato'', commenta con un certo orgoglio.
A guidare capra e pecore è un operatore ecologico, dipendente del Comune. Lui spazza l’asfalto, loro puliscono i prati e il risultato è che non ci sono erbacce, spazi incolti e degradati e qualche euro in più nelle casse comunali.
Una trovata singolare che all'inizio ha creato polemiche e battaglie politiche in consiglio da parte dell’opposizione ma, di fronte al risparmio di denaro pubblico e alla qualità del lavoro, la minoranza ha accettato l’atipica assunzione.
(Alfredo Laurano)


MIGRANTS: GLI INVISIBILI

Sono i migranti i protagonisti delle opere fotografiche di Liù Bolìn, l’artista cinese che da oggi e fino al 17 marzo, espone il suo progetto Migrants a Palermo per il cartellone di BAM (Biennale Arcipelago Mediterraneo).
Che sia il color creta delle spiagge dove approdano naufraghi, quello dei barconi su cui fuggono dall’Africa o il pantone blu della bandiera dell’Unione Europea, i loro corpi, preventivamente dipinti, sembrano fantasmi che affiorano all’improvviso dalle inquadrature. Corpi mimetizzati, invisibili camaleonti che rappresentano la relazione evanescente tra la vita e la morte.

Le fotografie, scattate a Mineo, raccontano proprio questa invisibilità ed evocano gli scenari delle tante tragedie del mare che accomunano uomini, donne e bambini di diversi Paesi, religioni, etnie, tutti mimetizzati con lo stesso sfondo monocromo e uniti nella stessa speranza di futuro.
 24 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)




giovedì 23 febbraio 2017

CIAO DITTA!

Mentre il partito si dilania e si consuma, tra accuse, faide, pianti, traumi e mediazioni, in un decorso ormai segnato da scissioni o fuorusciti, Matteo Renzi, ex segretario, imbottito di massicce dosi di egoismo e irresponsabilità, invece, non partecipa all'assise e se ne va negli Usa, “per imparare da chi è più bravo come creare occupazione, lavoro, crescita nel mondo che cambia, nel mondo del digitale, nel mondo dell'innovazione". Di date, congresso, primarie ed elezioni non gliene frega niente, lui è già in campagna elettorale.

Intanto, mentre Bersani, D’Alema, Rossi e Speranza hanno anch’essi le valigie in mano, lo “zio” Michele Emiliano, si scinde da se stesso, ci ripensa, rimane in ditta e si candida a Segretario, contro la posizione dominante del premier dimissionario.
Ma prima di imbarcarsi sul volo, il rottamatore che voleva traghettare il Pd oltre le secche dell’ideologia - ma dice di essere di sinistra, anche se non canta “Bandiera rossa”: “ancora, nessuno ha il copyright della parola sinistra” - cerca di compattare i suoi e attacca nella sua pagina di e-news la minoranza interna del suo partito: “ha diritto di sconfiggermi, non di eliminarmi. Se è vero che la parola scissione è una delle più brutte del vocabolario politico, ancora più brutta è la parola ricatto".

Ma sta di fatto che la Sinistra deve essere ripensata, rifondata e ricostituita e che lui non la rappresenta e non l'ha mai rappresentata.
Non ricorda che da quando si è impossessato del suo partito ha cominciato ad usare un linguaggio violento, comico e teatrale (che ha fatto la fortuna di Crozza)? Che si è comportato da despota, zittendo, mortificando e ridicolizzando minoranze e opposizioni interne? Che ha scardinato l'idea di Sinistra - alla cui storia e cultura è del tutto estraneo - riducendo quel partito, già erede dei grandi del PCI, a un eterogeneo contenitore di parole, di correnti, di inciuci e di poltrone e ad una ridicola controfigura della vecchia DC o di Forza Italia?
Ha detto che va negli Usa ad imparare. E forse anche a consolidare le sue qualità che condivide con Donald Trump: arroganza, superbia, supponenza, strafottenza e falsità.

La Ditta è da tempo in crisi e oggi si frattura. Molti salutano e lasciano l’agone, Bersani è triste e assai deluso.
Ma in quale delle tante isole del tempestoso mar del nuovo socialismo approderanno?
La gente aspetta e sogna una grande Sinistra che non c’è, se non nelle migliori intenzioni, nei vaghi progetti e tentativi (Fratoianni, Civati, Landini, Fassina, Pisapia).
La gente la vuole e l’aspetta, ricca di proposte e contenuti, ma non accetterà un altro sottocosto a perdere o l’ennesima giostrina identitaria e populista, condannata all’irrilevanza.
22 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)


E POI...

E poi, scorrendo queste sconclusionate pagine di vita e di ricordi, di commenti e di parole, di gioco e di fotografie, di notizie e falsità, all'improvviso, scopri che in un attimo un amico ha lasciato questo mondo e tutti quelli che gli volevano bene.
Così, semplicemente, tra un pensiero profondo e una battuta triste o spiritosa, come se fosse un normale calembour o una citazione storica o poetica, una strana forma d'arte che ti intriga e ti lusinga.
E, quasi non capisci, devi rileggere, devi convincerti che non hai frainteso. Perché questo, qual' è il senso?
E' come se in quel momento scoprissi che nulla conta nulla, che tutto è appeso a un filo, che "tutto il resto è noia", che più che un dialogo con gli altri è un'abitudine del banale quotidiano e uguale, dove abbracci mille illusioni e quell'emozione che ti scoppia dentro, per partecipare alle chiacchiere del mondo, del tuo mondo, che ti sostiene e ti incoraggia a esistere e resistere, pur nella precarietà.
"E poi e poi, sarà come sparire nel vuoto che non smette mai."

Sono addolorato, incredulo e commosso.
L'ho saputo per caso, leggendo le parole di un'amica che non conosco che mi hanno fatto sobbalzare, ma non capisco se è stato un incidente o un improvviso malore a portarlo via.
Ci siamo frequentati molto negli anni '90 per motivi professionali (praticava e riforniva molto il mio studio televisivo) e poi ritrovati qui, fra queste note, come nuovi amici.
Ricordo la sua simpatia, la sua competenza, la sua ironia.
Ricordo una gran bella persona.
Addio Renato, un forte e lungo abbraccio.
E filma tutto ciò che incontri o scopri o vedi.
 22 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)


QUELL’IDIOMA, “GENTIL SONANTE E PURO”

Tutti grandi critici, tutti raffinati esperti e commentatori - con la “t”, altrimenti, sarebbe un titolo onorifico, come “Cavaliere” o Grande Ufficiale” - del tutto e del nulla.
Oltre, a quelli già di ruolo, ovviamente ufficializzati dai media, imperversano ora quelli creati, sdoganati e nati come i funghi in ogni umido territorio della retorica del gossip parolaio.
Dilaga la mania di dire la propria, di sparare la propria cazzata, senza avere il porto d’armi dialogico e la minima competenza, in calce a ogni articolo di stampa, ai post su Facebook o su Twitter, nei serpentoni delle trasmissioni televisive.
Di giudicare con certezza, e senza neanche il beneficio del dubbio, gli scottanti casi di cronaca nera, gialla e anche rosa o puntinata: dai delitti più efferati agli amori di Belen, dalle tragedie naturali a quelle delle guerre e terrorismo, dalle migrazioni alla corruzione, alle politiche estere e sociali.
E’ di moda una nuova corrente di pensiero, quella di criticare, irridere, offendere chi esprime opinioni diverse dalle proprie. Di condannare senza appello, di incitare all’odio e alla vendetta, di augurare il male e il peggio: una montagna di insulti che equivalgono a massime e pensieri. Insomma, si spara a tutto ciò che si muove e appare nell’infinito orizzonte della notizia non stop.
Grazie all’universalità del Web, tutti hanno scoperto di poter avere un ruolo, anche se marginale o infinitesimale, e di contare - magari come un liscio a briscola - in quella sterminata prateria virtuale che fornisce, gratuitamente, stimoli e risorse per gratificarsi e rivalorizzarsi, anche all’ultimo degli ignoranti. Fino al compiacimento e al relativo appagamento formale, dato dal riscontro e dai like degli interlocutori.
Dappertutto, meno che nelle aule dei tribunali, si svolgono processi e arringhe popolari, dove è sempre più difficile distinguere le vittime dai violentatori, i narcisi dai tronisti, i predicatori dagli innocentisti, gli arzilli anziani della De Filippi dagli Amici di (della stessa) Maria, i politici dai comici, le controfigure dalle persone, le maschere dai volti umani. Si vive sempre più nella fiction quotidiana.
E’ come se di tutta la realtà, la civiltà della comunicazione globale ci mostrasse una volgare parodia, una caricatura, un fumetto, mal disegnato e approssimativo, dal Decamerone ai Promessi Sposi, passando per il Capitale e l’Enciclopedismo, fino al Calcio e al Futurismo. Molto peggio di quanto facessero, con intelligenza e ironia, il glorioso Quartetto Cetra o la “bella figheira” del trio Lopez-Solenghi-Marchesini.
Prima, al massimo, c’era il televoto, il SI e il NO, come a un referendum, e l’interattività era un sogno proibito o una parolaccia.
Ora, grazie alla cultura digitale che non richiede titoli, lauree o altre riconosciute competenze, ognuno è ispirato e pontifica in un idioma, “gentil sonante e puro”, spesso cadente, approssimativo e difficile da comprendere, anche perché privo o ritmato da una del tutto casuale o latitante punteggiatura.
Tutti opinionisti, quindi, maitre a penser, spacciatori di sentenze, divulgatori di scienza e coscienza, tali dal dover riformare urgentemente i manuali di filosofia e psicologia sociale, per accostare al pensiero di Platone o Campanella, quello del giovane rampante, del neo-intellettuale da salotto, dell’imprenditore illuminato, della casalinga stanca e sottomessa. Ovviamente, in ogni settore dello scibile e su questioni di qualsiasi genere: dai trattati sulla nuova economia, alla ricerca sanitaria, fino alle tagliatelle di nonna Pina e alle parabole renziane, post berlusconiane.

E’ il nuovo sport nazional popolare che non distingue più analfabeti e premi nobel, imbrattacarte e sommi artisti, strimpellatori e grandi musicisti. Pure i Sollecito e gli Schettino che hanno fatto lezioni all’Università.
E' spettacolo. E’ la commedia del banale quotidiano che è sotto gli occhi di tutti.
Ma è, soprattutto, un gigantesco bluff, costruito a tavolino, da chi ha il potere di orientare e decidere per noi, facendoci credere che decidiamo noi.
E’ il business monopolistico della comunicazione mediale - dalla proprietà dei mezzi di produzione (Il Capitale) a quelli dell’informazione (Globalizzazione) - che riguarda Internet e TV, stampa, cinema, editoria: loro stabiliscono cosa dobbiamo vedere e cosa leggere e sapere e noi vediamo, leggiamo e sappiamo quello che ci impongono, pensando di scegliere ciò che ci piace o non ci piace, discutendone fino allo sfinimento, fino alla sfida, all’offesa e alla minaccia.
Ben oltre la ragione, l’educazione e la civiltà, calpestando il dialogo e il rispetto, per alimentare, inconsapevolmente, una colossale fabbrica di chiacchiere e consensi che fa soldi con un nuovo business.
 20 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)



venerdì 17 febbraio 2017

MI SCAPPA LA PIPI’, PAPA’ PADRONE

Caro Marchionne, caro Renzi – suo indissolubile amico che ora indossa pure lo stesso maglioncino blu – quante volte andate in bagno, senza chiedere permesso a qualcuno?  
Vi è mai capitato che qualcuno ve lo impedisse e vi costringesse a farvela nei calzoni?
Non è una barzelletta, una facezia o una battuta di spirito, non è una provocazione.  
Ma, fare pipì non è più solo un normale bisogno fisiologico, è un rinnovato privilegio che non tutti e non sempre possono condividere, come accadeva nell’Ottocento, come all’epoca degli schiavi e dei padroni.
Sono cose che pensavamo appartenessero alla fase primitiva dello sfruttamento della forza lavoro da parte di un capitale avido e disumano, come ci ha ricordato Marx.
C’è poco da stupirsi, ma molto da riflettere.

Non puoi andare in bagno, non quando ti pare, non quando ti scappa. Da contratto, da regolamento, non è un diritto, ma una concessione.
Così, alla grande fabbrica metalmeccanica Sevel (Fiat Chrysler) di Atessa, in provincia di Chieti, un operaio, che aveva a più riprese richiesto di poter andare in bagno, è stato costretto a farsela addosso, perché gli è stato impedito di assentarsi dalla catena di montaggio. Tieni, tieni, stringi, stringi, alla fine ha dovuto zampillare nei pantaloni.
Sembra un fatto uscito dalle cronaca di due secoli fa o dalle pagine di un romanzo neo-classico o romantico, invece è successo qualche giorno fa.
Al di là degli aspetti comici e grotteschi, quanto accaduto varca ogni limite della decenza, è un episodio gravissimo che lede la dignità della persona, umiliandola come uomo e come lavoratore, insieme a quella di tutti i lavoratori in generale.

Molte le proteste e le reazioni di partiti e sindacati che denunciano l’incremento di ritmi e carichi di lavoro al limite del sostenibile, cui si assiste da molti anni nel gruppo FCA.
Troppo spesso gli aumenti di produttività sono salutati come un fatto positivo, senza chiedersi come siano possibili, ogni anno, a livello di record.
Nei giorni scorsi, alla luce di questa paradossale vivenda, è arrivata una parte di risposta, a palese manifestazione delle condizioni che i lavoratori, loro malgrado, sono troppo spesso costretti a subire. L’arroganza padronale sostiene che la produzione viene prima di tutto e perciò i lavoratori non possono permettersi nemmeno il lusso di espletare bisogni fisiologici, normali per qualsiasi essere umano.

Serve recuperare e riportare una nuova ventata di democrazia reale dentro e fuori le fabbriche per contrastare questa forma di totalitarismo aziendale, che è il prodotto di anni di riforme del lavoro che hanno sottratto ai lavoratori diritti, tutele e accordi sindacali capestro, fino alla cancellazione dell'art.18.
Per questo, la vicenda non può essere sottovalutata, anzi ricompresa in un’analisi più vasta dello stato delle cose.
Pause sempre più ridotte, straordinario di fatto obbligatorio il sabato, usato come ricatto nei confronti dei precari con contratti a termine da riconfermare, contrattazione praticamente abolita, tutela della salubrità e sicurezza dei luoghi di lavoro, sacrificata al profitto degli imprenditori, e libertà di licenziamento: sono le conseguenze della globalizzazione e delle scelte governative che pesano sulla testa dei lavoratori, che hanno imposto la cancellazione dei diritti in un sistema quasi feudale.
Alla faccia dell'uguaglianza e delle nome sancite dalla costituzione.
17 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)

DA DA UMPA

Con “C'era una volta Studio Uno”, la RAI si celebra con la dovuta sobrietà e si racconta in uno spicchio della sua storia, anche a beneficio di chi non ha vissuto quel periodo e l’epopea dei primi varietà della TV in bianco e nero.
C’è il ritratto di un’epoca, dell’Italia degli anni sessanta, che sogna in grande e guarda al domani, fra costume e crescita sociale, in questa breve fiction, dove vicende umane e personali si intrecciano con scelte e intuizioni creative di una giovane televisione, nata da pochissimi anni, che asseconderà e aiuterà lo sviluppo culturale del Paese.
Una TV, ancora artigianale e un po’ bigotta, fatta e vissuta con passione, con cura maniacale, dai costumi alle scenografie, che svela anche i segreti del dietro le quinte, degli antagonismi e dei contrasti di potere, delle ambizioni, dei capricci, delle invidie e delle gelosie. 
Che riflette ipocrisie e contraddizioni, anche morali, di un Paese in divenire e rappresenta gli italiani del momento, indagati con la dovuta attenzione, anche attraverso il puntuale Servizio opinioni e gradimento.
Adeguate e realistiche le ricostruzioni ambientali, gli arredi di set, uffici e di abitazioni, l’uso di oggetti e mezzi originali di ripresa, oggi da museo.
La linea narrativa è semplice ma efficace, diluita con originali immagini di repertorio e con il Dadaumpa che fa da filo musicale conduttore.
Insieme a Canzonissima e a Fantastico, Studio Uno, andato in onda tra il 1961 e il 1966 e ideato da colonne come Antonello Falqui e Guido Sacerdote, è stato probabilmente uno dei varietà più popolari e innovativi della storia della televisione italiana.
La scenografia, inventata dagli autori, era semplice ed essenziale e vedeva in campo strumenti da studio - da cui prendeva il nome - come telecamere, carrelli e giraffe: qualcosa di originale e minimalista per quei tempi.

Per chi, come il sottoscritto, ha conosciuto e ricorda quei momenti, con una certa nostalgia, legata ai tempi e alle sensazioni dell’adolescenza, è un vero tuffo nel passato. Tornano subito in mente due miti dell’epoca, legati a quel programma.

Il primo, le gemelle Kessler, per la prima volta in Italia, che, per vederle da vicino, in tutto il loro splendore e la loro statura, aspettavamo in gruppo e a lungo davanti ai cancelli di via Teulada. Erano maestose, affascinanti, belle e gentili con tutti. Sorridevano sempre e firmavano autografi, dediche e fotografie. 
Scombussolavano gli ormoni e alimentavano le nostre fantasie giovanili. 
L’altro, era Mina, la più grande cantante italiana di tutti i tempi, dalla voce duttile ed espressiva, dal timbro caldo e inconfondibile, dotata di grande ampiezza, estensione e capace di incredibili virtuosismi. Forse, a causa del suo prematuro addio alle scene nel 1978, abbiamo un po’ tutti dimenticato la quantità e la qualità di ciò che ha prodotto e cantato, le sue indimenticabili interpretazioni - oggi, e da allora, solo su disco e in sala d’incisione - e i milioni di dischi venduti nel mondo.
Invito a rileggere la sua biografia, anche negli aspetti più privati e familiari, per riscoprire un vero pezzo, leggendario e senza tempo, della storia della musica.

Molti i personaggi passati sotto i riflettori di quel mitico show, vere icone del momento: da Don Lurio alle trasgressive gemelle tedesche in calzamaglia nera, da Lelio Luttazzi a Walter Chiari, dalla coppia Mondaini - Vianello a Rita Pavone.
Ma la regina indiscussa fu proprio la tigre di Cremona che condusse tre edizioni del programma e si esibì in un repertorio straordinario, affiancata, a volte, in duetti rimasti celebri, da Alberto Lupo, da Totò e da Alberto Sordi.
Era un’Italia in buona fede, genuina e non sofisticata, raccontata dai ventiquattromila baci di Celentano, dal geghegè di Rita Pavone e dalle mille bolle blu di Mina.
Era il mondo incerto dei desideri realizzati e infranti e delle magiche atmosfere che il piccolo schermo, entrato ormai in tutte le case, faceva sognare nell’immaginario collettivo, non ancora contraffatto e adulterato.
Era un anticipo di imprevedibile futuro.
 15 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)




IL CASTIGO DI UN PADRE

Un antico disagio psicologico, una improvvisa crisi interiore, di ansia e depressione o qualche problema personale e sentimentale che l'affliggeva da tempo, ma di cui non aveva parlato mai a nessuno. Domande e dubbi che non avranno mai risposta.
Non si conosce la ragione per cui una ragazza di 17anni si sia uccisa in quel modo assurdo e imprevedibile.
E' successo su una via provinciale, nei pressi di Segrate. All'improvviso, si è tolta la cintura di sicurezza, ha aperto la portiera dell'auto, guidata dal padre, e si è lanciata sulla strada: è stata subito travolta da un tir che, dopo averla investita, ha proseguito la sua corsa. Probabilmente il conducente non si è accorto di nulla.

Il padre, fermata la sua vettura sulla corsia d'emergenza, ha chiamato i soccorsi, ma non c’è stato nulla da fare. Poi è stato trasportato all'ospedale, sotto shock e in evidente stato confusionale.
Non conosce il motivo che ha spinto la figlia a compiere un gesto del genere.  Cercheranno di scoprirlo gli investigatori.
Alla base della tragedia, potrebbe essere stato un diverbio con la figlia, di quelli che gli adolescenti hanno spesso con i genitori sulle questioni più diverse, o un litigio con il fidanzato, proprio alla vigilia di San Valentino, magari via WhatsApp. O qualcosa di molto più grave che nessuno potrà mai capire.
Certo è che quello scatto d’ira, forse istintivo, è stato fatale, non le ha lasciato scampo, su quel tratto di viabilità trafficatissimo.

Non posso non pensare alla sua famiglia e, soprattutto, a quel padre che, quando prenderà coscienza piena dell’accaduto, sentirà, oltre al dolore, tutta la colpa di quella prematura morte della figlia, che non ha saputo evitare o prevenire.
Una responsabilità fisica e morale per non aver saputo cogliere gli eventuali prodromi di una tragedia, forse annunciata, che andrà ben oltre i suoi eventuali errori di distratto genitore.
Una pesante condanna, senza sentenza, che non gli darà tregua, che lo accuserà senza pietà e lo punirà per tutta la vita.
 14 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)

martedì 14 febbraio 2017

CARRI IN MASCHERA

Un incidente meccanico, un errore di calcolo e di equilibrio, una metafora casuale, un segno del destino? O una caduta profetica, anche se quella vera c’è già stata con il referendum costituzionale del 4 dicembre scorso?
Al Carnevale di Follonica (Grosseto), la parte superiore di un carro allegorico che ospitava il grande manichino di Renzi, con una maschera di Paolo Gentiloni, seduto su una tartaruga, si è staccata durante la prima giornata della festa, travolgendo alcune persone. Cinque i feriti, uno dei quali, piuttosto grave, è rimasto sotto la figura crollata dal carro.

Tragedia sfiorata, quindi, mentre si accende anche la sfida fra le varie maschere di renziani e minoranze interne del PD, su leadership e data del voto, con il rischio scissione che diventa sempre più concreto. 
A settanta giorni dal referendum, dopo settimane di incertezze, di nervosismo, di logoramento, di annunci e di smentite, Renzi, in assenza di strategie precise e convinte, prova a rialzarsi, in tutti i sensi, e decide di provare una mossa per sparigliare: congresso lampo anticipato, primarie a fine aprile ed elezioni a giugno, anche se ciò appare quasi impossibile, dati i tempi congressuali, dell’omologazione dei sistemi elettorali per Camera e il Senato e di scioglimento delle stesse.

Oggi, alla “sfilata” della direzione del partito, qualcosa accadrà e probabilmente il Matteo rialzato metterà sul tavolo le sue dimissioni da segretario per andare al confronto anticipato, da molti richiesto, ma secondo il suo programma.
I pretendenti candidati alla successione, Emiliano, Rossi, Speranza e Orlando scaldano i motori dei loro “carri”, variopinti ma poco allegorici.
L’attuale premier provvisorio Gentiloni, sempre più che riservato e invisibile, è avvertito.
Stia pure sereno, il Carnevale continua.
13 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)