Ieri sono uscito a
comprare il pane e a buttare l’immondizia. Per pochi minuti, in un giornata
apparentemente bella e piena di sole.
Ma ho scoperto che
il mio quartiere, come tutta la città, non è più lo stesso, ha cambiato faccia
e connotati, dopo le sacrosante, ultime misure adottate dal governo. “Tutti a
casa”, come il famoso film di Comencini, con Alberto Sori e De Filippo.
Atmosfera inconsueta
ed irreale.
Si avverte e si
trasmette nell’etere un certo sentimento di paura nei luoghi, nelle cose e
nelle persone. Un po’ come quando in guerra ci si aspetta un bombardamento o un
rastrellamento e si fa tutto in fretta, alla svelta, per non restare a lungo e
pericolosamente, allo scoperto. Per non incontrare il nemico virus. Non si dice, non si ammette e non si
scrive, ma tutti hanno (abbiamo) il terrore di essere contagiati, di finire
intubati (finché c’è posto in Rianimazione), di morire soffocando.
C’è uno strano
silenzio, opprimente quasi più del solito rumore di città, che da sempre
percepiamo e a cui siamo abituati: auto, chiacchiere, grida, schiamazzi,
colloqui a voce alta o al telefonino.
Pochissimo traffico,
come a ferragosto, poche persone in giro, quattro turisti giapponesi, negozi,
bar e ristoranti vuoti.
Dal fornaio e nel
supermercato c’è un po’ di gente che fa spesa, ma si muove con circospezione, con
cautela ed accortezza. Qualcuno con la mascherina o con la sciarpa tenuta con
la mano sulla bocca.
Ci si guarda appena,
con sospetto e con timore, si evita di parlare. Si sta a distanza, attenti a
non urtarsi, a non toccarsi.
Chi sarà l’untore? Sembrano
dire o pensare tutti, virtualmente. Come virtuali sono diventati i rapporti
umani.
Questa è Roma, ma
non è la sola, ai tempi del Corona.
11 marzo 2020
(Alfredo Laurano)
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