lunedì 2 gennaio 2023

SE QUESTO È UN UOVO /2461


Forse la miglior descrizione di chi era Fabio Picchi è quella che scrisse lui stesso, sul sito del Cibreo.
Eccola, integralmente: “Fabio Picchi nasce fiorentino il 22 giugno 1954 aspirando immediatamente, per il labronico cognome, alla cittadinanza e natalità livornese. Irrequieto nel suo percorso scolastico, perseguitato da un perenne e perentorio: “Il ragazzo è intelligente ma non si applica…”, trova nei cinema pomeridiani e nei teatri serali felice soddisfazione e profondo insegnamento. 
Si innamora di tutto ciò che legge e vede. 
Passa dalla Facoltà di Lettere, per 5 minuti, e per 3 ore da Scienze Politiche.
Trova lavoro nell’alba delle prime Radio e Televisioni libere fiorentine. Si rifugia per 6 minuti nella ditta paterna annunciando poi a tutta la famiglia che avrebbe aperto un ristorante”. 
Lo farà nel settembre del 1979, quando nasce il Cibreo, con 5 milioni prestati dal padre, sicuro del suo fallimento. Invece la trattoria - e i suoi "satelliti", dal Teatro del Sale, dove unisce la passione per la cucina a quella per il mondo dello spettacolo, affidando la direzione artistica alla moglie, l'attrice Maria Cassi - tra tortelli e ravioli, prende il volo, per diventare un ulteriore luogo d’incontro culturale, molto di più di un tempio della gola.

Questo, più o meno, era l’istrionico, vulcanico e schietto Fabio Picchi, morto ieri a Prato, a sessantasette anni, dopo lunga malattia, che quasi nessuno conosceva.
Fino a pochi giorni fa, ancora lavorava nel suo negozio di alimentari CiBio - di "cibo buono, italiano e onesto" - che, aveva messo su qualche anno fa ed era ormai diventato il suo quartier generale - nel mercato di Sant'Ambrogio a Firenze, con una macelleria, un forno e il "panino del muratore".
Questo era Picchi l’appassionato, l’entusiasta, il generoso che chiama a lavorare ragazzi down, migranti presi dalla strada o dalle comunità, persone in difficoltà, che s'infervora per le questioni politiche e non nasconde la sua fede a sinistra.
Questo era un grande chef, che sapeva esaltarsi per la ribollita o la fiorentina, ma anche per un semplice uovo fritto o nel dare dignità anche a una minestrina di acqua, scorza di parmigiano e due gambetti di prezzemolo. Che invitava a non sprecare e consigliava su come usare gli avanzi con intelligenza e senza rinunciare al sapore.
Quante volte, con amici e familiari, mi ero ripromesso, prima o poi, di andare a visitarlo, a mangiare nei suoi locali, a provare le sue improvvisazioni, quasi musicali, tra gusto, fantasia e tanta simpatia.
Nel "recitare" le sue ricette in tivù, o nello scriverle, usava parole di un linguaggio forbito, condito di parole desuete e suggestive, come "un nonnulla", “un niente di”, “un’idea di”, divenute poi di uso corrente e caratteristica del suo spirito toscano.
Di lui, ha scritto il New York Times, “parla come un poeta e cucina come un mago.
26 febbraio 2022 (Alfredo Laurano)

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