lunedì 9 luglio 2012


SCHIAVI  DEL  LUSSO                                               26 ottobre 2011

Le scarpe Catwalk - le esibisce pure Simona Ventura e tante altre star di cinema, Tv e pseudo spettacolo- si vendono a centinaia di dollari e ne costano all'origine circa tre. Come tantissimi altri articoli di marchi famosi nel mondo - Timberland, Nike, Adidas, Nestlé, Chicco-Artsana, Mc Donald’s, Vuitton che realizzano capi di moda, pellicce, gioielli, profumi, alimenti e molto altro di cui, per mia fortuna e scelta, ignoro nomi, brand e firme -  queste scarpe per pochi  vengono  confezionate in varie fabbriche in India da lavoratori , per lo più giovani e bambini, che vivono, mangiano e producono lusso a ciclo continuo: seduti sul pavimento, in locali-lager sporchi e  fatiscenti, privi d’aria e di luce naturale, ma non della puzza delle colle e dei materiali usati. Sottopagati, ricattati e senza alcuna forma di igiene, di tutela, di diritti e di sicurezza, in uno stato di totale e reale sfruttamento. Nelle e alle stesse condizioni degli schiavi di una volta e nella assoluta insensibilità del nord del mondo, definito civile. L’unica differenza è che non hanno catene e non si possono più comprare o vendere ad altri mercanti, ma solo cacciare, senza ragione e a piacimento, in qualsiasi momento.
Sono i nuovi schiavi della modernità e del neocolonialismo liberista: conoscono solo fame e miseria, ma creano profitto e ricchezza. Si, per il loro padrone.
Diversi milioni di esseri umani che abitano il sud del mondo sono costretti ancor’oggi a vivere o sopravvivere così, o anche molto peggio, se pensiamo ai traffici di armi e di droga, al  commercio sessuale internazionale, alla abominevole tratta  dei minori, alla prostituzione pedofila, al lavoro coatto, alla turpe compravendita degli organi. Dietro la candida facciata di altre stranote e importanti multinazionali, disegnata ad arte da una martellante pubblicità, costosissima e ingannevole, spesso si nasconde lo sfruttamento e il ricatto  più cinico e crudele dei soggetti più deboli e senza difese: emarginati, poveri, donne, bambini, anziani, animali e ambiente. Questo è il vero, o se preferite l’altro, volto della globalizzazione.
“Cosa fare per cambiare questa orribile, ripugnante e  inaccettabile realtà ?”- Mi chiede turbato, e un po’ retoricamente, un caro amico, dopo aver visto le crude immagini di ciò che ho descritto e che gli avevo inviato.
Che fare?  A questa non proprio semplice domanda  provò a rispondere, più di cento anni fa,  un certo Lenin - piuttosto esperto in materia di proletariato e sfruttamento - sostenendo, nel suo omonimo saggio, la necessità di costruire un grande partito, rivoluzionario e comunista, in grado di organizzare tutti i lavoratori con programmi, azioni  e vincenti strategie e di sviluppare una vera coscienza politica di classe.  Ma forse non era la risposta giusta, o almeno era parziale, visto che la longa manus del capitalismo ha esteso in breve tempo il suo largo dominio. Pur nella conflittualità perenne delle classi antagoniste,  nelle profonde contraddizioni dell’economia del  libero mercato e nelle ricorrenti e spaventose crisi di sistema, come l’attuale.
La rivoluzione (o il cambiamento: “un altro mondo è possibile”, diciamo da sempre), oggi soprattutto, non deve essere necessariamente barricate, sangue e ghigliottina. Possiamo e dobbiamo pensare a nuove forme di lotta e di rivolta, ad altre tattiche e con diversi strumenti di attacco e di difesa, partendo dalle infinite opportunità che offre il web e la sua smisurata piazza virtuale, dalle attuali tecnologie e dalle scelte personali e comportamentali.
 Alla base, e prima di tutto, c’è la conoscenza e la presa di coscienza, la diffusione capillare dell’ informazione, la comunicazione in tempo reale e la denuncia delle ingiustizie e dei soprusi, anche attraverso le grandi comunità on-line o i network social o alternativi che possono aiutare, con forti pressioni internazionali, a salvare vite umane, a proteggere l’ambiente, a  sostenere lo sviluppo e la democrazia, a  combattere mafie e corruzione, a battersi per la pace e contro la povertà. O anche promuovere mobilitazioni e class action.
Ognuno di noi può mandare segnali forti al mondo dei consumi e agli speculatori: riducendo lo spreco più scandaloso e  rinunciando al lusso inutile e al superfluo, per principio; vestendosi con poco e in modo alternativo (mercati e stock di magazzino); privilegiando piccoli produttori, cooperative e il commercio equo e solidale, quando possibile.    
Consumo critico e spesa responsabile! Non è solo uno slogan, ma deve diventare il credo del  consumatore: informarsi, selezionare, scegliere, boicottare… nel nostro piccolo e con i nostri mezzi individuali.
Il boicottaggio è un’arma popolare che, se si diffondesse capillarmente, potrebbe diventare estremamente incisiva nella lotta non violenta contro lo strapotere del mercato globale, che orienta, decide, induce e crea i nostri bisogni, le nostre scelte.
Pensiamoci quando facciamo la spesa quotidiana. Leggiamo sempre le etichette dei prodotti e cerchiamo filiera,  origine e provenienza delle merci,  anche negli acquisti più importanti. 
Risparmiamo energia e risorse naturali, usiamo carta, legno e oggetti di riciclo ed eco-compatibili.  Anche così si combatte lo sfruttamento!  E si fa sempre pace con la nostra coscienza.
Da quando ho saputo (e sono molti anni) come venivano fabbricate le Timberland, per esempio,  non le ho più comprate,   nonostante le privilegiassi per comodità e praticità. 

Così come rifiuto le carni di Cremonini, l'abbigliamento griffato, i prodotti di  alcune  grosse catene presenti in supermercati,  autogrill,  treni ed aeroporti, gli alimenti di certe multinazionali ecc.
Come si può acquistare e indossare un jeans di moda, lavorato a sabbia per ottenere morbidezza e  l'effetto di  "vissuto",  per la  cui produzione sono morte o  moriranno  tante persone per problemi respiratori  (in Tunisia si ammalano irrimediabilmente di silicosi e  ne muoiono a centinaia,  a distanza di mesi o di pochi anni)?  E che costano pure un sacco di euro?
Si dirà: è la moda e il suo largo indotto economico e di lavoro per tanti; l'esaltazione della bellezza, la necessità dell'apparenza.....con qualche piccolo effetto collaterale!
"E’ una boiata pazzesca”:  direbbe Fantozzi.   Una colossale stronzata,  dice Alfredo    (e scusate il latinismo), visto che all'uomo e alle donne - in genere molto più sensibili per genetica e cultura a certo fascino glamour - per ripararsi dal freddo e  coprirsi le vergogne, può bastare un semplice e decoroso abito, elegante anche senza la firma di Armani e  Valentino o  della gay-coppia  Dolce & Gabbana  (grandi  stilisti e  nuovi geni della moda, ma guai a chiamarli sarti!).  E poi, l'attività imprenditoriale dei tanti nuovi Michelangelo si può sempre  diversificare o  indirizzare verso più utili settori e beni primari. Come fece  Lamborghini che dalle auto da corsa passò a produrre vini.
Quando in certi negozi per l'elite  (sempre affollati di lavoratori, pensionati, statali, precari e metalmeccanici) vedo esposti vestiti, cappotti, scarpe a "soli" mille, due o tre mila euro, mi viene tanta voglia... di fare il black bloc. 
Ma non ho più l'età!!
                                                                                               AlfredoLaurano



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