E' già successo troppe volte e ancora succederà, perché per
i poliziotti americani, ancora oggi, la vita dei neri non ha valore, almeno non
quanto quella dei bianchi.
L'uccisione di George Floyd a Minneapolis, da parte di un
agente, l'ultima di una lunga lista di persone disarmate, ha risvegliato la
rabbia della comunità afroamericana negli Stati Uniti, e non solo, che chiede
giustizia.
Centri commerciali devastati, auto in fiamme, strade invase
dai lacrimogeni, collegamenti pubblici sospesi. Gli scontri tra manifestanti e
polizia sono continuati per due giorni consecutivi e si sono allargati ad altre
due città, Los Angeles e Memphis, al canto di “I Can’t Breath” - cioè le parole
rivolte da Floyd al suo assassino mentre lo stava soffocando.
Allo stesso modo, pochi anni fa, tutto il mondo aveva visto
la breve, sconvolgente sequenza dell’uccisione a New York del 43 enne
afroamericano Eric Garner, padre di sei figli, fermato per contrabbando di
sigarette, non per stupro o strage.
Il povero Eric era obeso e soffriva d’asma. Quattro
poliziotti gli si scagliano addosso, lo sbattono per terra, lo schiacciano coi
loro corpi, fino a farlo soffocare con una presa di chokehold, utilizzata nelle
arti marziali, combattimento militare, autodifesa.
La morte avviene subito perché la micidiale tecnica
impedisce all’aria di passare e quindi alla vittima di respirare.
“I can't breathe” (non posso respirare) furono infatti le
ultime parole del povero Garner - e di tanti altri soffocati dopo di lui - le
stesse di George Floyd, che si sentono nel video, prima di essere ucciso senza
motivo.
Sono le stesse che sono diventate, sempre più, il grido
collettivo dell'indignazione popolare, mentre dilaga la protesta e la
disubbidienza civile contro il razzismo istituzionale, che continua a mietere
vittime.
Nessun commento:
Posta un commento