mercoledì 27 maggio 2020

FELICIA, MADRE D’ANTIMAFIA

Un lungo flash-back che racconta il pensiero e la storia di Felicia, madre di Peppino Impastato, costituisce la struttura di questo film di Gianfranco Albano, che inizia con una scena molto suggestiva: l’ingresso della donna, incerta, intimorita e titubante, nelle grandi sale del Palazzo di Giustizia.
Nella dettagliata deposizione al Tribunale di Palermo nel 2000, Felicia prende coraggio e ripercorre davanti alla Corte quello che è avvenuto dal 1978 al 2000: dall’uccisione di suo figlio Peppino, per mano della Mafia, ai tentativi di infamarlo e di farlo passare per suicida terrorista; dai depistaggi di stato, alle morti violente dei giudici, alla sua implacabile ostinazione di madre coraggiosa che vuole giustizia.
Racconta la lunga battaglia, mette in scena la sua forte personalità, senza tradirne il carattere e gli ideali popolari, l’intelligenza e la sensibilità di una donna siciliana semplice, ma determinata e fiera. Senza cadere nella tentazione di spettacolarizzare i sentimenti e sfuggendo al rischio del didascalismo e della facile retorica.

La sua testimonianza si snoda fra le ricorrenti immagini del pestaggio estremo di Peppino, delle iniziative dei suoi compagni e del fratello Giovanni per cercare prove e tracce - che nessun altro vuole trovare - delle minacce di mafiosi, delle reazioni popolari del pigro paese di Cinisi.
Mostrano, soprattutto, la dignità e la fierezza di questa speciale donna siciliana, senza indulgere mai nel dolore e nell'autocommiserazione. Fierezza di una madre per un figlio che ha sostenuto fino alla morte le proprie idee e che in quelle idee si identifica. Che si batte con tutte le sue forze per arrivare a una complessa e, per molti, scomoda verità, che travalica la questione personale, per diventare conquista dell'intera collettività.

Nel film, pur animato dalle migliori intenzioni, tutto questo pathos sopravvive soprattutto grazie all'interpretazione di Lunetta Savino, potente nella mimica e credibile nella sua determinazione. In alcune sue espressioni più intime si percepisce la solitudine di una donna devastata dalla morte del figlio ma, nello stesso tempo, decisa e consapevole di potergli dare ancora voce e di continuare la sua lotta, anche contro le contaminazioni mafiose, all’interno della stessa sua famiglia, che parlano solo di vendetta.
La sceneggiatura non aiuta molto quel suo lungo percorso di sfida al potere mafioso e delle istituzioni, all’omertà, alla calunnia e all’indifferenza. Appare un po’ approssimativa e lacunosa, non scava a fondo nei risvolti dell’inchiesta, non spiega le responsabilità oggettive e i depistaggi, mentre privilegia alcune sequenze, a volte poco utili nell’economia dei fatti descritti.
I dialoghi, essenziali, si fermano al minimo della costruzione narrativa e alcuni personaggi chiave - il giudice Chinnisi, l’esperto criminologo, la giovane magistrata - hanno scarso rilievo e poca consistenza nella lunga e tortuosa vicenda giudiziaria.
Della convinta battaglia combattuta da Felicia nei corridoi della Procura, contro la burocrazia istituzionale, contro l’inerzia di certi apparati e contro i pregiudizi dei benpensanti, c’è poca traccia o solo qualche accenno.
Come anche del suo costante lavoro di educazione alla legalità, svolto nelle stanze della sua casa museo, tratteggiato con una certa sufficienza e con modalità quasi romantiche.

Un’opera sicuramente difficile da costruire e da realizzare, perché sicuramente difficile è la storia che la ispira.
Si ha la sensazione di una trama fragile e parziale che, pur di restare asciutta e di non rischiare qualsiasi slittamento enfatico, limita o non favorisce un particolare coinvolgimento emotivo. Alcune situazioni si ripetono, senza aggiungere ulteriori contributi alla narrazione e alla naturale commozione, e un po’ annacquano la drammatica condizione vissuta per anni e anni da una madre coraggiosa, per riscattare quel figlio, che ebbe anche il torto di farsi ammazzare proprio il giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro e, quindi, quasi ignorato dalla grande macchina mediatica.
Fino a quando, con orgoglio e con legittima soddisfazione, può finalmente puntare il dito contro colui che, fin dal primo giorno, tutti sapevano essere "il comandante" dell'omicidio del figlio, Tano Badalamenti, dopo soli 22 anni di tormento, di lotta e di infinita attesa. 
24 maggi 2020 (Alfredo Laurano)

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