Tutto, più o meno, come
previsto.
Nell’udienza di oggi, 21 marzo 2018, sono arrivate le richieste di
condanna della PM al processo Vannini, del tutto in linea con le attese, anzi
forse superiori per chi ha una vaga idea della giustizia, ma non con quelle
popolari dei tanti che speravano di sentir pronunciare la parola ergastolo.
Per
l’accusa, gli imputati hanno mentito ostinatamente con una ricostruzione dei
fatti parziale; no alle attenuanti generiche per Antonio Ciontoli; i ruoli
degli altri vanno differenziati, anche se tacciono e avallano quanto stabilito
dal capofamiglia; i familiari vedono la situazione precipitare e lo stato di
Marco contraddice Ciontoli che non interrompe la catena di avvenimenti, anzi
svia gli altri protagonisti facendo dichiarazioni distorte, il che prefigura il
dolo eventuale, uscendo dalla condotta standard da tenere in questi casi.
Quindi accetta il decorso causale senza bloccarlo pur avendo gli strumenti per
farlo.
Dunque:
21 anni per Antonio Ciontoli,14 anni per moglie e i figli e 2 per Viola
Giorgini, imputata per il reato di omissione di soccorso, rispetto invece
all’accusa più grave, contestata alla famiglia, di omicidio volontario (non
premeditato), con dolo eventuale.
Deluse
profondamente le aspettative, troppo spesso umorali e sanguigne, di quelli che
tuttavia confidano in un possibile ribaltamento in peggio della sentenza o di
qualcuno che, ingenuamente, pensa che gli imputati siano già stati arrestati in
seguito alla sola richiesta di condanna. Per non parlare dei fautori di una
giustizia sommaria e vendicativa che svuota il sistema giuridico di regole e
tutele previste dai codici, come equità, rettitudine, terzietà, conformità alle
leggi, imparzialità, autonomia.
Tra
gli indignati, infatti, c’è pure chi scrive “rinchiudeteli e buttate la
chiave”, “anche l’ergastolo sarebbe poco”, “Io darei 30 anni al giudice”.
C’è chi lancia insinuazioni e
dubbi sulla titolare delle indagini e chi addirittura auspica, con grottesco
candore, che l’eventuale nuovo governo - ammesso che si faccia - possa
intervenire sulle scelte dei tribunali. E meno male che non c’è la pena di
morte!
Siamo alla degenerazione più
banale del concetto di utopia giuridica, una sorta di delirio della fantasia
ferita che induce a travisare, pericolosamente, le più elementari norme che
disciplinano l’organizzazione di una società e a ignorare la separazione e
l’indipendenza dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, quale
principio fondamentale dello stato di diritto.
E
queste riflessioni, nella tragedia che da tre anni in tanti seguiamo con
indubbia emozione, rappresentano gli aspetti paradossali e quasi comici che non
vorremmo ascoltare, leggere o dover sottolineare.
Ognuno
ha una sua legittima opinione, attribuisce un certo valore ai fatti e alle cose
pubbliche, che giudica con spontaneità, ma anche con impeto e pregiudizio.
O
istintivamente, a pelle o per sentito dire e senza conoscere carte e atti
processuali: tutto ciò allontana spesso dai criteri di oggettività. La razionalità
è compromessa dalla passione e dal dolore e da una pur naturale voglia di
vendetta. Siamo spesso sopraffatti dai nostri sentimenti.
Per
questo esiste una legge, per definizione uguale per tutti, sebbene non sempre
giusta e perfetta, non sempre infallibile, equidistante e soddisfacente o
immune da vizi, errori e interpretazioni. Una legge al di sopra delle parti,
alla quale dobbiamo attenerci, fare riferimento e che dobbiamo accettare, nel
rispetto dei diritti umani e costituzionali e della irrinunciabile civiltà
giuridica.
Non
faccio il mestiere di giudice, ma se la richieste del pubblico ministero
venissero accolte nella sentenza, sarebbe comunque un successo processuale. Si
scriverebbe una pagina di giustizia per il povero Marco e per sua famiglia, da
confermare poi negli altri gradi di giudizio.
Sempre
che la pena sia certa e venga scontata, senza abbuoni, attenuanti, benefici o
misure alternative.
Ma potrebbe andare peggio:
sono tutti incensurati.
21 marzo 2018 (Alfredo
Laurano)
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