giovedì 22 marzo 2018

QUANTA PENA MI DAI


Tutto, più o meno, come previsto. 
Nell’udienza di oggi, 21 marzo 2018, sono arrivate le richieste di condanna della PM al processo Vannini, del tutto in linea con le attese, anzi forse superiori per chi ha una vaga idea della giustizia, ma non con quelle popolari dei tanti che speravano di sentir pronunciare la parola ergastolo.
Per l’accusa, gli imputati hanno mentito ostinatamente con una ricostruzione dei fatti parziale; no alle attenuanti generiche per Antonio Ciontoli; i ruoli degli altri vanno differenziati, anche se tacciono e avallano quanto stabilito dal capofamiglia; i familiari vedono la situazione precipitare e lo stato di Marco contraddice Ciontoli che non interrompe la catena di avvenimenti, anzi svia gli altri protagonisti facendo dichiarazioni distorte, il che prefigura il dolo eventuale, uscendo dalla condotta standard da tenere in questi casi. Quindi accetta il decorso causale senza bloccarlo pur avendo gli strumenti per farlo.
Dunque: 21 anni per Antonio Ciontoli,14 anni per moglie e i figli e 2 per Viola Giorgini, imputata per il reato di omissione di soccorso, rispetto invece all’accusa più grave, contestata alla famiglia, di omicidio volontario (non premeditato), con dolo eventuale.

Deluse profondamente le aspettative, troppo spesso umorali e sanguigne, di quelli che tuttavia confidano in un possibile ribaltamento in peggio della sentenza o di qualcuno che, ingenuamente, pensa che gli imputati siano già stati arrestati in seguito alla sola richiesta di condanna. Per non parlare dei fautori di una giustizia sommaria e vendicativa che svuota il sistema giuridico di regole e tutele previste dai codici, come equità, rettitudine, terzietà, conformità alle leggi, imparzialità, autonomia.

Tra gli indignati, infatti, c’è pure chi scrive “rinchiudeteli e buttate la chiave”, “anche l’ergastolo sarebbe poco”, “Io darei 30 anni al giudice”.
C’è chi lancia insinuazioni e dubbi sulla titolare delle indagini e chi addirittura auspica, con grottesco candore, che l’eventuale nuovo governo - ammesso che si faccia - possa intervenire sulle scelte dei tribunali. E meno male che non c’è la pena di morte!

Siamo alla degenerazione più banale del concetto di utopia giuridica, una sorta di delirio della fantasia ferita che induce a travisare, pericolosamente, le più elementari norme che disciplinano l’organizzazione di una società e a ignorare la separazione e l’indipendenza dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, quale principio fondamentale dello stato di diritto.
E queste riflessioni, nella tragedia che da tre anni in tanti seguiamo con indubbia emozione, rappresentano gli aspetti paradossali e quasi comici che non vorremmo ascoltare, leggere o dover sottolineare.

Ognuno ha una sua legittima opinione, attribuisce un certo valore ai fatti e alle cose pubbliche, che giudica con spontaneità, ma anche con impeto e pregiudizio.
O istintivamente, a pelle o per sentito dire e senza conoscere carte e atti processuali: tutto ciò allontana spesso dai criteri di oggettività. La razionalità è compromessa dalla passione e dal dolore e da una pur naturale voglia di vendetta. Siamo spesso sopraffatti dai nostri sentimenti.
Per questo esiste una legge, per definizione uguale per tutti, sebbene non sempre giusta e perfetta, non sempre infallibile, equidistante e soddisfacente o immune da vizi, errori e interpretazioni. Una legge al di sopra delle parti, alla quale dobbiamo attenerci, fare riferimento e che dobbiamo accettare, nel rispetto dei diritti umani e costituzionali e della irrinunciabile civiltà giuridica.

Non faccio il mestiere di giudice, ma se la richieste del pubblico ministero venissero accolte nella sentenza, sarebbe comunque un successo processuale. Si scriverebbe una pagina di giustizia per il povero Marco e per sua famiglia, da confermare poi negli altri gradi di giudizio.
Sempre che la pena sia certa e venga scontata, senza abbuoni, attenuanti, benefici o misure alternative.
Ma potrebbe andare peggio: sono tutti incensurati.
21 marzo 2018 (Alfredo Laurano)

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