In tre minuti l'Italia piomba nell'incubo. E in quarant'anni di misteri.
Alle nove di mattina del 16 marzo 1978 a Roma, in via Fani, le Brigate Rosse rapiscono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, uccidendo i cinque componenti della sua scorta, che si trovano sulla Fiat 130 dello stesso Moro e sull’Alfetta che segue. E lo fanno con precisione chirurgica e millimetrica, lasciando del tutto illeso l’ostaggio e senza colpire alcun passante, altre vetture o madri con bambini.
Alle nove di mattina del 16 marzo 1978 a Roma, in via Fani, le Brigate Rosse rapiscono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, uccidendo i cinque componenti della sua scorta, che si trovano sulla Fiat 130 dello stesso Moro e sull’Alfetta che segue. E lo fanno con precisione chirurgica e millimetrica, lasciando del tutto illeso l’ostaggio e senza colpire alcun passante, altre vetture o madri con bambini.
Tutto, in soli tre minuti.
Sicuramente un piano studiatissimo,
dettagliato, sincronizzato, provato e riprovato nei tempi e nelle azioni.
Quel 16 marzo di quarant’anni fa non è un
giorno qualsiasi: è il giorno in cui Moro, ago della bilancia di un delicatissimo
equilibrio, sta andando alla Camera, dove il PCI, grazie alla sua mediazione e
al suo strategico lavoro politico, voterà per la prima volta la fiducia al
governo Andreotti.
Quando si diffuse la notizia della
strage, tutti si attaccarono alle radioline a transistor, tanta gente scese in
strada, molti operai uscirono dalle fabbriche, molte scuole chiusero, furono
allestite edizioni speciali di giornali e telegiornali. Fu un momento
incredibile che paralizzò le coscienze di milioni di persone, attonite e
sconvolte, compreso il sottoscritto.
Iniziò così, nel sangue, il sequestro
vero di Aldo Moro, nulla che vedere con la commedia comica, paradossale e forse
maledettamente profetica “il Fanfani rapito” di Dario Fo, che un paio d’anni
prima, aveva fatto tanto ridere in teatro.
Furono 55 giorni di apprensione, di
paura, di tensione: giorni che cambiarono per sempre la storia del nostro
Paese, segnandola in maniera profonda, fra indagini, smentite, depistaggi, false
segnalazioni, scoperta di presunti covi o prigioni.
Solo a Roma, 167mila identificazioni,
seimila posti di blocco, settemila perquisizioni domiciliari, di cantine,
garage e di qualsiasi automobile, in ogni angolo della città. Impiegati 172mila
carabinieri e poliziotti. Anche se, secondo la Commissione Parlamentare
d’Inchiesta, la punta più alta dell’attacco terroristico coincise con la punta
più bassa del funzionamento dei servizi informativi e di sicurezza. Le
attività di quei 55 giorni furono contrassegnate da una serie di errori,
omissioni e negligenze.
Dopo la delirante condanna, i
volantini, le comunicazioni, la spietata esecuzione e il ritrovamento del corpo
nella Renault rossa in via Caetani, si scoprì che il povero Moro era sempre
rimasto chiuso in una minuscola cella di due metri per novanta centimetri –
praticamente, già una bara – in cui scrisse un centinaio di commoventi lettere
alla famiglia, al partito, ai politici e, perfino, al papa.
Il tragico caso dello statista,
sequestrato e ucciso, ha prodotto un’infinità di libri, film, storie, inchieste,
supposizioni e teorie complottiste e, ancor oggi, continua a far parlare perché
ancora troppe verità sono negate: tanti restano i dubbi e nodi irrisolti sulla
dinamica del vile agguato, sulle motivazioni occulte, sulle strategie segrete e
sui veri perché di quell’eccidio.
Dietro quei fatti, sono state avanzate
spiegazioni e ipotesi di ogni genere: dalle trame eversive americane, a quelle
inglesi che, per non perdere il controllo delle rotte petrolifere, avrebbero ostacolato
la politica filoaraba e terzomondista di Enrico Mattei, morto in un “dubbio” incidente
aereo. Per gli inglesi, i comunisti avrebbero rappresentato un’ossessione, tanto
da contrastarli con ogni mezzo, persino arruolando schiere di intellettuali e
politici per orientare l’opinione pubblica e il voto degli italiani. L’apertura
al Pci delle porte del governo di “Solidarietà nazionale”, con conseguente
marginalizzazione del Partito Socialista di Craxi, avrebbe scatenato così
un’ondata terroristica, culminata nell’assassinio di Aldo Moro.
Tra altre false leggende, si affacciò
anche la tesi che avrebbe voluto lo statista democristiano "vittima di una
congiura ordita da Andreotti e Berlinguer”, oppure di un complotto
internazionale ad opera (a scelta) o della Cia o della polizia segreta
sovietica, sempre per tenere il PCI lontano dal governo, ridimensionando o
annullando di fatto la colpevolezza dei brigatisti, visti come automi meccanici
che eseguono ordini altrui.
Il toccante film documentario “Il
Condannato” di Ezio Mauro, in onda ieri sera su Raitre, ripercorre, ricostruisce
e racconta, senza fantasiose illazioni, quei fatti e quel progetto politico,
sulla sola base di documenti, testimonianze, interviste ai protagonisti,
ricerche, dossier e materiale d’archivio. Con sobrietà e fedeltà storica, con
l’ausilio di una grafica esplicativa, con uso di droni e con toni assolutamente
asciutti e privi di retorica, descrive le sensazioni e le fortissime emozioni
di quei giorni.
Una
cronaca rigorosa e molto coinvolgente per ricordare una delle pagine più
dolorose e devastanti della storia italiana. Soprattutto a chi non l’ha vissuta
e conosciuta.
17 marzo 2018
(Alfredo Laurano)
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