sabato 17 marzo 2018

MORO, QUARANT'ANNI DI MISTERI

In tre minuti l'Italia piomba nell'incubo. E in quarant'anni di misteri. 
Alle nove di mattina del 16 marzo 1978 a Roma, in via Fani, le Brigate Rosse rapiscono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, uccidendo i cinque componenti della sua scorta, che si trovano sulla Fiat 130 dello stesso Moro e sull’Alfetta che segue. E lo fanno con precisione chirurgica e millimetrica, lasciando del tutto illeso l’ostaggio e senza colpire alcun passante, altre vetture o madri con bambini.
Un’auto che precede inchioda all’improvviso e blocca il corteo, dai cespugli balzano una ventina di uomini vestiti da avieri, sparano a colpo sicuro sugli agenti, caricano Moro su un’altra auto e fuggono veloci. 
Tutto, in soli tre minuti. 
Sicuramente un piano studiatissimo, dettagliato, sincronizzato, provato e riprovato nei tempi e nelle azioni.
Quel 16 marzo di quarant’anni fa non è un giorno qualsiasi: è il giorno in cui Moro, ago della bilancia di un delicatissimo equilibrio, sta andando alla Camera, dove il PCI, grazie alla sua mediazione e al suo strategico lavoro politico, voterà per la prima volta la fiducia al governo Andreotti.

Quando si diffuse la notizia della strage, tutti si attaccarono alle radioline a transistor, tanta gente scese in strada, molti operai uscirono dalle fabbriche, molte scuole chiusero, furono allestite edizioni speciali di giornali e telegiornali. Fu un momento incredibile che paralizzò le coscienze di milioni di persone, attonite e sconvolte, compreso il sottoscritto.
Iniziò così, nel sangue, il sequestro vero di Aldo Moro, nulla che vedere con la commedia comica, paradossale e forse maledettamente profetica “il Fanfani rapito” di Dario Fo, che un paio d’anni prima, aveva fatto tanto ridere in teatro.

Un vero shock per l’Italia intera, un tragico evento: nulla sarà più come prima.
Furono 55 giorni di apprensione, di paura, di tensione: giorni che cambiarono per sempre la storia del nostro Paese, segnandola in maniera profonda, fra indagini, smentite, depistaggi, false segnalazioni, scoperta di presunti covi o prigioni.
Solo a Roma, 167mila identificazioni, seimila posti di blocco, settemila perquisizioni domiciliari, di cantine, garage e di qualsiasi automobile, in ogni angolo della città. Impiegati 172mila carabinieri e poliziotti. Anche se, secondo la Commissione Parlamentare d’Inchiesta, la punta più alta dell’attacco terroristico coincise con la punta più bassa del funzionamento dei servizi informativi e di sicurezza. Le attività di quei 55 giorni furono contrassegnate da una serie di errori, omissioni e negligenze.

Dopo la delirante condanna, i volantini, le comunicazioni, la spietata esecuzione e il ritrovamento del corpo nella Renault rossa in via Caetani, si scoprì che il povero Moro era sempre rimasto chiuso in una minuscola cella di due metri per novanta centimetri – praticamente, già una bara – in cui scrisse un centinaio di commoventi lettere alla famiglia, al partito, ai politici e, perfino, al papa. 
Il tragico caso dello statista, sequestrato e ucciso, ha prodotto un’infinità di libri, film, storie, inchieste, supposizioni e teorie complottiste e, ancor oggi, continua a far parlare perché ancora troppe verità sono negate: tanti restano i dubbi e nodi irrisolti sulla dinamica del vile agguato, sulle motivazioni occulte, sulle strategie segrete e sui veri perché di quell’eccidio.

Dietro quei fatti, sono state avanzate spiegazioni e ipotesi di ogni genere: dalle trame eversive americane, a quelle inglesi che, per non perdere il controllo delle rotte petrolifere, avrebbero ostacolato la politica filoaraba e terzomondista di Enrico Mattei, morto in un “dubbio” incidente aereo. Per gli inglesi, i comunisti avrebbero rappresentato un’ossessione, tanto da contrastarli con ogni mezzo, persino arruolando schiere di intellettuali e politici per orientare l’opinione pubblica e il voto degli italiani. L’apertura al Pci delle porte del governo di “Solidarietà nazionale”, con conseguente marginalizzazione del Partito Socialista di Craxi, avrebbe scatenato così un’ondata terroristica, culminata nell’assassinio di Aldo Moro.

Tra altre false leggende, si affacciò anche la tesi che avrebbe voluto lo statista democristiano "vittima di una congiura ordita da Andreotti e Berlinguer”, oppure di un complotto internazionale ad opera (a scelta) o della Cia o della polizia segreta sovietica, sempre per tenere il PCI lontano dal governo, ridimensionando o annullando di fatto la colpevolezza dei brigatisti, visti come automi meccanici che eseguono ordini altrui.

Il toccante film documentario “Il Condannato” di Ezio Mauro, in onda ieri sera su Raitre, ripercorre, ricostruisce e racconta, senza fantasiose illazioni, quei fatti e quel progetto politico, sulla sola base di documenti, testimonianze, interviste ai protagonisti, ricerche, dossier e materiale d’archivio. Con sobrietà e fedeltà storica, con l’ausilio di una grafica esplicativa, con uso di droni e con toni assolutamente asciutti e privi di retorica, descrive le sensazioni e le fortissime emozioni di quei giorni.
Una cronaca rigorosa e molto coinvolgente per ricordare una delle pagine più dolorose e devastanti della storia italiana. Soprattutto a chi non l’ha vissuta e conosciuta.
17 marzo 2018 (Alfredo Laurano)

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