Mi dimetto, anzi no, anzi forse, ma non
subito, non per ora.
Il pallonaro fiorentino colpisce
ancora, anziché essere colpito. E con la consueta arroganza, la proverbiale
faccia tosta.
Non una sola parola sulle sue colpe e
sui suoi errori, senza nemmeno chiedersi perché il Pd si sia sbriciolato. Ha
attribuito tutta la responsabilità della sconfitta ad altri, agli italiani che
si sono fatti abbindolare, ai dissidenti, ai suoi compagni di partito ed ex.
E con la stessa aria di sempre,
inadeguata, per niente sommessa e consapevole, come il momento della batosta,
storica e sonante, avrebbe richiesto. Con la solita faccia da bullo e il tono
da guappo, sprezzante, irridente e per niente pentito, capace ancora di fare ironia,
lanciare battute e ridicoli calembour. Come se non fosse successo niente, come
se lui fosse lì di passaggio a rimirar lo scempio.
Una sortita penosa e teatrale, degna
dell’avanspettacolo raccontato da Fellini, tra fischi, invettive e lancio di
gatti morti contro il commediante.
In pratica, dimissioni sì, ma
congelate. Fino al nuovo governo o a nuove elezioni.
In altre parole, Renzi annuncia che,
prima o poi, se ne andrà, ma per il momento rimarrà alla guida del partito, per
condizionare le fasi nel prossimo passaggio istituzionale, le soluzioni
dell’immediato futuro e le prossime scelte del capo dello stato, a cui ha
rivolto anche un'implicita critica: l’errore di non aver mandato il Paese al
voto, dopo le sue dimissioni da Presidente del Consiglio.
Nel partito esplode il malcontento. "La decisione di Matteo Renzi di
dimettersi e contemporaneamente rinviare la data delle dimissioni non è
comprensibile. Serve solo a prendere ancora tempo. Le dimissioni di un leader
sono una cosa seria, o si danno o non si danno, senza calcoli e manovre”
(Zanda).
Stessa posizione da parte di altri
esponenti del partito, come Anna Finocchiaro e Cuperlo e, soprattutto da
Orlando che con durezza dice:
"Di
fronte alla sconfitta più grave della storia della sinistra italiana del
dopoguerra, mi sarei aspettato una piena assunzione di responsabilità da parte
di un segretario che ha potuto definire, in modo solitario, la linea politica,
gli organigrammi e le candidature. Invece siamo alla ormai consueta elencazione
di alibi e all'individuazione di responsabilità esterne. Ci ha condotto alla
sconfitta e oggi si riserva il compito di affrontare, senza nessuna
autocritica, questa travagliatissima fase per il Pd e per il Paese”.
Insomma, una sorta di ricatto, dopo la
disfatta, in attesa che passi la nottata e la tempesta: finge di dimettersi e
prende in ostaggio il partito, con la scusa di essere l'unico garante del “non
inciucio”. Un gioco di furbizia e di retorica per continuare a tenere il banco,
almeno fino al prossimo congresso. Poi, si vedrà.
Ma sarebbe bastato, semplicemente, non
annunciare le dimissioni. Chi l’ha costretto?
Il suo inconfessato senso di colpa?
O quella forma di comunicazione,
strategica e manipolatoria, che da sempre usa per pararsi il cu…ore, ma che
offende le persone?
6 marzo 2018 (Alfredo Laurano)
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