sabato 17 dicembre 2022

LA MEMORIA DEL DOLORE MAI FINITO /2240


E’ il momento del ricordo, del dolore collettivo di un popolo falcidiato dal Coronavirus.
Un popolo che ad oggi conta oltre centotremila vittime in Italia, duemilionisettecentomila nel mondo, a fronte di ducentoventunomilioni di casi confermati, dall'inizio della pandemia.

Oggi, 18 marzo, è la Giornata nazionale in memoria delle tante, troppe vittime dell’epidemia di coronavirus, dei tanti che se ne sono andati, soprattutto un anno fa, in perfetta solitudine, nelle residenze sanitarie, negli ospedali, nelle terapie intensive di un sistema sanitario in tilt e collassato, nonostante lo straordinario impegno di medici e infermieri e personale vario, provato e resistente a oltranza. 

Uomini e donne, padri, madri, nonni, anziani e anche giovani, caduti senza un saluto, senza un funerale, senza il conforto di un familiare o di un amico, fra carenze di cure idonee e adeguate, di bombole di ossigeno, di caschi, di ventilatori, di valvole e respiratori e, perfino di disinfettanti e mascherine: il segnale inequivocabile della nostra evidente e totale impreparazione ad affrontare un nemico sconosciuto, ma spietato.

Come dimenticare le bare allineate nelle chiese e in ogni dove, perché non c’era spazio nelle camere mortuarie e nei crematori. O le lunghe sfilate di camion dell’esercito che le trasportavano di notte.

Quanti lutti, quanti pianti, quante testimonianze strazianti, quanti racconti toccanti e coinvolgenti. Un anno fa, eravamo chiusi in casa, in preda al panico e all’angoscia.

C’era chi pregava, chi faceva scongiuri o riti e gesti propiziatori, chi si affidava a santi e madonne famose, chi toccava amuleti e talismani o chi esponeva crocefissi, come a Brescello di Peppone e don Camillo. Il Papa, bontà sua, diceva la messa ogni mattina da Santa Marta, in diretta dalla sua TV.

Ognuno cercava di esorcizzare la paura, per sentirsi meno solo. Per farsi coraggio. Per combattere il maligno virus, come credeva o come poteva, a seconda della propria formazione culturale o della propria fede.

E allora, città deserte e senza vita, scuole, fabbriche e negozi chiusi, balconi e finestre pieni di bandiere, dove tutti insieme cantavano canzoni, più per disperazione che per latente passione, E si applaudiva da un palazzo all’altro e in ogni paese, su appuntamento collettivo. Flash mob in tutta Italia con l'Inno di Mameli ed altri brani intrisi di speranza, per distrarsi un attimo e condividere l’inquietudine e la pena.

Dappertutto, tra milioni di arcobaleni colorati, si scriveva: ce la faremo, tutto andrà bene. L’invito alla resilienza, rilanciato sui social, aveva il suo effetto in una nazione sconvolta. Il senso della comunità, del destino comune e la voglia di vivere o sopravvivere prevaleva in un Paese bloccato e spaventato, che cantava per non piangere: quelle note scioglievano o coprivano le lacrime che ci portavamo dentro, in una sorta di funzione apotropaica, largamente condivisa.

Qualcuno parlava di popolo da operetta, “sembriamo l'orchestra del Titanic, che continua a suonare mentre la nave affonda”.

Oggi, non è cambiato molto e l’incubo persiste in quella che chiamiamo terza ondata: non cantiamo più Azzurro, ma quasi tutta Italia è in zona rossa, gli ospedali scoppiano, i medici e gli infermieri crollano dalla stanchezza e moltissimi continuano a contagiarsi con le tante varianti del maledetto virus. E i morti sono sempre tanti.

Ma abbiamo un’arma in più: il vaccino, costruito in fretta, e la speranza di vincere la guerra alla pandemia. Anche l’AstraZeneca, appena riammesso dall’EMA alla somministrazione, pur fra mille dubbi e titubanze.

18 marzo 2021 (Alfredo Laurano)

 


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