giovedì 6 ottobre 2016

FUOCOAMMARE: L’ISOLA DEL PUDORE

Col distacco del documentarista, ma con la sensibilità del bravo cineasta, Gianfranco Rosi racconta con pudore e con rispetto la sua Lampedusa - dove ha vissuto un anno per capire cosa vuol dire vivere su quell’isola, più vicina all’Africa (70 miglia) che alla Sicilia (120) - e i diversi destini di chi sull’isola ci abita da sempre e di chi ci arriva da migrante.
E mostra, quindi, in parallelo, due diverse Lampedusa.
C’è quella di una quotidianità scandita dall’attività dei pescatori e dalla vita di famiglia: dialoghi scarni intervallati da lunghi silenzi, mentre sbrogliano le reti, fanno i compiti, rammendano, cucinano, mangiano, riordinano la casa. Con la nonna che rifà il letto e bacia una ad una le grandi statue dei santi, poste fra i mobili. 
Con le esperienze di Samuele, un ragazzino che cresce come quelli di una volta, lontano dalla tecnologia, nel costante confronto con la natura e l’ambiente, dove verifica le proprie capacità. 
Che tira con la fionda, parla con gli uccelli, soffre il mal di mare e ha un occhio pigro che non gli fa vedere bene. 
E risucchia rumorosamente gli spaghetti allo scoglio, divorati con appetito.
Alcuni momenti sono unici e indimenticabili.

L’altra, è quella del dramma dei migranti, che arrivano in condizioni disumane, che vengono intercettati in mare e spesso portati in salvo da una catena umana di soccorsi che lascia ammirati e costernati.
Non racconta quella turistica e delle cartoline, con le spiagge bianche e le acque cristalline, ma una Lampedusa invernale, quasi antica, dai ritmi lenti e pigri come la stessa narrazione, di campagna più che di mare, con immagini a luci basse di straordinaria bellezza, sapientemente fotografate e montate.
Ma nemmeno sequenze drammatiche di barconi e morti, viste tutti i giorni nei TG. 

Da tutto questo nasce Fuocoammare: una testimonianza autentica, dura, asciutta, mai retorica o esornativa, neppure quando mostra situazioni al limite e la camera inquadra sbarchi e salvataggi, vita e morte, senza alcun compiacimento, pur privilegiando il punto di vista di un ragazzo.
Samuele e i lampedusani sono i testimoni, a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.
Samuele vive la sua vita e non incontra mai i migranti.
Lo fa, invece, il dottor Bartolo, unico medico dell’isola, costretto dalla propria professione a constatare i decessi, a svolgere pratiche anatomiche poco piacevoli, ma capace di grande umanità e di non abituarsi alla macabra routine. 
C’è autentico strazio delle sue parole.

Secondo parte della critica, l’autore si accontenta di mostrare per interminabili minuti un bambino che gioca con la fionda e perde l’occasione di raccontare la realtà di Lampedusa. Di rivelare al mondo le condizioni un’isola devastata dalla gestione scellerata dei fenomeni migratori, dall’occupazione militare che subisce da decenni, dalla situazione tragica dei pescatori che stanno scomparendo, dalla mancanza di un ospedale, dai livelli altissimi di elettromagnetismo (e quindi alle morti per tumore) che i moltissimi radar militari provocano. Né fa alcun riferimento ai migranti scampati al deserto, ai trafficanti, alle polizie e alle carceri di mezza Africa, alle guerre sante che provocano milioni di profughi.
Invece di contribuire alla sua riscossa, Fuocammare “si accontenta di un voyeurismo sterile e mistificatore, da dare in pasto ad una critica ignorante e poco informata”, scrive qualcuno.

Ma per denunciare tutto questo e per soddisfare tali attese, però,  avrebbe dovuto concepire e scrivere tutto un altro film, anzi realizzare un capillare reportage, un film d’inchiesta ad ampio raggio.
Rosi ha fatto altro, ha girato e rappresentato quello che aveva pensato e vissuto, non quello che qualcuno voleva o s’aspettava: un’opera di alto profilo, che emoziona, che suscita una naturale empatia e che, narra, con assoluta discrezione e garbo, la semplice solidarietà e un pezzo di reale umanità.
6 ottobre 2016 (Alfredo Laurano)


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