mercoledì 22 luglio 2020

SENZA RESPIRO /2060

SENZA RESPIRO, IL CORONAVIRUS NEGLI OCCHI DEI SOPRAVVISSUTI 

Ieri sera, su Rai 2, è andato in onda un pezzo di Storia contemporanea, tra la vita e la morte, tra il fallimento e la volontà, tra il dolore, la sofferenza, lo strazio e la forza di combattere.
 «Molti l’hanno chiamata guerra, un microbo letale ci ha messo in ginocchio». La voce fuori campo accompagna tesa le immagini aeree del drone che sorvola l’ospedale di Cremona, i tetti rossi di Piacenza, Bergamo e Codogno.
Si apre così, sull’angosciante soffio dei respiratori meccanici “Senza respiro”, un racconto corale dove tutto è cominciato, dai primi contagi, ai ricoveri e le morti in solitudine, sino al lento risveglio delle città.
Colpisce duro, commuove, ma lascia anche aperta la porta alla speranza questo documentario di 60 minuti. Un racconto inedito, in prima linea, di quanto il Paese ha vissuto in queste settimane, diretto dalla regista italo australiana Sasha Joelle Achilli.

«Ci siamo dedicati al racconto emotivo, alle ferite dell’animo lasciate dal Covid-19, liberando quelle forti sensazioni che, dopo lo choc traumatico erano rimaste nascoste, non dette – spiega il conduttore Duilio Giammaria. Dopo 15 lunghe serate di Petrolio Antivirus, passate ad analizzare dati scientifici - siamo stati i primi a evidenziare il caso di Vo’ Euganeo e le intuizioni di Crisanti sui tamponi agli asintomatici e a parlare compiutamente del plasma iperimmune come tecnica immunitaria contro Covid-19 - ci siamo resi conto che avevamo tralasciato di raccontare le esperienze dirette dei pazienti, sconvolgenti per la crudezza delle descrizioni su quello che hanno passato, e dei medici».
Alcuni dei protagonisti del documentario hanno commentato poi insieme a Giammaria le immagini per raccontare cos’è il dolore. La dottoressa Francesca Mangiatordi, in prima linea al Pronto Soccorso di Cremona, tra l’altro autrice delle celeberrima foto di Elena, l’infermiera stremata dalla stanchezza sulla tastiera del computer. Oltre all’intervento di Gino Strada, i “sopravvissuti” al Covid-19: i medici piacentini ammalatisi in servizio, il dottor Franco Pugliese, direttore del dipartimento sicurezza Ausl di Piacenza; l’imprenditore Carlo Dodi che tra la vita e la morte ha riscoperto il valore di una vita più profonda; e il giovanissimo Mattia Cotardi, insieme alla mamma Ombretta, il 18enne che ha lottato tra la vita e la morte che incarna l’essenza stessa della rinascita. «Con loro scandiremo la parola “dolore” per capire come le emozioni siano una forma di intelligenza collettiva – aggiunge Giammaria –. Ho voluto che fosse un lavoro catartico, una serata come davanti al caminetto per raccontare quello che abbiamo passato, come esperienza condivisa che serve a curare le ferite e a non dimenticare un dramma che ha seminato in Italia quasi 34mila morti. Ma è anche la dimostrazione del fatto che il linguaggio del documentario è fondamentale per capire in profondità».

A fare da sottofondo a tutto il documentario c’è il rumore costante dei respiratori, un soffio agghiacciante che accompagna le immagini all’interno dell’ospedale. Un rumore che non abbandona più chi ci è passato e ti descrive il panico che si prova sotto il casco ad ossigeno o, da medico, ti spiega senza tanti giri di parole cosa è una tracheotomia. Un respiro meccanico che accompagna anche le immagini indimenticabili di papa Francesco da solo in piazza San Pietro, in un racconto di grande potenza emotiva, tra cinema e reportage.
A toccarci il cuore le giornate affannate della dottoressa Francesca Mangiatordi alla disperata ricerca di un posto letto all’ospedale di Cremona. Tocca a lei cercare di rassicurare, ma anche di salvare, una mamma di 30 anni che telefona disperata al marito lasciato a casa con tre bambini piccole. C’è un’altra mamma, invece, a Codogno, positiva al Covid, confinata in camera, che prende il tè del pomeriggio col marito e il figlio, separati da una porta e collegati con una videochiamata. Ci commuovono gli occhi umidi dell’imprenditore piacentino Carlo Dodi, che non possono dimenticare le anziane che si spegnevano accanto a lui con ancora la borsetta sul letto, e i parenti che preferiscono tenere in casa la Teresina anche se malata perché sanno che se a 87 finisce in ospedale difficilmente la rivedranno. 
E poi c’è Mattia, 18 anni, a un passo dalla morte, con le dottoresse e le infermiere che da mamme non sanno darsi pace. La testardaggine della gioventù avrà la meglio: il ragazzo riapre gli occhi, ricomincia debolmente a sorridere e, alla fine, esce, salvo come il soldato Ryan, dalla trincea dell’ospedale.
Una speranza forte, oggi più che mai.
12 giugno 2020

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