mercoledì 9 ottobre 2019

VAJONT: IL RACCONTO DI MAURO CORONA /1880


Mauro Corona, scrittore, scultore e alpinista, personaggio autorevole e sensibile ai temi del rapporto fra l’uomo e la natura, racconta, in un’intervista a tratti commovente, come ha vissuto la giornata del 9 ottobre 1963 e l’impatto che ha avuto sulla sua vita l’immane tragedia.

Il 9 ottobre del ’63 avevo tredici anni. Il mattino di quel giorno ero a Longarone. Le scuole medie al tempo erano già obbligatorie.
Lo vivevo come un trauma. Dopo le vacanze estive abbandonavo la malga (in cui facevo la stagione come bracciante e pastore) per andare a scuola a Longarone. L’impatto era micidiale perché eravamo bambini selvatici, liberi e facevamo veramente fatica a stare assieme ad altri ragazzi sconosciuti, ad abituarci ai compiti da fare e ai libri da studiare, con una disciplina da seguire assai diversa da quella della malga.
Fino alle 14:00 di quel giorno quindi, ero a Longarone. Successivamente tornai a Erto. La vita andò avanti regolare fino alla sera.
Ricordo benissimo mia nonna che diceva: “preghiamo perché viene giù il Tóc”. I segnali e le avvisaglie purtroppo c’erano: terremoti, scossoni e la spaccatura del monte che si apriva un metro e mezzo al giorno.
Io e i miei fratelli eravamo da soli coi nonni perché mio padre era a caccia, in giro per i boschi, da una settimana.
Ricordo bene il nonno: un omone alto un metro e novantasei. Oltre a loro, viveva con noi anche una zia sordomuta.

La notte si andò a dormire. A un certo punto sentimmo un fortissimo terremoto.
Era il terremoto del Vajont. Un rumore che solo i sopravvissuti possono ricordare e che nessuno mai potrà imitare. Il rumore di quella notte fu qualcosa di indescrivibile.
Pensiamo a un camion di ghiaia che si scarica. Già così il rumore è infernale. Immaginiamoci quel che potrebbe accadere con una frana del genere. Era come se un miliardo di aerei ci stessero passando sopra la testa nello stesso istante.
Mancò la luce. Gli ertani si trovarono in strada. “È venuto giù il Tóc”.
Non sapevamo di essere tutti miracolosamente scampati alla morte grazie al gobbone del monte Borgà che deviò l’acqua risparmiando il centro. Purtroppo l’onda si abbatté sulle frazioni popolate di San Martino, Piénda, Prada, Lirón, Marzana, Savéda, Il Cristo, Fraséing e Le Spesse facendo una strage.

Ricordo una vecchietta, che abitava a un metro dalla nostra abitazione, che aveva un figlio guardiano sulla diga. Di lui non è stata trovata neppure una minima traccia. A volte mi chiedo cosa possa aver visto quell’uomo. Era un bell’uomo. Si chiamava Felice, lo ricordo benissimo, il Venerdì Santo faceva la Parte del Cristo.
Gli ertani dicevano: “bisogna andare in alto”. Riparammo in una casa in cima a un colle, un’abitazione della famiglia dei “Davìde” (Giulio Davide) e nel frattempo un uomo che si chiamava Rico si recò a San Martino, un’altra delle frazioni colpite, per controllare la situazione lì, dal momento che non si vedevano più le luci del borgo.
San Martino non c’era più.
Altri invece raggiunsero Casso per osservare il fondovalle e cercare di capire cosa era successo a Longarone, ma non videro le luci di Longarone. Da Casso provenivano urla strazianti.
E allora si capì che era successo qualcosa di grave.


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