I media borghesi, si sa, riescono a triturare qualsiasi
evento per presentarlo al grande pubblico, privilegiando gli aspetti che tornano più utili.
Come le immagini delle guerrigliere curde, continuamente
diffuse dai media, che mostrano donne giovani e belle, così sorridenti che non
sfigurerebbero sulla copertina di una rivista fashion.
La loro presenza attiva nella resistenza curda, però, non è
più, da tempo, solo un pettegolezzo dei mezzi di comunicazione, in un miscuglio
di orientalismo, attrazione per l’esotico e fascinazione per le donne-soldato.
C’è una ragazza in una prigione turca che dipinge con il
proprio sangue mestruale.
Il suo nome è Zehra Dogan e sua colpa è aver realizzato un
dipinto per denunciare la violenza e i soprusi perpetuati sul popolo curdo dal
governo di Recep Tayyp Erdogan. Giornalista, pittrice e attivista del Pkk, il
Partito curdo dei lavoratori, considerato un'organizzazione terroristica dalla Turchia, sta pagando con la propria libertà la
volontà di non chinare la testa di fronte al regime.
La sua è una delle storie più eclatanti di resistenza
femminile all'oppressione ma non è la sola, visto che la Turchia è la nazione
al mondo con più giornalisti incarcerati (anche più della Cina) e che la
maggior parte di loro sono donne.
A raccontarle è la giornalista Antonella De Biasi, autrice
insieme ad altri del libro Curdi, edito da Rosemberg & Sellier.
Le donne combattenti sono oltre diecimila: “Il nostro
numero è cresciuto specialmente dal 2014, allorché cominciarono a emergere le
azioni criminali dei terroristi islamici a danno delle yazide: violentate,
ridotte a schiave sessuali e poi uccise”. Da allora, il desiderio collettivo di
rivalsa nei confronti dell’efferatezza jihadista, causa primaria di molta
sofferenza, si è fatto irrefrenabile.
Ma c’è un elemento particolare che contribuisce a rendere
la loro ingerenza militare ancora più temibile: il disagio del nemico.
Per un integralista, infatti, nulla è più infamante della
morte inferta in battaglia da una donna, passibile di imporsi in termini di
soggetto vero e proprio e relegare il maschio al ruolo di vittima impotente. In
sostanza, un miliziano ucciso da un essere potenzialmente inferiore non potrà
godere della bellezza e delle delizie riservate ai martiri eletti nel
fantomatico paradiso di Allah; oltretutto dovrà rinunciare alla compagnia
perenne delle 75 vergini promesse dal Corano. La condanna prevista per i vili
resta insomma l’astinenza eterna: una circostanza che nel contesto
fondamentalista incarna la punizione peggiore. “E’ esattamente la ragione per
cui tendono a fuggire appena ci vedono, ma per noi è un vantaggio”.
Quelle donne sono al centro della liberazione sociale e la loro lotta al centro della lotta nazionale.
Le tantissime donne che sono partite per le montagne e hanno formato un esercito, hanno combattuto coraggiosamente contro il sistema di sfruttamento e distrutto la mentalità che afferma che la guerra è una cosa da uomini. La lotta di liberazione delle donne curde non è solo contro l’esercito turco, ma è anche contro la mentalità maschilista dominante e il sistema crudele di sfruttamento che ha creato.
La guerra ha portato a un
grande cambiamento sociale e di trasformazione, ha distrutto la mentalità
comune contro le donne, ha cambiato i costumi e la cultura di genere e ha
permesso alle donne curde di diventare soggetti in tutti i settori della vita,
di assumere un ruolo attivo nella vita sociale e politica e di guidare
sommosse civili e forme di resistenza pubblica.
Disposte a qualunque sacrificio pur di annientare la
minaccia incombente del Daesh, le guerrigliere hanno accettato di sottostare ai
rigorosi e precisi dettami imposti dalla stessa organizzazione, abdicando
spontaneamente a ogni altra prospettiva esistenziale.
“Decidendo di indossare la divisa abbiamo accettato di rimanere nubili. Non possiamo avere figli o flirtare con i nostri compagni”, hanno sottolineato. “Dobbiamo ammettere che da quando ci siamo arruolate non è mai accaduto che le regole venissero infrante, ma d’altronde è logico: ogni energia va concentrata sull’obiettivo principale, ossia la lotta all’Isis”.
“Decidendo di indossare la divisa abbiamo accettato di rimanere nubili. Non possiamo avere figli o flirtare con i nostri compagni”, hanno sottolineato. “Dobbiamo ammettere che da quando ci siamo arruolate non è mai accaduto che le regole venissero infrante, ma d’altronde è logico: ogni energia va concentrata sull’obiettivo principale, ossia la lotta all’Isis”.
Non c’è spazio per lo svago: la spensieratezza di un
tempo è stata seppellita tra le pieghe del passato e nulla sarà più come prima.
Nelle fasi di forzata inattività, al riparo di edifici
diroccati assurti a sedi operative temporanee, le ragazze cercano di ritrovare
la normalità perduta, pur consapevoli del fatto che gli orrori della guerra,
l’odore del sangue, la consapevolezza della precarietà costante hanno ormai offuscato
la speranza nel futuro, poiché ogni sguardo rivolto al cielo potrebbe rivelarsi
l’ultimo.
13 ottobre 2019 (Alfredo Laurano) Fonte: Dol’s Magazine
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