domenica 8 luglio 2018

PARLA COME DIGITI

In principio era il verbo, poi arrivò l’idioma digitale - poco gentil, sonante e impuro - la lingua di Internet, ufficializzata e diffusa dall'Urban Dictionary, il vocabolario online più famoso delle espressioni gergali del web. Quasi uno Zingarelli del linguaggio, soprattutto, giovanile. 

Dall’antico e inflazionato “scialla” (rilassati, stai sereno), di qualche tempo fa, a lol (risata), a fake (falso), passando per troll (disturbatore): una lingua nasce, cambia, si adegua, si rinnova. 
E lo fa anche, o soprattutto, grazie ai neologismi inventati e introdotti nel parlare comune da mode, da tendenze, da grandi cambiamenti, come quello innescato dalla rivoluzione tecnologica. Si creano, si diffondono, spesso si subiscono.
È innegabile che Internet abbia cambiato, non solo la realtà, ma anche il modo di comunicare, i modi usati per parlare, scrivere e dialogare (applicazioni, chat, social network), quasi sempre con espressioni e forme proprie dal mondo on line.
"Mi whatsappi la foto che hai twittato, così la posto su Facebook e taggo gli altri amici?". 
Se qualcuno dieci anni fa avesse pronunciato simil bestemmia, lo avrebbero ricoverato e curato in un centro per disabili della parola, affetti da disturbi dell’afasia. 

Nel linguaggio ormai comune, mutuato dal mondo della Comunicazione tecnologica e da quello dell'Informatica, fanno parte anche parolacce come bannare (bloccare l'accesso, escludere), loggarsi (effettuare un accesso), cliccare (parola onomatopeica per indicare di premere un pulsante), crackare (aggirare le protezioni di un programma), scrollare (scorrere la rotella del mouse per leggere una pagina sul web), taggare (identificare, da tag: etichetta, cartellino, aggiunto ad una foto, esattamente come quelli che si trovano sugli articoli in vendita nei negozi, skippare (cambiare discorso, saltare), zippare (comprimere file in una cartella per occupare meno spazio).

I nuovi media hanno velocizzato la circolazione di notizie, ma anche delle parole, ben oltre il loro significato semantico: basti pensare alla facilità con cui tutto oggi può diventare virale, o magari un meme: un’immagine, un video, un testo, un gioco, una parodia divertente che in pochissimo tempo si trasforma in un fenomeno di massa e capillare, uno stereotipo, che si propaga tra le persone attraverso la copia o l'imitazione, mediante condivisione. Sono una sorta di spot, di contenuto variamente “culturale” e intergenerazionale, compresi e condivisi sui social da figli e genitori allo stesso tempo. 
Una volta si chiamavano tormentoni, oggi si chiamano così.

Nella comunicazione giovanile, secondo l’analisi socio-antropologica, è implicita anche una funzione “tribale", una sorta di codice per riconoscersi fra simili ed escludere gli altri dalla comunicazione del gruppo, all'interno del quale il lessico permette l'identificazione, anche attraverso nickname, parole d’ordine o soprannomi a volte esagerati.

La nostra vita nella giungla digitale comporta comunque un’accelerazione del linguaggio che non ammette repliche e ignoranza e che dà spesso luogo a una ormai inevitabile forma di analfabetismo funzionale, al contrario. Quante volte, infatti, post, tweet, tutorial e hashtag, impronunciabili e incomprensibili, ci escludono da quel solenne consesso, non possedendo le chiavi del suo codice segreto?
Tutto, in ogni caso, resta condizionato dall’attitudine generale al "time-saving", ovvero il risparmio del tempo, coinvolge web e smartphone, spingendoci a parlare con acronimi ed icone, con abbreviazioni e slogan, con faccine ed emoticons, di ogni tipo e genere, che spesso riassumono intere perifrasi.

E il vocabolario soffre e si impoverisce, insieme alla grammatica, perde gli accenti, oltraggia le acca del verbo avere, rinnega la punteggiatura.    
Ma non importa, ciò che conta non è la ricchezza o la povertà di un linguaggio ridotto a slang, ma l’ansia da social, da soddisfare a tutti i costi. Quel bisogno, ineluttabile e insopprimibile, di presenza. 
Quella necessità di esserci, comunque, per illudersi di contare. (Alfredo Laurano)



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