martedì 19 dicembre 2017

SE MI VUOI LASCIARE

Manifestazioni, proteste, cortei, mobilitazioni, raccolte di firme, giornate nazionali e internazionali contro la violenza sulle donne non riescono a disinnescare la cultura dominante del possesso, del dominio del maschio padrone sulle femmina oggetto o schiava nel terzo millennio.
Non riescono ancora a diffondere e far acquisire agli uomini, alla politica, ai media, al mondo della scuola, alla società comune i concetti di base della libertà, dei diritti e dell’uguaglianza di genere. A imprimere un cambio di rotta nei comportamenti e nel linguaggio, a rimuovere antichi stereotipi primitivi e pseudo educativi, stante il dilagare di un fenomeno preoccupante, costante e irreversibile, che vede sanguinosi episodi che continuano a ripetersi con drammatica frequenza. 

Ieri, a Parabiago, un’altra donna di 33 anni, madre di due figli piccolissimi, è stata uccisa con tre coltellate dal compagno, solo perché voleva lasciarlo. 
Un ennesimo femminicidio che si consuma nella giungla della prepotenza da un animale che vuol dominare il branco, che non vuol condividere la sua preda con altri o lasciare che essa fugga e si sottragga al suo possesso.
Una merce di assoluta proprietà, acquisita forse col consenso, ma mantenuta e degradata col terrore e le minacce: per questo parliamo di femminicidio. Perché questa parola, che molti non capiscono o non sanno motivare (“a cosa serve chiamarlo femminicidio? Il termine omicidio comprende già i morti di tutti i sessi!”), non indica il sesso della morta, ma indica il motivo per cui è stata uccisa.
Come spiega, con chiarezza, la saggia scrittrice sarda Michela Murgia, “una donna uccisa durante una rapina non è un femminicidio. Sono femminicidi le donne uccise perché si rifiutano di comportarsi secondo le aspettative che gli uomini hanno delle donne. Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto. Dire femminicidio ci dice anche il perché”
La prospettiva cambia del tutto quando si chiarisce e si comprende che tale termine non si riferisce solo alle centinaia di donne uccise da compagni, mariti o ex respinti, ma anche alle pratiche di mortificazione e discriminazione a cui quotidianamente milioni di donne vengono sottoposte, senza che i responsabili ne paghino il giusto o alcun prezzo. 
Sono morti civili tutte le negazioni di dignità (lavoro, welfare, maternità, canoni etici ed estetici, ricatti sessuali) e tutte le violenze fisiche, psichiche e morali rivolte alle singole donne in quanto genere, in quanto femmine. 
Sono pratiche di negazione e di controllo e il femminicidio è l’inevitabile conclusione di un infame processo, che minacce, abusi, costrizioni e intimidazioni hanno fatto maturare.
18 dicembre 2018 (Alfredo Laurano)


Nessun commento:

Posta un commento