domenica 15 gennaio 2017

IL POETA DELLA “DOGLIA UMANA”

Un plauso a Raitre che l'altra sera (13 gennaio 2017) lo ha messo in onda per chi lo avesse perso: un film straordinario, coinvolgente e commovente, che racconta, anche attraverso le sue debolezze, la storia della sofferenza umana, non solo fisica, e la grandezza poetica e filosofica di un genio. 
"Così si filma la poesia!"
Chi non ha mai visitato Recanati, Palazzo Leopardi, le tante stanze della ricca biblioteca e gli altri suggestivi luoghi leopardiani (il Colle, la piazzetta, la torre), scopre subito, all’inizio del film “Il giovane favoloso”, la difficile adolescenza del poeta nell’ "odiato borgo natio”.
Scopre il giovane Giacomo, dalla salute cagionevole, ma dotato di grande lucidità intellettuale e di sottile ironia, intento nel debilitante e continuo studio “matto e disperatissimo”.
Lo vede crescere nel culto della filologia e delle letterature classiche, fra traduzioni e versi che compone nella casa-prigione-biblioteca, dalle cui finestre si strugge di malinconia per Silvia.
Scopre il conflittuale rapporto con il padre, il conte Monaldo, affettuoso e protettivo, ma severo conservatore, che ama profondamente il figlio, ma non riesce ad incontrarlo a fondo: “Quando provo ad avvicinarmi al tuo cuore ci inciampo dentro”.
Quello giocoso e complice con gli amati fratelli Carlo e Paolina… “non stancarti di volermi bene!” e quello inesistente con l’algida e bigotta madre, priva di qualsiasi slancio e di carezze.

Chi lo ha fatto (visitato), invece, tutto questo lo ritrova e lo rivive sullo schermo, perché, in qualche modo, l’aveva assorbito, immaginato o sognato, osservando quei luoghi magici e parlanti.
In entrambi i casi, tuttavia, si ha la sensazione di riscoprire, più che di provare, un serie di emozioni innate o spontanee, latenti o conosciute.
Un po’ come nella dottrina platonica della reminiscenza: la nostra anima, prima di calarsi nel corpo, è vissuta nel mondo metafisico delle idee di cui conserva un sopito ricordo e, grazie all’esperienza delle cose - che sollecita la memoria - rievoca ciò che ha già visto nell’Iperuranio. Per cui, Platone dirà che conoscere equivale a ricordare.
Nel nostro caso, quindi, è come se quel leggendario giovane l’avessimo sempre conosciuto, nel suo contraddittorio “iperuranio recanatese”.

Il Giovane Favoloso è un film biografico, avvincente, scorrevole e coerente, dove la poesia è protagonista, ma è anche il resoconto di una continua lotta fra luoghi comuni. Una lotta senza fine che Leopardi condusse non solo e non tanto contro il suo corpo, ma contro l'immagine, i preconcetti e gli abusati sillogismi a cui altri lo inchiodavano: pessimista perché infelice, infelice perché storpio. Dunque solo ed emarginato, sempre.
A Napoli, si arrabbia molto quando, seduto a un caffè, sente affermare da un avventore che la sua visione dell’esistenza e del mondo deriva dalle sofferenze del suo corpo: 
non attribuite alle mie malattie ciò che è responsabilità del mio intelletto”, urla Leopardi, sbattendo il bastone a terra, per rivendicare, orgogliosamente, la propria autonomia di pensiero.
Ancora oggi, troppo spesso e anche nelle scuole, gli si appiccica la banale etichetta di pessimista: “pessimismo…ottimismo, che parole vuote e senza senso!”, ma in verità è un uomo malinconico, cinico e disincantato che si pone infinite domande sulla vita e sulla cruda realtà della natura. Un uomo solo, abituato ai silenzi e ad osservare gli altri nei quotidiani affanni.

Mario Martone ne racconta l’avventura umana, la sua dimensione affettiva, ben oltre quella di simbolo letterario e culturale. “Io non ho bisogno di stima, o di gloria o di altre cose simili. Io ho bisogno di amore, di entusiasmo, di fuoco, di vita...Vivere a caso. Non chiedo altro in fondo”.
E’ il ritratto di un'anima fragile, ma profonda, libertaria e romantica. Un’anima sensibile, capace di cogliere i cambiamenti della società e i tormenti dell’individuo, pur prigioniera in un corpo piccolo e deforme, con tutte le sue paure, le emozioni, le incertezze, le passioni e i turbamenti.
Ma non di questo fu infelice e vittima il poeta. Lo fu della sua intelligenza e del suo bisogno di conoscenza.
Con immensa tenerezza e senza indulgere nella pietà, ci regala un Leopardi assalito dal dubbio, come strumento di conoscenza ("Chi dubita sa, e sa più che si possa"), ma vero, intenso e determinato nei sentimenti più profondi, nella sua voglia di amare, di sognare, di vivere, spesso sopraffatta dalla sofferenza fisica, sempre presente sullo sfondo, come un fil rouge e come contraltare al suo estro e al suo talento.
Ci narra la sua fanciullezza e la preziosa amicizia epistolare, che inciderà non poco sulla sua formazione, con Pietro Giordani, il letterato che subito ne colse la genialità.
Quella con il fidato Ranieri - che forse fu qualcosa di più e di più intimo - che lo protegge, lo cura e lo salva da tutto.
I tre luoghi che più hanno segnato la sua esperienza umana e artistica: dalla chiusa e stretta Recanati, alla Firenze intellettuale dei circoli politici e letterari che lo emargineranno e infine, passando per Roma, alla fatata e gioiosa Napoli, patria di Martone, non a caso, forse, la parte più vivace e ispirata dal punto di vista figurativo.

Qui, due scene di graffiante suggestione e qualità: la vera e propria discesa agli inferi di una carnalità dal sapore felliniano, con il timido e deriso Giacomo che annaspa e si trascina fra le grotte delle colorite prostitute napoletane e la dura invettiva contro la Natura maligna, rappresentata da una gigantesca statua di sabbia, con le fattezze di sua madre, che si sgretola lentamente.
Sono sequenze di forte impatto visivo, che preludono al finale, dominato dal colera che si diffonde in Napoli e dalla chicca del “sterminator Vesevo” in eruzione, che sembra “ascoltare” i versi della “Ginestra” - suo testamento spirituale - che ne attenuano le fiamme ed i lapilli e nel contempo sublimano le paure e lo stupore del poeta: uomo, natura e poesia si fondono in un’unica realtà.

Per alcuni, il film appare didascalico e didattico. O, per meglio dire educativo. Forse lo è, intenzionalmente, e non credo sia un difetto. Se un’opera o una qualsiasi forma d’arte, è capace, di riflesso, anche di insegnare qualcosa, affascinando, ben venga, soprattutto in un momento storico, come l’attuale, di evidente disimpegno e di forte rischio di deriva culturale.
Vita, poesia e filosofia si fanno cinema, si traducono in suoni, immagini e suggestioni.
Sono un tutt’uno e si intrecciano nella storia del “favoloso” recanatese. Non si possono separare, devono essere fruite e godute come unica, poliedrica e composita realtà, se si vuol comprendere il mondo leopardiano.

Non per niente, il Leopardi “umanizzato” di Martone recita l’Infinito, proprio tra le siepi dell’ermo colle, mentre sforza la vista e la mente per oltrepassare il limite. Cammina tra le strade di Recanati, sorride alla bella vicina, abbraccia commosso l’amico Giordani, si entusiasma per una partita di pallone o osserva una gallina che razzola in su la via, senza che ci sia stata la tempesta. Reclama il suo diritto al piacere e ai peccati di gola: la bella Fanny e l'adorato gelato.
Va, quindi, oltre la proverbiale, scontata infelicità, per trovare anche sorrisi e momenti di serenità in un giovane ribelle, capace di opporsi alla rigida educazione familiare, alle convenzioni sociali dell’epoca, che tendono a emarginarlo. Un uomo libero di pensiero, ironico e socialmente spregiudicato che, come dice lo stesso Martone, va sottratto una volta e per tutte alla visione retorica che lo dipinge afflitto perché malato.
E’ un Leopardi sognante e furioso, non più o non solo avvilito e rattristato, ma deciso e politicamente combattivo, quando afferma:Il mio cervello non concepisce masse felici fatte di individui infelici".

Resta un film straordinario, coinvolgente e commovente, che racconta, anche attraverso le sue debolezze, la storia della sofferenza umana, non solo fisica, e la grandezza poetica e filosofica di un genio che, quanto più il suo corpo si ripiegava su se stesso, tanto più si liberava e giganteggiava.
Che rovescia schemi, cliché, nozionismo scolastico e luoghi comuni - dimentichiamo quella figura di uomo triste e cupo che certi docenti ai più hanno consegnato - per restituirci senza ridondanze enfatiche un pensatore eretico e moderno: bellissima la sequenza “pasoliniana” dei ragazzi che uccidono le lucciole, con cinismo e noncuranza.
Qualcuno ha scritto che dovrebbe diventare un film obbligatorio, un passaggio imprescindibile nella formazione dei giovani. "Abbiamo ammazzato Leopardi sui libri, ora è vivo grazie al cinema. Si spera possa essere adottata dalle scuole per rianimare stanche lezioni e smorte antologie."
Gli studenti ne trarranno beneficio. Gli insegnanti di più.

Magistrale la prova di Elio Germano, ma anche quelle di tutti personaggi, credibili e aderenti. Accurata la sceneggiatura, mirabili le scene e le ambientazioni, i costumi, la fotografia e la musica, anche se la vera colonna sonora sono i suoi versi.
“Ecco, così si filma la poesia!”, ha riassunto, efficacemente, Bertolucci:

"Nel ‘900 non ne resterà neanche la gobba", invece, fu la disgraziata (e oggi comica) previsione del linguista coetaneo Niccolò Tommaseo, che poco amava il giovane favoloso!
Infatti, quella gobba non c’è più. In compenso, però, è rimasta un’immensa eredità culturale, prezioso patrimonio dell’umanità, che Martone ci ha superbamente raccontato.
 5 novembre 2014   (Alfredo Laurano)


Nessun commento:

Posta un commento