martedì 7 febbraio 2017

QUANDO CANTA LA POESIA

Ariecco Sanremo, ariecco il festival della canzone italiana: un mito antico di musica e folclore, il sessantasettesimo del suo calendario.
Molti ancora lo amano e lo aspettano con ansia, quale più luminosa vetrina non solo di orchestre e di cantanti, ma di ospiti, di vip e di emergenti, di mode, di generi, di look, chiacchiere e pettegolezzi vari. Per poi commentare, criticare, spulciare tra i dettagli.
Altri non lo sopportano, lo disprezzano, lo contestano, lo ignorano, lo stroncano.
Ha ancora un senso questo rito, quasi mistico e canonico, a tutto campo fra note, simboli, feticci e lustrini? Quasi scritto nel Dna della nazione, come pizza, sole, mafia e mandolino?

Non è certo la centralità della musica, quale eccelsa forma d’arte e di comunicazione, che viene messa in discussione - in quanto tale, è di per sé bella e interessante in ogni sua coniugazione, o quasi: classica, leggera, pop, rock, jazz, blues, folk, metal - quanto i suoi vari e insopportabili contorni ed effetti collaterali: la martellante, noiosissima pubblicità, i trailer, i numeri che contano, lo share, gli ascolti ed i confronti, gli abiti stravaganti e, quest’anno, per stupire ancora, la sospirata ottava meraviglia televisiva nei panni di Maria De Filippi, venuta in riviera dall’etere concorrente "a miracol mostrare”,
Per non parlare delle troppe trasmissioni pre e post, delle dirette e dei collegamenti, dei mille inviati e dei microfoni sprecati, dei selfie e delle patetiche interviste.
Forse è un po’ troppo per tutti.
La gara ormai conta poco e la rassegna, che ha perso anche i fiori e l’antico appeal, è diventata, nel tempo, una ricorrenza obbligatoria e nemmeno molto ambita, una rampa di lancio per intese di mercato. Un salotto classico, un po’ sdrucito, che il tempo ha logorato, ma, rilucidato, è ancora buono per riempire i palinsesti e onorare il culto e la funzione.

Una volta, quando le canzoni facevano innamorare e i 45 giri si regalavano alle feste e ai compleanni, quando il festival era solo della musica e dei fiori, e non degli sponsor e dei pettegolezzi alimentati ad arte, un senso probabilmente c’era: si giudicavano i testi, le voci, le musiche, gli autori e su quel palco delle vere meraviglie sfilavano Villa, Modugno, Mina, Pavone, Dalla, Celentano e il grande Tenco, ucciso cinquant’anni fa dall’incompetenza e dal sistema, già allora spietatamente commerciale.
Stasera il teatro Ariston gli tributerà un doveroso omaggio, come negli anni a seguire hanno già fatto altri artisti come De André, Lauzi, Paoli e Bindi, esponenti della cosiddetta sua stessa scuola genovese, che lo hanno pianto, amato e ricordato.
Soltanto dopo la sua morte, a ventinove anni, Luigi Tenco ricevette quel favore del pubblico e della critica che gli erano stati negati in vita. Troppo tardi si è capito quanto avesse rinnovato il panorama della composizione melodica italiana.

Appena terminato quel disgraziato Festival del 1967, il suo ultimo disco "Ciao Amore, Ciao" - alla cui dolcezza si sommò l’ulteriore significato simbolico della sua fine - andò letteralmente a ruba nei negozi e tutte le sue canzoni - Vedrai vedrai, Un giorno dopo l’altro, Mi sono innamorato di te, Se stasera sono qui, Lontano lontano - entrarono di diritto nella storia della musica italiana.
Ancora oggi, così profondamente avvolte di triste bellezza, sono pezzi di autentica poesia che commuovono e lasciano il segno.
Come fa la vera arte che non conosce tempo.
7 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)

“Guardare ogni giorno se piove o se c'è il sole, per saper se domani si vive o si muore e un bel giorno dire basta e andare via.  Ciao amore, ciao!”

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