mercoledì 16 novembre 2016

UNA GIGANTESCA FARSA

Lo dico subito e senza usare francesismi: questo film fa proprio incazzare e ti fa uscire dal cinema con le lacrime agli occhi e l’amaro in bocca. E tanta rabbia dentro.
Rabbia sociale contro l’imbecillità di un sistema burocratico aberrante, denunciato da un film capolavoro che narra, con profonda empatia, con stile asciutto, ruvido, senza sentimentalismi e orpelli retorici, una storia di attualità che fa indignare, che si scaglia contro le ingiustizia di uno stato sociale che spesso priva di dignità il cittadino, la persona. 
“Io, Daniel Blake” vive momenti di grande umanità, di tenerezza e commozione e, attraverso la compassione dei suoi indifesi protagonisti, provoca una specie di ricatto emotivo e catartico nello spettatore. 
E’ il cinema di impegno civile e di denuncia sociale tipico del cineasta inglese Ken Loach. 
Cinema militante e anche misuratamente ideologico. Che racconta spesso una realtà che fa piangere e fa soprattutto male.
Da sempre, Loach sta dalla parte degli umili, dei diseredati, di coloro che scelgono di lottare contro le ingiustizie e le dittature, dei disoccupati, dei cittadini vittime del neoliberismo e della privatizzazione del welfare.
Le sue opere, cariche di passione, rivolgono uno sguardo profondamente umano alle situazioni di debolezza ed emarginazione, ma al contempo invitano, senza grida o clamori, a ribellarsi a quello che sembra essere uno status quo immodificabile.
Questo film, che ha vinto la Palma d’oro a Cannes, commuove in tutti i suoi aspetti, nella sua semplicità disarmante, nel suo icastico realismo. 
Straordinaria l’interpretazione di tutti gli attori, grandi e piccoli, taglienti i dialoghi, adeguata e superlativa la fotografia uggiosa. 
In alcuni momenti, sembra si parli di cose mai viste, di situazioni incredibili e farsesche, di persone rese ottuse da un sistema che le rende iene e serve. Che appartengono a un mondo spietato che esiste a prescindere, che vince sempre anche sulla logica, sul buon senso e sulla dignità. 

Già l’efficace dialogo iniziale, sul nero dei titoli e senza immagini, destabilizza proprio quel concetto di razionalità e viola il comune sentire, non solo del protagonista. E ci introduce, con semplicità, ma anche con profonda immediatezza, al senso della storia.
Daniel è vittima, consapevole e lucida, del cinismo e dell’indifferenza di una burocrazia che avalla ogni possibile contraddizione, attraverso i meccanismi di una macchina che stritola il malcapitato di turno, che trasforma i solerti servitori della legge in persecutori di coloro che dovrebbero servire e affida le sue bizzarre regole a moduletti da stampare e compilare solo on line.
Il sessantenne carpentiere si trova bloccato in un kafkiano limbo amministrativo-burocratico: dopo aver avuto un infarto, i medici gli impediscono di lavorare, ma l’assistenza sociale invece lo spinge a cercare un lavoro - che poi non potrebbe comunque svolgere - per ottenere il sussidio di disoccupazione. Né può fare ricorso al rifiuto dell’indennità per malattia, non avendo ancora ricevuto la prevista telefonata del Centro, ma solo la lettera ufficiale di comunicazione! E così, senza lavoro, né sussidio di malattia, né di disoccupazione, è costretto a distribuire curriculum a matita, per dimostrare che sta cercando un inutile lavoro finto, però con tanto di ricevuta o prova vera.
E, intanto, non ha di che vivere. 
Cibo, riscaldamento e un tetto sono alla base della sopravvivenza, ma per Daniel non sono più garantiti: le bollette da pagare, la spesa troppo cara. Vende i mobili e rimane al freddo. Poi si conforta con l’affettuoso giovane vicino, con le riparazioni a casa dell’amica Katie e i suoi due figli, dove trova un po’ di calore umano. 
Il cielo inglese, sempre grigio, piovigginoso e senza sole, non può nemmeno scaldare le bolle della plastica che mette sui vetri della stanza della piccola Daisy. 

Alcune sequenze sono momenti di lirismo puro.
Straziante quella di Katie che, affamata da giorni, si getta su un barattolo di salsa di pomodoro, al Banco alimentare, per rappresentare tutto il dolore e la frustrazione di tante persone che non hanno nulla, se non la propria fame.
Quella della giostrina di pesci in legno appesa al soffitto, O degli attrezzi di lavoro che Daniel non intende vendere. O la pacifica ribellione scritta sui muri del Centro Sussidi. Tutto sembra pervaso da una specie di etica sociale che ridicolizza e condanna quei personaggi prepotenti e fieri della loro briciola di potere, il cui squallore corrisponde alla diffusa malinconia del paesaggio.
C’è un sottile filo conduttore di poesia e di intensa emozione che attraversa l’opera e che coinvolge: una forma di solidarietà tra vittime, oppressi e poveri che si configura in una magra consolazione ideologica.
Come, ad esempio, la lettera testamento: “Il mio nome è Daniel Blake, sono un uomo, non un cane. E in quanto tale esigo i miei diritti. Esigo che mi trattiate con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino, niente di più e niente di meno". 
La responsabile condizione di uomo e lavoratore percorre il dramma di Daniel Blake che con dignità vive la sua battaglia, mentre precipita nella miseria. 
Ma nella sua tragica vicenda si riflette l’intero fallimento della presunta società civile, che si abbuffa di ipertecnologia, ma non di umanità.
(Alfredo Laurano)



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