È il primo maggio, la festa del lavoro che una
volta c’era e che, ora, da tempo, più non c’è. È rimasta solo la grande musica
del concertone, i giovani che ballano per ore, fino allo sfinimento, qualche
nostalgica manifestazione politica o sindacale, qualche comizietto di paese,
guarnito con qualche bandierina della antica ideologia. Oltre, naturalmente,
alle gite fuori porta, alle sagre, alle fave e pecorino.
Si, in effetti, trattasi di una commemorazione
del lavoro, sottolineata dalle canzoni, dalle parole e dagli slogan, lanciati
sul grande palco di S. Giovanni. Quel diritto, teoricamente inciso
nell’articolo uno della Costituzione, è diventato ormai quasi un privilegio. Ma
quel che conta è la tradizione, quella che fa capolino dalla Storia.
In verità, una gratificante festa comunque c’è,
lontana da quel palco, all’ombra dei gazebo: è quella del Matteo fiorentino
che, dopo pochi mesi di finta decadenza e di sofferta, annunciata riflessione,
si è ripreso quel partito che in realtà non ha mai lasciato: né ad altri, né
all’oblio, né in standby.
Solo poche settimane per smaltire la dolorosa
sconfitta del Referendum e le inevitabili dimissioni da premier, per far
assorbire al popolo del PD, alle sue minoranze e ai suoi avversari interni le
proprie ammissioni di colpa, i presunti pentimenti e, soprattutto, per far
dimenticare a tutti le sue false dichiarazioni di abbandono della scena: “se perdo me ne vado, lascio la politica, me
ne ritorno a casa…”.
Una scissione, seppure indolore, senza lacrime
e mai rimpianta, nel democratico partito si è comunque, nel frattempo,
consumata. Ma non ha fatto (sembra) molti danni e quasi alcun rumore, se non
quello di alcuni “nemici storici”, liberamente rottamati.
In ogni caso, ieri, vigilia di questo inusuale
Primo Maggio, l’ennesima buffonata delle Primarie - con affluenza di votanti
superiore alle previsioni, ma ben lontana dai fasti di qualche anno fa (un
milione in meno), soprattutto nelle ragioni doc di rossa tradizione – lo ha riconsacrato
rampante leader, ai danni del riservato Orlando, messo lì per non disturbare
più di tanto, e del duellante Emiliano, coriaceo antagonista, armato di ragioni
e prodigo di accuse a viso aperto.
Tutto come previsto, anche nelle percentuali
che al nuovo Renzi dal volto (più) umano hanno decretato il 71% di consensi,
senza stavolta il voto dei cinesi, ma con l’aggiunta di quello di un bel
pacchetto di profughi e migranti (a Ercolano,“Ci
hanno dato due euro e detto di votare Renzi”) e, soprattutto di una
cospicua falange di elettori di Destra e di fedeli berlusconiani (suoi
prossimi, quasi certi, alleati), fra qualche seggio chiuso, qualche prepotenza
e illegalità presunte, abbuoni o mancati contributi di due euro, divieti di
voto a qualche indesiderato e un paio d’ interventi dei carabinieri.
In serata, sul palchetto predisposto nella sede
sotto le stelle del partito, tra festanti amici e affezionatissimi sodali del
suo clan “persone in carne e ossa, il
sale della democrazia", lo scontato vincitore si è presentato col suo
elegante abitino scuro, vestito già da premier, e ha celebrato la vittoria dei
gazebo, in attesa di tornare a palazzo Chigi. Quindi, Gentiloni “stia sereno”, anche se amico
fidatissimo, traghettatore consapevole della propria precarietà.
A tutti ha voluto ricordare che "il nuovo inizio non è una rivincita,
non è il secondo tempo della stessa partita, è una nuova, diversa partita che
dobbiamo giocare.”
Poi, bontà sua, ci dirà come, con chi o contro
chi.
Ma, forse, lo sappiamo già.
1 maggio 2017 (Alfredo Laurano)
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