mercoledì 13 gennaio 2016

PAROLE

Col tempo e nella storia della società, del costume e delle mode, le parole cambiano di significato o ne aggiungono altri. Il linguaggio si muove secondo nuovi bisogni, spesso indotti dalla tecnologie, si adegua e si rinnova sempre tra evoluzione e novità. Anche in virtù dei mezzi che lo veicolano: libri, giornali, talk, internet, social network, applicazioni, e-book. E le parole, essenziali strumenti di comunicazione, insieme ai gesti, ci permettono di esprimere i pensieri.
La disciplina che si occupa di studiare e analizzare il significato delle parole e la loro combinazione per comporre un significato è la semantica, ramo della linguistica.

Come dice lo Zingarelli nell’edizione 2015, le parole non sono mai neutre, ma hanno un senso “oggettivo”, comune a tutti, e uno “emotivo”, proprio di ciascuno.
Ognuna ha una propria sfumatura che la carica di vita e la movimenta. Una specie di valore aggiunto, un significato “emotivo” appunto, perché la nostra mente, come in un film, proietta su ogni singola parola caratteristiche sensoriali che rimandano a immagini, suoni, odori, sensazioni.
Ogni parola apre un mondo, da ogni parola si dirama una rete fittissima di significati che spesso si incontrano e si intrecciano. Ad esempio, parole e argomenti come canto, stile, ironia, sapore, spazio trovano una più ampia e articolata “definizione d’autore” se vengono trattate, rispettivamente, da Mina, da Armani, da Verdone, da Gualtiero Marchesi, dalla Cristoforetti. Fermo il significato oggettivo che tutti conosciamo e usiamo nel linguaggio quotidiano.

Una parola, oggi di gran moda e attualità, e che comprende molto questa oggettività e emotività, è sicuramente “condivisione”.
La condivisione è l'utilizzo in comune di una risorsa o dello spazio. In senso stretto si riferisce all'uso congiunto di un bene finito come, ad esempio, un’abitazione. È anche correlato al processo di dividere e distribuire.
Condividere, verbo transitivo, composto da con e dividere: cioè, dividere, spartire con altri: il patrimonio è stato condiviso equamente tra i fratelli.
Oppure, avere in comune con altri: condividere l’appartamento, il cibo, un’esperienza.
Molto spesso, in senso figurativo: condivido pienamente la tua opinione; non condivideva le mie idee; condividono la passione per la montagna; un’opinione condivisa da molti; obiettivi e programmi largamente condivisi.
Condividere è un verbo che oggi risulta particolarmente caro ai siti sociali. 
Grazie a internet ha ampliato il suo rilievo semantico, ha scoperto una crescente evoluzione, anche nell’accezione equivalente di far circolare. Youtube, ad esempio, consente di creare canali che possono essere condivisi, così come i singoli video, mettendo in comune passioni, musiche, interessi.

I social network come Facebook sono spazi talmente personali che oggi vengono usati anche e soprattutto per mandare messaggi, commenti, insulti, testi o foto, per parlarsi gratuitamente, con o senza la propria voce o immagine.
E allora, vai con le foto e i video delle vacanze, del viaggio esotico, della cena romantica o del gruppo di calcetto. 
Dei milioni di gattini, cani e pappagalli che improvvisano giochi e acrobazie con neonati e bimbi dispettosi, i una sorta di Paperissima non stop. 
Di massime e aforismi inflazionati e preconfezionati, sull’amore, sull’amicizia, sulle donne, sulle mamme, sui sentimenti religiosi. Vanno a ruba quelli di Oscar Wilde, di Goethe, di Voltaire e Fabio Volo.
E, ancora, i finti scoop, i falsi scandali o le bufale continue e quotidiane che vivono un momento di presunta veridicità. Le diete, il gossip, i ritocchini plastici, le cronache mondane, le affermazioni qualunquiste o gli attacchi ai politici, i confronti e i fotomontaggi fatti di immagini e slogan terra terra e privi di fantasia, di parole d’ordine comuni e sempre uguali. Pochi o più rari i post di denuncia sociale, di emergenze umanitarie, di segnalazione di abusi e soprusi, di partecipazione attiva e collettiva alle più tristi vicende umane. Fanno eccezione, ovviamente, i riferimenti al terrorismo, alle stragi che si moltiplicano e alle relative paure in tutto il mondo.

Tutto rigorosamente condiviso, senza filtri sociali, etici e culturali, in una digitale e irresistibile catena di Sant’Antonio, apparentemente spontanea e naturale, che veicola emozioni e sensazioni stantie, livellate e impacchettate.
La condivisione, in questo senso è diventata una malattia contagiosa che si prende e si propaga sul Web, che ufficializza e certifica la voglia e la necessità di partecipare, di esserci, di contare.

Non servono, poi, parole troppo erudite per resistere alla semplificazione di Twitter e di Whatsapp: bastano le abbreviazioni e i sinonimi più comuni di un ridottissimo vocabolario per appiattire e snaturare la lingua e la sua preziosa storia.
Secondo un recente studio inglese, dei potenziali 40 mila termini conosciuti da un comune cittadino di media istruzione (le parole del nostro vocabolario di base sono molte di meno, circa seimila, ma coprono comunque tutte le necessità del vivere quotidiano), su Internet e telefonini, se ne usano solo ottocento e, tra molti giovani, appena qualche decina.
E così le parole invecchiano, cadono in letargo, in disuso e poi si estinguono.
A proposito, chissà quanti non condivideranno questi miseri pensieri!
13 gennaio 2016 (Alfredo Laurano)


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