martedì 17 febbraio 2015

BUONI, CATTIVI E NUOVI TRIBUNALI

Non ci sono più le mezze stagioni, come non ci sono più le mezze misure e neppure le mezze porzioni in trattoria. Scarpe, vestiti e bucatini solo per intero, come numero, taglia o quantità.
Ma non esistono più, neanche le mezze opinioni, nel senso di sfumate, articolate, civili, moderate, obiettive, ragionate e aperte.
Oggi più di ieri, e come non mai, l’Italia è sempre spaccata su tutto: si è pro o si è contro, o guelfi o ghibellini, o bianchi o neri. I grigi son finiti, in cinquanta e varie sfumature, solo in certi libri di cassetta.
Ma anche nella cronaca rosa, gialla, e soprattutto nera, il fenomeno è cresciuto in modo esponenziale: colpevolisti e innocentisti, una volta schierati su diverse sponde di pensiero, come dicono a Napoli, “si pigliano a mazzate”.

Negli ultimi anni, i casi di Avetrana, di Yara, di Melania e Parolisi, di Amanda, di Roberta Ragusa, di Elena Ceste e del piccolo Loris, hanno squarciato l’opinione pubblica. Ovviamente, per effetto della copertura mediatica quotidiana assicurata alle rispettive cronache, ai dettagliati racconti, alle insinuazioni e alle tante ombre scavate, ben oltre la realtà dei fatti.

Centinaia di puntate televisive allestite sempre con le stesse immagini e interviste montate, rimontate, rallentate, commentate, riproposte - fino alla nausea - da inviati a tutto servizio, fra collegamenti, stand up, ricostruzioni filmate e in studio, con esperti di discipline varie (psichiatri, criminologi, avvocati, genetisti, generali). 
Ogni capello è spaccato in quattro, ogni parola scomposta e interpretata, ogni espressione, sguardo o battito di ciglia filtrati dalla lente di improvvisati Maigret o Sherlock Holmes. Mancano solo i Ris, all’opera sotto i riflettori.

Tutto ciò che è informazione è un fenomeno di contagio sociale.
Ma, da quando siamo diventati popolo di poeti, santi e commentatori, ogni parere, ogni confronto è diventato una sfida dialettica, un duello all’arma bianca o nera di volgarità, un derby dell’intolleranza, giocato da tifosi scatenati da curva sud, schieratissimi e agguerriti.
Per sostenere la colpevolezza o l’innocenza di Logli, di Sabrina, del caporale, del pompiere o della giovane madre siciliana, non si usano più argomenti o indizi reali, ma sensazioni viscerali, ingiurie, sputi digitali contro chiunque la pensi in senso contrario. 
Non dialogo, dubbi, domande e voglia di capire, ma sentenze, pregiudizi, verità apodittiche.

Basta visitare qualche relativa pagina internet, nata allo scopo di accusare o di difendere. Tutti giudicano tutto, pur senza averne titolo e diritto, né alcuna competenza o conoscenza. Un po’ per moda e per costume, per emulazione, per schierarsi, per protagonismo, per comodo conformismo, per abitudine, per sentito dire o perché “così fan tutti”.
Sono i nuovi ultras del nuovo stadio digitale, moderno sfogatoio di pulsioni represse e irrazionali.
Va tenuto conto che il linguaggio si deteriora anche per effetto del mezzo usato (il medium è il messaggio): italiano pericolante, espressioni contorte e incomprensibili, costruzioni approssimative, sgrammaticature a cascata, punteggiatura non pervenuta.

Proviamo a giudicare i fatti, non le persone e il loro dolore e ricordiamoci - l’ho scritto e riscritto fino alla noia - che la tastiera è un’arma micidiale che ferisce, che colpisce e, a volte, distrugge anche una fragile esistenza.
Il mouse è un lanciamissili che può arrivar lontano e colpire il cuore della sensibilità. E lo schermo non è un nascondiglio o una corazza e non protegge l’imbecillità.
Siamo alla pandemia dell’odio digitale.
Solo che, in questo caso, a passare di persona in persona non è un virus, ma un pregiudizio, un concetto, un’illazione che si diffonde di testa in testa e infetta altri con un clic o un “mi piace”. Il Web rende più cattivi, accentua invidie e gelosie, eccita il fanatismo.

Basta accendere il pc, collegarsi alla Rete e aprire Facebook, dove coesistono diversi universi destinati a non incontrarsi quasi mai e popolati da predicatori e opinionisti con gli stessi interessi, le stesse paure, la stessa arroganza: tutti uniti dalla stessa dieta mediatica.
Chi siamo noi per giudicare, decidere, condannare?
Facciamoci, ogni tanto, un esamino di coscienza e poi rileggiamo quello che scriviamo. Qualcuno, forse, ci ripenserebbe, prima di sputare sentenze gratuite sul dolore e sulle tragedie degli altri.
17 febbraio 2015       (Alfredo Laurano)                                                                                                                                                                  


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