mercoledì 24 luglio 2019

LA PASTASCIUTTA CHE DIVIDE E CHE QUALCUNO NON DIGERISCE


L’Italia è anche il Paese delle Sagre. Da nord a sud, è quasi impossibile sapere quante siano, perché spunta sempre, dietro l’angolo di qualche borghetto, una bancarella con una porchetta, un formaggio o un cuoppo fritto, esibito come prodotto tipico.
Qualcuno parla di almeno duemila: da quella della trippa a quella del baccalà, da quella del tortello a quella del pollo ruspante, da quella del peperone a quella del pesce, del carciofo o della tellina. Fino a quella della romagnola Pera cocomerina.
Ma esiste, per chi non lo sapesse, anche la Sagra della Pastasciutta antifascista, che si tiene dall'indomani dell'arresto di Mussolini, avvenuto il 25 luglio del 1943, in ricordo della grande pastasciutta collettiva che la famiglia Cervi offrì a tutto il paese, distribuendola in piazza a Campegine per l’occasione.
Seguirono molti mesi di ulteriori sofferenze per il popolo italiano, ma in quelle ore e in quei giorni di effimera speranza si festeggiò in tutta Italia la destituzione del Duce.
Le Pastasciutte Antifasciste hanno poi conquistato altri territori e altre comunità, si sono estese in tutta Italia e sono diventate una rete di oltre settanta manifestazioni, idealmente collegate ai fratelli Cervi, unendo migliaia di cittadini di ogni età, in un comune sentimento di libertà.
Ma la simbolica pastasciutta, quest’anno, dovrà cambiare nome perché, secondo la giunta di Mirandola, da poco a guida leghista, "Anti è divisivo, dovrà chiamarsi pastasciutta partigiana, o pastasciutta e basta”.

Nel cimitero di Campegine riposano le spoglie dei sette fratelli Cervi: Agostino, Aldo, Antenore, Ettore, Ferdinando, Gelindo ed Ovidio, contadini innovatori, strenui oppositori del regime fascista, che li fucilò, il 28 dicembre del 1943, al Poligono di tiro di Reggio Emilia. La storia della famiglia Cervi è poi assurta a simbolo del coraggio, della generosità dei contadini reggiani e della loro caparbia volontà di non piegarsi ad un regime totalitario e violento.
Anche una sagra “esportata”, di origine storica e politica e nata quasi spontaneamente, può servire a riproporre il ricordo di un vile fatto storico, di una assurda strage familiare, con gli stessi ingredienti di quella serata di Casa Cervi: una rievocazione della caduta del fascismo, tramite una semplice pastasciutta, a burro e parmigiano (altro non c’era), per tramandare la memoria dei valori della Resistenza e dell’Italia antifascista.
La Festa si farà, naturalmente. E continuerà, anche senza patrocinio, in ricordo delle 52 vittime del nazifascismo nel mirandolese.

Una drammatica curiosità storico-gastronomica.
Dal 1922 in poi, nelle campagne di Reggio Emilia, giravano gli “stanga – caplètt”, i picchiatori di cappelletti.
Il 1° Maggio era vietato ed i fascisti entravano nelle case contadine per controllare che a pranzo non si facesse festa. Se trovavano i cappelletti, spaccavano piatti e tavole e spesso anche le teste di chi stava mangiando.
Per questo, da anni, nel reggiano, si fanno grandi feste con i “Cappelletti antifascisti”.
Anti, sempre anti, fortissimamente anti. (Alfredo Laurano)


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