venerdì 3 marzo 2017

IL CONFINE

La storia di Fabo, e la sua fine, ha turbato e coinvolto tutti in un abbraccio di emozione collettiva, che va al di là di ogni personale posizione sul senso della vita e della morte, come scelta liberatoria e definitiva dal dolore.
Una decisione lucida e consapevole, non suggerita da alcun giudizio morale o religioso - da cui tutti dovremmo astenerci - assunta per mettere fine allo stato disumano in cui si trovava: cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale, completamente paralizzato e ingabbiato in corpo, immobile, senza vita e forza, diventato soltanto una zavorra buia e dolorosa, nemmeno più in grado di sentire una carezza, di provare una sensazione, un pizzico di piacere. Uno stato di umana insopportabilità.

Leggere le note delle sue ultimi momenti in quella clinica svizzera dell’addio è stato a dir poco commovente, un accrescimento della pietas, una lezione di “vita”, se così si può dire, senza cadere in una goffa contraddizione.
Le sue ultime parole per Valeria, per la madre, per gli amici. Il suo coraggio smisurato.
Ha ringraziato Cappato per l’aiuto e per la sua fermezza, ha salutato i suoi amici del Giambellino, che lo hanno accompagnato in quel viaggio di sola andata, dormendo accanto a lui nell’ultima notte alla stazione svizzera. A loro ha raccomandato, con esemplare altruismo e un po’ di incredibile ironia, di usare sempre le cinture di sicurezza in macchina: “per andarmene più tranquillo”.
Non sappiamo se abbia avuto paura o quale altra impressione o sentimento, oltre la voglia certa di fuggire da quella prigione infame del suo corpo, “immobilizzato in una lunga notte senza fine", ma sicuramente avrà sentito tutto il dolore, la trepidazione e il dispiacere di allontanarsi per sempre da chi lo amava e gli è stato vicino per tanto tempo nella sofferenza: i secondini buoni del suo crudele carcere, i suoi custodi angeli. Dalla madre, sempre accanto, dalla sua compagna Valeria, la sua vera voce, i suoi occhi, le sue braccia e le sue gambe da tre anni.
Per tutti, nella consapevolezza del quotidiano sacrificio che gli avevano dedicato con smisurato amore, ha avuto parole di coraggio e di gratitudine, difficili e forzate nella pronuncia, ma capaci di rappresentare, pur in quelle condizioni estreme tutta sua forza, la sua dignità.
Poi, capace di intendere e volere, ha morso quel pulsante.

Il giorno dopo, un altro uomo, Gianni, di 65 anni, devastato da un tumore al viso, è morto come Fabo nella stessa Dignitas, la clinica Svizzera della dolce morte. La moglie che lo ha assistito, con la figlia ha poi ricordato: “Come diceva sempre, è stato più facile morire che vivere senza dignità. Era tranquillo e ha sorriso”.
Aveva mandato le cartelle cliniche e alla fine, dopo mesi di attesa, lo hanno convocato. “Siamo partiti oggi all’alba in ambulanza e dopo sette ore ero qui”, racconta Gianni, il giorno prima. “Al mattino la prima visita qui in albergo, alla sera la seconda”.
Ma come passerà l’ultimo giorno della sua vita? - gli chiede Sansa del Fatto Quotidiano. “Questo pranzo, tutti insieme, il chiasso intorno, la musica come in un qualsiasi ristorante, i volti paonazzi degli altri clienti ai tavoli…ma saranno anche loro in attesa dell’eutanasia?” Poi in camera per riposarsi, per cercare di dormire, anche se sono le ultimissime ore che hai a disposizione per guardare, respirare, parlare.
Il pranzo è finito. Ci si abbraccia. 
Attraverso la grande vetrata li vedi tutti e tre che camminano verso la clinica dove tutto avverrà. Basta attraversare la strada e prendere la prima a destra.
Sono gli ultimi passi di un cammino che all’apparenza sembra di assoluta normalità.
Una gita all’estero dalle parti di Zurigo, un percorso tra laghi, monti e verdi valli, una passeggiata verso i luoghi del mistero, dove il confine fra le vita e la morte, quasi non si distingue più.
2 marzo 2017 (Alfredo Laurano)




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