lunedì 29 ottobre 2018

L’ANTICO RUMON /1641


La storia del Tevere inizia nel giorno in cui Enea, profugo da Troia e in cerca di una nuova patria, risalendo la sua foce e poi inoltrandosi nel fiume lo navigò fino a raggiungere un luogo abitato dai pastori.
Lì verrà fondata Roma.
Il fiume sacro ai destini di Roma, il fiume che ha fatto grande Roma, il fiume biondo dei romani: “Il paradosso del Tevere - scrive Stefano Caviglia - è che lo abbiamo continuamente sotto gli occhi ma non lo conosciamo affatto”.
 “A proposito di Tevere”, l’interessante libro che mi ha regalato la mia amica Carla, è un sorprendente viaggio lungo la storia del fiume e di tutto ciò che lo riguarda.
L’autore, l’appassionato Caviglia, lucido cronista e storico puntuale, racconta la storia, la bellezza e il futuro di quel fiume, navigandone acque, leggende, vizi, virtù, criticità e prospettive, fra momenti di poesia e romanticismo, di nostalgia, note tecniche e vicende popolari. Ne disegna un preciso identikit, basato sul suo legame con i romani, tra fortune e crisi mai risolte.
Come «la separazione», ovvero il dislivello di diciotto metri e quarantacinque centimetri, fra le rive e la città, creato a cavallo fra Ottocento e Novecento con la costruzione degli argini, detti muraglioni. Una scelta inevitabile, viste le tante e rovinose alluvioni subite nei secoli, ma che ha comportato l’allontanamento tra cittadini e fiume, dopo più di duemila anni vissuti praticamente in simbiosi.
Roma, che si affacciava direttamente sul fiume, se ne trovò di fatto separata. Roma, oggi, senza muraglioni, sarebbe ancora di una bellezza strepitosa.

Anche attraverso le numerose immagini che arricchiscono il testo e documentano visivamente la storia del Tevere, si va dalla Roma antica, quando le sue acque portavano le merci più diverse dal resto del mondo nei suoi porti di Ripa Grande e di Ripetta, alla costruzione dei ponti più antichi o più moderni; dall’allargamento del letto del fiume e degli stessi ponti, ai mulini e alle capanne - cabine di incannucciata o stoffa su palafitte, dalla riva verso il centro del fiume, per cambiarsi e immergersi (dalla fine del cinquecento, era proibito bagnarsi “senza portar le mutande” e “l’andar delle donne inhoneste in barca a sollazzo et facendo stravizi”); dal pittoresco mondo dei fiumaroli e barcaroli (cantanti anche in musica), ai casi di violenza e ai tentativi dei nostri giorni di salvarlo dall’inquinamento e dagli intrecci burocratici che ne soffocano le potenzialità di rinascita.

Nonostante i tanti, gravi problemi della capitale che limitano l’interesse per il nostro ex biondo Tevere (l’antico idronimo era Albula, in riferimento al colore chiaro delle sue acque), cantato dalla storia, ma spesso quasi dimenticato, non si può ignorare che, se il fiume e la sua ricca vegetazione, non fossero lasciati all’incuria rassegnata, regalerebbero un paesaggio suggestivo, un richiamo per i turisti, addirittura un volano economico, e potrebbero muovere le risorse intorno a un’area fluviale che adesso, dice icasticamente l’autore, “è solo un’oasi nel deserto”.
 “Solo se comprendiamo che il Tevere è il simbolo di Roma, che il Tevere è Roma, potremo riqualificarlo e con esso la città intera”.
(Alfredo Laurano)






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