sabato 27 giugno 2015

UNA GIOVANE VECCHIAIA

Raccontare i film di Sorrentino, senza rischiare di cadere nella verbosità, nel descrittivo, nel didascalico, è impresa ardua e difficile. Sono talmente tanti gli aspetti, le prospettive e le angolazioni che si intrecciano sullo schermo e che coinvolgono il frastornato spettatore, fra mille sfumature di suoni, dialoghi e colori, che non si possono eludere, né parzialmente trascurare, senza compromettere lo stile della narrazione e la costruzione di un genere del tutto personale.
Anche in Youth, la giovinezza - come nella Grande Bellezza e nei precedenti film - ogni passaggio, ogni stacco, ogni immagine non si sottrae all’impatto con un’asettica e spesso bizzarra realtà, ma si stempera e si dissolve nella naturale retorica dei sentimenti, dove trova un senso, un significato profondo e imprescindibile.
Dal prologo, asciutto ed incisivo, fino all’epilogo, accademico e sorprendente, scorre in forma aulica un mirabile affresco che si compone di un circostanziato presente, di ricordi e allegorie del passato, di dettagliati voli della fantasia. Fra due gocce di difficile pipì, un massaggio e qualche riservata confessione, si compie l’opera che, con la vecchiaia, corona una intensa esistenza.

Ricorda un po’ il “De senectute” di Cicerone o l’omonima lectio magistralis di Norberto Bobbio, secondo il quale la vecchiaia non è scissa dal resto della vita precedente, ma è la continuazione dell’adolescenza, della giovinezza, della maturità.
Rispecchia la visione della vita e cambia l’atteggiamento verso di essa, a seconda di come ognuno ha concepito la vita: come una montagna impervia da scalare, o come una fiumana in cui sei immerso, o come una selva in cui ti aggiri incerto sulla via da seguire.
Il mondo di tutti i vecchi è il mondo della memoria: alla fine tu sei quello che hai pensato, amato, compiuto. E quello che ricordi.
Sono una tua ricchezza, oltre gli affetti che hai alimentato, i pensieri che hai pensato, le azioni che hai compiuto, i ricordi che hai conservato e non hai lasciato cancellare e di cui tu sei rimasto il solo custode.

Non è un film per giovanissimi, che forse troveranno anche noioso, perché, come dice in una scena il regista Mick (Harvey Keitel) ai suoi giovani collaboratori, guardando in un cannocchiale, "Questo è quello che si vede da giovani: tutto vicinissimo, quello è il futuro... E questo - girandolo al contrario - è quello che si vede da vecchi: tutto lontanissimo, quello è il passato". Ma è un film per tutti perché riflette la vita e le età dell’esistenza di ciascuno.
Siamo in Svizzera, Fred e Mick, due vecchi amici, più o meno coscienti delle proprie attuali forze fisiche e intellettuali, sono in vacanza in un lussuoso albergo-benessere ai piedi delle Alpi, in compagnia di Leda, figlia di Fred.
Mick, un famoso regista, sta ancora preparando il suo film testamento. Fred, un compositore e direttore d'orchestra, è ora in pensione e fa suonare a tempo tra le dita una cartina rossa delle famose caramelle "Rossana".
Mentre Mick s'impegna per finire la sceneggiatura, Fred non ha alcuna intenzione di riprendere la sua carriera musicale e dirige, nella serena valle, un bucolico e immaginifico concerto di mucche, muggiti, tintinnii e campanacci, che da solo vale il biglietto.
Ma un emissario della regina vuole a tutti i costi convincerlo a tenere un concerto delle sue celebri “canzoni semplici” a Buckingham Palace, in occasione del compleanno del principe Filippo. Ma lui rifiuta.

Mentre sua figlia viene mollata dal marito (che è il figlio di Mick), una serie di fugaci apparizioni di personaggi stravaganti, esagerati, grotteschi e sicuramente felliniani (Otto e mezzo), popola quel luogo: un gruppo musicale vintage, un attore triste perché ricordato solo come robot; una miss Universo, straordinariamente bella e sinuosa, ma anche intelligente, che attenta alle coronarie dei due anziani amici, entrando nuda in piscina; una specie di folgorante, obeso e tatuato Maradona che esce dall’acqua, torna alla bombola d’ossigeno, ma esibisce il mancino che ha incantato il mondo e palleggia con un palla da tennis.
E ancora, il monaco tibetano che non levita; una coppia che non parla, ma poi urla nel boschivo orgasmo; la giovane massaggiatrice che discetta sul piacere del contatto; la grande attrice Brenda, una feroce e irresistibile Jane Fonda, e l’onirica carrellata di comparse, sempre molto felliniane, in costume di scena sulla collina.
Molte immagini del film sono di abbagliante bellezza, le sue atmosfere, le sue profonde battute, i freeze frame nell’immobilità dei corpi e la straordinaria fotografia, con tagli di luce alla Caravaggio, accompagnano lo spettatore e lo toccano nell’intimità.
La macchina da presa si muove sempre lentamente cercando ossessivamente primissimi piani, che rivelino crudamente la natura delle cose, la sofferenza, il dubbio, l’incertezza.
E poi, gli effetti pirotecnici e barocchi, con colori e movimenti che esplodono davanti allo spettatore, in una serie di fantasmagoriche invenzioni.
Ogni inquadratura è studiata e tende all’originalità, ad essere assolutamente unica e autentica. A volte, anche troppo ricercata.

In Youth, ci si confronta con il senso della vita e della morte.
La giovinezza è lo scorrere del tempo, dove la tristezza, la gioia, il successo sono visti nella prospettiva di chi ha già molto vissuto.
I due anziani amici, fra le magnifiche montagne alpine e i prati verdi, si interrogano sulle loro angosce, sulle loro attese, con i loro segreti e, soprattutto, con la consapevolezza di un ricordo destinato a perdersi nel tempo.
Le emozioni si liberano senza timore: “Tu hai detto che le emozioni sono sopravvalutate, ma è una vera stronzata, le emozioni sono tutto quello che abbiamo!" dice Mick Boyle all’amico Fred.

La Giovinezza di Sorrentino appartiene a quel tipo di film, prevalentemente narrativo e dettagliatamente sceneggiato, che crea emozioni estetiche e induce al turbamento, solo con l'accostamento di immagini e musica solenne, come nella sequenza di Piazza San Marco allagata. Emozioni che scavano dentro e cercano uno spazio nell’anima.
Più che della vecchiaia, si parla quindi di memoria viva e vitale. Di rapporti umani, di passato e di futuro e di sensazioni: tutto orchestrato con maestria su spartiti umani e musicali di altissimo livello.
In tutti i film di Sorrentino c'è sempre qualcuno che fa i conti col proprio passato e con le proprie scelte: che si chiami Pisapia, o Andreotti o Jep Gambardella che, a 60 anni, non vuole fare più le cose che non gli va di fare.
Proprio, come i due protagonisti Fred e Mick.

Secondo alcuni critici, la vecchiaia nel film è un pretesto occasionale, dominato dal conformismo biologico e mentale e i vecchi di Sorrentino sono marionette di ricchi che si piangono addosso, noiosi come la morte, e che sparano sentenze a raffica da baci Perugina, l’una più consunta dell’altra.
Io lo trovo geniale e commovente, profondo e spiritoso perché scruta, con rispetto e con pudore, le varie fasi dell’esperienza umana nel tempo che, inesorabilmente, scorre fra infiniti dubbi e perché, senza risposta. 
Ma, è anche una dichiarazione d’amore per la vita, dove volontà, immaginazione e speranza sono seminate a piene mani e i desideri e le passioni, pur affievoliti, prevalgono sull’apatica realtà. “Sei ostaggio della tua apatia”, dice la figlia a Fred che, dopo il gesto estremo dell’amico, riesce finalmente ad accettare di dirigere il concerto tanto voluto dalla regina d’Inghilterra.
"Io capisco solo la musica - dice M. Caine - E sai perché la capisco? Perché la musica non ha bisogno delle parole, né dell'esperienza. La musica c'è..."
E Sorrentino pure c’è! Forse perché ama Bobbio e Cicerone.
26 giugno 2015   (Alfredo Laurano)


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