giovedì 11 giugno 2015

SCUSI, DOV’E’ IL POZZO?

Ci sono ricordi collettivi stampati indelebilmente nella nostra mente.
Quando si parla di Alfredino Rampi e della sua tragica vicenda è impossibile non sentirsi coinvolti emotivamente, anche dopo trentaquattro anni.
Aveva solo sei anni quando, la sera del 10 giugno 1981, cadde in un pozzo artesiano a Vermicino, vicino a Roma. Quel mercoledì pomeriggio aveva fatto una passeggiata in campagna con il papà e aveva chiesto di poter tornare a casa da solo, attraversando i campi: nessuno lo vedrà più vivo.
Secondo una sconvolgente ipotesi vagliata dalla magistratura, qualche anno dopo, su modalità e contraddizioni del fatto (due operai testimoniarono che l’imboccatura del pozzo era stata da loro chiusa con una grossa lastra di ferro, coperta con grosse pietre e con due palanche di legno e che un bambino non era in grado di aprire), Alfredino non scivolò per caso in quel pozzo: la sua fine non fu dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che avrebbe imbracato il bambino alla vita, lo avrebbe calato nel pozzo con una corda e lasciato cadere.  
La magistratura, però, non riuscì a raccogliere prove univoche sufficienti per suffragare l’ipotesi di reato, cosicché lo stesso pubblico ministero chiese l'archiviazione.

Si tentò l’impossibile per salvare Alfredino, il tutto per tutto: dal pompiere eroico al magrissimo facchino sardo; dal canale parallelo costruito in tempi da record alla corda con un possibile aggancio; dal gruppo di speleologi al muratore coraggioso.
Nulla. La tragedia si stava consumando, nonostante la fiducia e la speranza, dinnanzi a diecimila persone intorno al maledetto pozzo e a milioni di italiani, in ansia, davanti alla Tv.
Quando quel corpicino rannicchiato sembrava ormai a portata di mano, con manette o cappi di fortuna, il fango, il buio e un attimo che sembrò eterno, non risparmiò la caduta di altri venti metri in profondità.
In quello stretto cunicolo, largo pochi centimetri, rimase incastrato a sessanta metri e i coraggiosi soccorritori, calatisi nel maledetto pozzo, a testa in giù, riuscirono a toccarlo, ma non ad afferrarlo.
Tre giorni di diretta Tv non stop che fecero piangere l'Italia. Nasceva la Tv del dolore.
Seguii le prime ore della vicenda a una radiolina, perché stavo viaggiando in treno. All'arrivo, mi incollai subito davanti al televisore, anch’io, come tutti, pieno di speranza, fino al tragico epilogo.
Il dolore fu profondo e devastante. Fu uno struggente e intenso momento di coesione nazionale, di commozione assoluta e di straordinaria partecipazione. Tutti eravamo presi e non si parlava d'altro.
Quel piccolo bambino era come il figlio di ogni italiano e attorno a lui si coagulò un vero, grande sentimento che, oggi, forse - vaccinati dall'indifferenza e dall'abitudine al dolore e alla violenza - non si verificherebbe più.
Anche se, già allora, diffusa la terribile notizia, arrivarono nei pressi del pozzo, oltre ai soccorritori, ai vigili, alla stampa e al verace Pertini, frotte di persone, di comuni cittadini e di curiosi, oltre agli immancabili venditori ambulanti di bibite e panini.
Via di Vermicino divenne nota a tutti e per lunghi mesi e anni fu strada super trafficata e luogo di pellegrinaggio.
Ne ho testimonianza diretta e personale.
11 giugno 2015           (Alfredo Laurano)

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