giovedì 7 settembre 2017

SUBCOMANDANTE, SUB IUDICE

Il ritratto umano e politico che Andrea Scanzi ha fatto di Fausto Bertinotti, in occasione della sua partecipazione al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, non è condivisibile: ha un che di troppo ironico, di moralista e denigratorio ed è fondato su un evidente pregiudizio. Ne sono prova i tanti sprezzanti commenti che la sua vibrante requisitoria ha suscitato fra i suoi lettori, che hanno fatto di peggio: lo hanno riempito di insulti e parolacce, trattandolo come un traditore opportunista dell’idea e del pensiero nobile della Sinistra. Senza, peraltro, minimamente considerare come questa, calpestata, rinnegata e vilipesa, sia ridotta oggi e non certo per sua colpa.

Vorrei sommessamente ricordare a Scanzi, ai tanti suoi fedeli lettori, severi giudici della Storia, e a tutti i disgustati, che Rifondazione Comunista, fino al 2006, è stato l'unico e solo partito in Italia - arrivato con Bertinotti al 10% - a fare da argine alla deriva fascio-liberista che ora ci ha travolto. La battaglia sulle 35 ore, la difesa delle pensioni e dell'età pensionabile, il referendum per l'estensione dell'articolo 18, le critiche alla cosiddetta "flessibilità", sono stati suoi cavalli di battaglia. 

Ne ha fatto una specie di fumetto, come hanno già disegnato tanti altri prima di lui, a cominciare dalla “cosa più bella della sua biografia” che (lui, Scanzi) coglie su Wikipedia: “ex politico”. In quella prima parolina, “ex”, è racchiusa (afferma sempre Scanzi) tutta la gioia liberatoria provata quando ripensi a qualcosa che prima purtroppo c’era e ora per fortuna non più. Pensa di far ridere con questo puerile giochetto di parole o di aver scoperto una sconvolgente verità?

Poi attacca col il mantra tautologico e noioso del subcomandante Berty che ci rivelerebbe che il movimento operaio è morto, che in CL ha ritrovato un popolo. 
Prosegue con la ricetta bertinottica, che faceva impazzire tanti barricaderi, assai presunti e ben poco veri: un po’ di questo, un po’ di quello e una spolveratina di niente, secondo una efficace tecnica oratoria ben consolidata: parlar tanto per non dir nulla, abusando di immagini il più possibile auliche, affinché tutti capissero che lui era comunista, molto comunista. Sì. Però colto. Colto e figo. 
E qui ricade, secondo uno stantio e infantile copione, nel soverchiante rito del golfino di cachemire, della erre moscia, del portaocchiali, del sigaro pendulo per sentirsi quasi Che Guevara e così via. 
Fragorosa caduta di stile, banalità abusate dalla satira di mestiere e scarsa profondità di analisi di chi si erge dal pulpito giustizialista dell’apparenza spiccia o di ciò che si vuole strumentalmente fare apparire. Troppo facile sparare sull’orsetto Bertinotti al Tiro a segno della giostra populista e vincere la bambolina del consenso e dei mi "piace".

Per chi volesse conoscere l’uomo Bertinotti, attraverso il racconto sarcastico del narciso giustiziere che osserva, giudica e pontifica, è impresa quasi impossibile. Non potrebbe che coglierlo come caricatura teatrale o televisiva, tipo la macchietta spiritosa che ne faceva Corrado Guzzanti, e quindi canzonarlo e coglionarlo: emblema di una Sinistra salottiera e velleitaria, massimalista e inconcludente, al punto giusto da non contare nulla e per questo stimatissimo dalla destra. Uomo del “tutto o niente”, uno dei tanti ad alimentare speranze per poi spazzarle via. 
Lo paragona a Staino, a Migliore e perfino a Chicco Testa - già, solo per questo io lo sfiderei a duello - riesumando che, tra “socialismo Lombardiano” e “comunismo Ingraiano”, disarcionò Prodi, segnando la fine della Sinistra.

Vorrei ancora ricordare che la caduta del governo Prodi non fu colpa di Bertinotti ma dello stesso Prodi. La sola cosa che il segretario di RC chiese per entrare al governo fu la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, al fine di provare a ridurre la disoccupazione, come, all’ epoca, molti pensavano (altri paesi, come la Francia, infatti, l'attuarono). 
Prodi assicurò che si sarebbe fatta tale legge, ma non la fece mai e Bertinotti dopo il tanto tempo concesso al governo, fu coerente e lo salutò, tenendo giustamente fede agli impegni presi con i propri elettori.

Ora - continua ancora a pennellare Scanzi - tra i bolscevichi di CL, Egli ci ha parlato ancora: “La sinistra si è disfatta della storia”, “Dobbiamo porci il problema della fede”; “Il futuro senza tradizione rende succubi”.
E giù applausi e ovazioni, e quindi supercazzole. Così, parlò il subcomandante Berty, l’uomo nato leninista e finito ciellino, lasciando, nel mezzo del suo cammino, macerie politiche inaudite. Di cui, probabilmente, neanche si è accorto.

È evidente che Scanzi sa poco di Bertinotti e dei suoi tormenti umani. 
Che ha interesse solo a farne una macchietta da esibire ai suoi fans e al disprezzo dei duri puristi di Sinistra (chi sono, dove e quando sono?). Che disprezza o, quantomeno, disconosce il suo percorso tra fede e politica, iniziato da sempre, nel dialogo proficuo e costante con tutte le forze popolari, cattolici compresi. 
Il subcomandante non è finito ciellino, come non è nato nemmeno leninista: ha cercato, e non so se ci è riuscito, di fare i conti con la sua coscienza. Ma non ha mancato di coerenza, oggi a quasi tutti sconosciuta. 
Soprattutto a coloro che, quando parlava di idee e di principi, non capendoli, gli guardavano il cashmere o i calzini.
(Alfredo Laurano)

Nessun commento:

Posta un commento