giovedì 17 settembre 2015

E' NORMALE CHE

Ovvero, il sostenibile piacere della normalità.
Oggi, fa proprio caldo! E pigiamo il tasto ON sul telecomando del climatizzatore. O entriamo nel box-doccia e apriamo il rubinetto della pioggia rigeneratrice.
Ho un buco nello stomaco! Apriamo il frigo o la dispensa e scegliamo quale delle mille scatolette aprire per articolare lo spuntino o come farcire un panino o una tartina.
Non ho più contanti nelle tasche! Ogni cento metri c’è un ricco bancomat che ci aspetta e che sputa fragranti banconote. Basta introdurre una delle tante carte al profumo di agiatezza, per spazzare l’ “attimino” di indigenza.
Che gran sete! E vai con una birra ghiacciata o un calice di pregiato vino bianco, una bibita frizzante o un semplice bicchiere d’acqua fresca e dissetante, magari con uno spruzzo di limone.
Sono veramente stanco! Mi spoglio, butto le scarpe e mi sbrago sulla morbida poltrona che mi cinge per offrirmi tutto il suo relax. Incasso il premio e mi abbandono, inerte, tra le braccia dell’ozio e dell’accidia, per farmi coccolare.

Tutto questo è normale per molti di noi e si apprezza in buona parte del mondo emancipato, industrializzato e tecnologicamente evoluto. Quel mondo dove regnano le banche e il capitale, che specula su cose, uomini e animali, su discriminazioni, guerre e vicende umane e che, sfruttando ogni risorsa e sviluppando opportunità e mercato, crea benessere e ricchezza, solo per i suoi seguaci fortunati.
Nasce, così, la cosiddetta normalità, quello standard sociale che ci assicura tranquillità e regolarità.
Ma quasi mai ci rendiamo conto di tale privilegio.
Della fortuna di avere sempre e subito ciò che ci piace, ci serve, ci soddisfa.
Di poter disporre di tutto quello che vogliamo e che abbiamo organizzato per il nostro benessere e piacere. Tasselli di comodità e irrinunciabili vantaggi che scandiscono, quasi fisiologicamente, la nostra vita, ma ormai scontati e senza appeal.
Diritti acquisiti che, come tali, non apprezziamo più. Che procurano una sorta di felicità che non riconosciamo.
Troppo spesso confondiamo questi favori e benefici con la noia, l’abitudine, la routine: che palle! Invece sono e rappresentano la nostra sicurezza, la nostra valvola di sfogo in ogni situazione, anche complessa.
Normalità è quotidianità: gesti, abitudini, piaceri, facoltà, meriti, interessi, vacanze e programmi proposti e concessi, in perenne usufrutto, alla fiera senza tempo del comodo, dell’utile e del bello, come prerogativa esclusiva delle società occidentali.
Come girare la chiave ed entrare in casa, aprire l’armadio per scegliere l’abito più adatto o andare al market a comprare cibo, al cinema, al teatro, al concerto, dal parrucchiere, dall’estetista, dal chirurgo plastico per un ritocchino, al ristorante o al bar per un gelato o un caffè.
O accendere l’interruttore della luce quando si fa buio, lo schermo a led, il gas, il riscaldamento, o digitare ossessivamente sul telefonino, sul tablet e sul Pc. O appassionarsi al tifo dello stadio, al modello d’auto o di moto che ci piace. O esercitare diritti sindacali e sacre garanzie, far valere il proprio status, scegliere il voto alle elezioni e il medico di base.
Tutto è semplice, e anche dovuto, nella grande giostra del confort e della prosperità. E’ il sottile e sostenibile piacere della normalità.

“E’ normale che…” - come recita anche l’intercalare di Totti e lo slang della scuola calciatori - se non fosse per quelle consuete e trite notizie che troppo spesso, o quasi tutti i giorni, disturbano quel piacere, magari quando siamo a tavola a gustar manicaretti, e ci distraggono dalle nostre ordinarie ossessioni e assilli esistenziali. Che noia, che barba, che barba, che noia!
Quanti morti oggi?  In quale mare o in quale terra?
Di fronte a quelle crude immagini di guerre, di bombardamenti, di teste mozzate, di stragi di migranti e di bambini nel Mediterra­neo e nel cuore d’Europa, è meglio abbassare gli occhi e la coscienza, non guardare, girare pagina o cam­biare canale, per­ché è il solito spet­ta­colo con i suoi rituali bollettini: cambia “solo” il numero dei morti e dei dispersi.
Paradossalmente, men­tre si consuma e si rinnova la tra­ge­dia umanitaria, dilaga la pas­si­vità e si dilata l’abitudine alla noti­zia, sem­pre più simile a una fiction, in moda­lità rea­lity, che però non appassiona, non tiene svegli e non fa salire l’auditel.
In fondo non è nostra la responsabilità di que­sto biblico esodo di massa. Di chi fugge dalle guerre e dalla miseria per raggiungere Paesi ric­chi di terra, di presunte opportunità e di mate­rie prime. Alla ricerca di semplice “normalità”.
Noi siamo per le guerre “uma­ni­tarie", siamo innocenti e non conosciamo la disu­ma­nità che altri hanno pro­dotto e che, nella quasi indifferenza generale, vede migliaia di persone affo­gare fra le onde o morire nei camion, come carne avariata da macello, men­tre nel lungo cam­mino della disperazione tenta di ridi­se­gnare, abbat­tere, superare le fron­tiere e i nuovi muri dell’Europa.
Anche se non ci commuoviamo più.
Anche questo è normale?
16 settembre 2015 (Alfredo Laurano)



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