domenica 5 ottobre 2014

CARTA, PENNA E CALAMAIO


Come tutti, da bambino, ho imparato a leggere e a scrivere, oltre a far di conto.
Ricordo ancora le lunghe e noiosissime paginette di astine, di vocali e consonanti ripetute all'infinito, i dettati ben scanditi, i pensierini con disegnini e cornicette, i temi con tanto di titolo e svolgimento.
E la brutta e la bella copia nei relativi quaderni di “Bella” e di “Brutta” con la copertina nera, detti “del Patronato o dei poveri”, scomparsi nei primi anni sessanta.
Poi, la grammatica, l’ortografia e la sintassi. Arrivarono i verbi, i complementi, il vocabolario e le stimolanti ricerche storico-geografiche o di scienze naturali.

All'epoca, si insegnava anche la calligrafia, la bella scrittura. E il disegno libero e geometrico.
Nelle classi, i banchi erano di legno e avevano il calamaio incorporato.
Gli esercizi si facevano prima a matita, dopo a penna, col pennino intinto nell'inchiostro che, all'occorrenza, veniva rabboccato dal bidello.

Molti quaderni avevano in testa due pagine fatte di carta assorbente per asciugare le macchie inevitabili. 
Nella cartoleria, vicino alla scuola, si compravano i pennini: quelli normali, dalla forma a goccia a 5 Lire l'uno, quelli a forma di campanile o più elaborati che sembravano la Tour Eiffel, a 10 Lire. 
Nell'adolescenza, forse, per inseguire e far quadrare i conflitti ideologici e generazionali, per assecondare le tensioni ormonali, o per sublimare le pulsioni sessuali dell’età, mi appassionai di letteratura classica e romantica, di romanzi e di letture: da Pellico a Leopardi, da Hugo a Fogazzaro, da Svevo a Pirandello.

Divoravo libri e pagine con avidità e gran partecipazione e con il mio più caro amico - con cui “spartivo” ogni sussulto della mia vita (e che da tanto non c’è più…ciao Albertino, sei sempre nel mio cuore) - cominciai a scrivere per gioco, per passatempo, per curiosità.

Per creare qualcosa di mio, di nostro, come accadeva per lo studio, per le ragazze e per le avventure d’ogni tipo. 
Per esprimere idee e pensieri personali da condividere. 
Per confrontarci e metterci in gioco. 
Quanti momenti abbiamo condiviso!
Raccontare i fatti o una storia o un’esperienza era un modo per unire la fantasia ai desideri, per coltivare sogni, bisogni e voglia di conoscere, di sapere, di interpretare una certa realtà e di comunicarla ad altri.

Insieme, ci tuffammo nell'avventura del romanzo poliziesco che in quel momento ci attraeva molto, forse perché il cinema e il relativo genere di letteratura popolare – Allan Poe, Holmes, Maigret, A. Christie e i settimanali Gialli Mondadori – lo proponevano spesso e largamente. 
Ne eravamo affascinati.

Il “nostro” era ambientato nell'Ohio, sulle sponde del lago Eire. Titolo: Mistero a Cleveland.  Scrivevamo a mano qualche pagina, per mesi, ogni pomeriggio, ma non fu mai finito.
Come nella migliore tradizione, i personaggi e le ambientazioni erano espressione della fantasia e della naturale voglia di identificazione.
In particolare, le figure femminili rappresentavano il nostro ideale di donna misteriosa e conturbante, disegnata e mitizzata secondo i nostri gusti e preferenze: un concentrato di piacere e voluttà, la proiezione dei nostri desideri.
La narrazione dava largo spazio alle sensazioni dei protagonisti, alla descrizione dei luoghi e dei caratteri, alla cura della logica, della credibilità e del dettaglio.
Scarsa attenzione, invece, alla trama, ma sicuro l’obiettivo: il trionfo della giustizia nella lotta tra il bene e il male e il cattivo che soccombe. Certi valori erano, a quei tempi, più che assoluti.

Ho ritrovato, di recente, il manoscritto originale, su fogli di quaderno impiastricciati. Porta la data maggio 1962.
Intanto, il lunedì curavo il mio personale “giornale” sportivo. Una sorta di “Corriere dello sport” casareccio.
Quattro o sei pagine su un quadernone formato protocollo con titoli, occhielli, sommario, manchette e box grafici sui cui annotavo, sempre a mano, risultati, classifiche e marcatori e, soprattutto, scrivevo articoli e commenti tecnici, molto partigiani, sulle partite di calcio della domenica precedente.
In quegli anni, non c’erano tutti i quotidiani sportivi, le moviole, i replay infiniti da mille angolazioni e le tantissime trasmissioni di oggi. Né si parlava di calcio ogni momento.
Ovviamente non c’era Internet, non esisteva Facebook, né i telefonini e il calcio on line e la pay per view.

Compatibilmente con le prime, precarie esperienze di lavoro (rappresentanze, vendite porta a porta, botteghini del Lotto, Totocalcio, supplenze e insegnamento, associazioni culturali), nel periodo universitario cominciai a pubblicare i primi articoli di cronaca, d’arte e di folklore sulle riviste  Enal e vari quotidiani. Ovviamente, a titolo gratuito.
Tutti scritti a penna e con la macchina Olivetti, come la stessa tesi di laurea, battuta in cinque copie, con la carta carbone e le veline. Se ne occupò la mia paziente compagna, cui ancora sono grato.
Ad ogni errore di battitura, non si poteva cancellare, riscrivere o spostare, come facciamo oggi con la tastiera del PC. Si correggeva col bianchetto, se possibile, o si buttava il foglio e si ricominciava.

Negli anni ho continuato a scrivere con la mia amata stilo.
Per scelta, per diletto e per lavoro: pensieri, racconti, poesie, lettere e riflessioni.
Poi, i testi per i miei servizi televisivi, per i video di formazione professionale, le sceneggiature di un film amatoriale, di un altro per la Festa dell’Unità, di tanti documentari, spot e filmati vari.

Negli ultimi tempi, oltre a scribacchiare sui Social e su questo mio artigianale Blog, mi son dovuto, purtroppo, quasi specializzare nei tristi messaggi di ultimo saluto, in ricordo di amici e cari che ci hanno lasciato. Anche a richiesta, come accadeva allo scrivano di una volta che componeva lettere d’amore o di notizie, per conto di qualcuno.

Comunque, c’è sempre un giusto motivo per scrivere. 
Per bisogno di dialogo, per urgenza dello spirito, per necessità, ma senza l’impulso della prima parola che ci scappa in mente.
E’ come aprire il cassetto della nostra intimità.
Scrivere ci costringe a osservare, a riflettere, a valutare, a raccontare un pezzo del nostro mondo. 
Ci inchioda alla responsabilità di un’idea che nasce, prende forma e si incide in una pagina che cammina nel tempo e nello spazio.
E’ un prezioso strumento autonomia che ci consente di esprimere volontà, passioni, dubbi e desideri. Di sfogare rabbia o delusione, di ragionare con noi stessi, senza essere interrotti o contraddetti ma, al massimo, giudicati, condivisi, contestati o disprezzati subito dopo.

Si scrive per mettere ordine ai pensieri, per dare un senso alle parole che raccontano la vita, per partecipare affanni, gioie ed emozioni.
Per lasciare, forse, un’esile traccia e impedire al tempo cinico di cancellare tutto, anche la bellezza dei ricordi.
O per dare ad altri un po’ del nostro “pane e vino” letterario, in una sorta di eucarestia pagana.

Ci sono mille ragioni per usare la penna o la tastiera, forse molte di più di quelle che ci arroghiamo per parlare o sproloquiare.

“L’unica cosa che scrivi per te stesso è la lista della spesa. Serve a te per ricordarti cosa comprare e a nessun altro. Infatti, dopo si butta. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno”.  (Umberto Eco).
E’ l’estrema sintesi del concetto di comunicazione.
Perciò scrivere un saggio, un romanzo, un articolo o anche un semplice pizzino - come la verità - rende liberi.
Liberi di essere, di scegliere, di informare, di denunciare, di dire ciò che conta veramente.

4 ottobre 2014                                                  (Alfredo Laurano)


2 commenti:

  1. Sono interessata alla foto con i bambini che scrivono. Serve per una mia pubblicazione sulla storia della scuola dove insegno. Tutto il lavoro verte sulle relazioni che le maestre scrivevano nei registri. E' coperta da copyright?

    RispondiElimina