giovedì 16 maggio 2013

LA MOTO-GARA DI S. PIETRO


Prima del racconto, un’utile premessa per chi legge queste righe: non sono un appassionato di motociclette; non ho mai posseduto, né guidato neppure un motorino. Da ragazzo andavo qualche volta in bicicletta.
Tuttavia, non so per quale strana alchimia onirico-fantastica della mente, mi trovo immerso in una dimensione fiabesca e leggendaria: sono in sella a un rombante scooter - fermo insieme a mille altri - alla fine di via della Conciliazione. Poco prima dello slargo che immette nella piazza di S. Pietro e al colonnato del Bernini.



C’è il semaforo rosso e sopra la mia, o meglio le nostre teste, c’è un grande e alto arco di mattoni: un’enorme porta antica - tipo quella Angelica - che va da parte a parte dello stradone.


Siamo in gara, partiti in gruppo da Castel S. Angelo e abbiamo percorso il lungo rettilineo, tra due ali di folla festante, per giungere al traguardo davanti alla basilica, dove c’è la scalinata.

Vince chi per primo tocca con la ruota uno dei piloni di cemento, posti poco prima dell’ingresso. Un po’ come succede nella gare di nuoto dove, all'arrivo  bisogna toccare con la mano la sponda della piscina.

Nel lunghissimo tempo  di attesa del verde, mi viene da pensare: “ma per tagliare il traguardo, perché devo schiantarmi contro un blocco di granito, visto che comunque devo arrivarci a una certa velocità? Ho io, o forse gli altri, una qualche immunità o il dono dell’immortalità?
Mentre rifletto con intensità, cercando una ragione che non trovo, scatta il semaforo e parto a razzo insieme a tutti. Non penso più al pilone.
Mi accorgo di essere il più veloce, sono davanti a tutti e al fumoso polverone. Il mio motore vola e in un baleno taglio il traguardo. O meglio, tocco il cemento con la gomma anteriore.
Ho vinto, ho vinto!....ma non è successo niente: il mio motorino si è semplicemente fermato, come per incanto, davanti a quel pilone! L’impatto è stato ammortizzato senza conseguenze.

Sono circondato da tanta gente sconosciuta, la piazza è piena come quando, la domenica, s'affaccia il papa alla finestra. Mi guardo intorno alla ricerca di un volto amico.
Mi ritrovo tra le mani una specie di lingottino di sfoglia d’oro, vuoto dentro, con incise le scritte dell’evento. Un specie di sottile scatoletta, tipo madreperla. E’ il mio premio, il trofeo del vincitore.
Quasi sommerso, svicolo da sotto e mi allontano. Scopro un amico, poi un’amica, poi tanti altri che mi abbracciano e mi fanno festa. A tutti mostro con orgoglio il fagottello vinto e conquistato con inedito coraggio. Ma, ormai, tutto mi appare banalmente normale.

L’improvviso risveglio, nel cuore della notte, mi tiene ancora per un po’ calato in quella magica atmosfera. 
Una sorta di compromesso, di limbo della coscienza che non vuole uscire troppo presto dal mondo surreale dell’inconscio, anche se ambiguo e assai ingannevole. E’ pur sempre un luogo fatato ed attraente, dove si incontrano e si dipanano i percorsi arditi della mente. 
Dove la seduzione dei ricordi di una vita si combina o si scontra con simbologie latenti e reali sensazioni: il vecchio Motom anni cinquanta di mio padre che mi portava in sella; le paure dell’infanzia; il bisogno di amore e protezione; la sfida del coraggio; il rifiuto di un mondo cinico che non fa sconti e ti obbliga a lottare; la percezione della fragilità umana e della caducità dell’esistenza.

Tutto ciò si fonde e si miscela nella variegata antologia dell’irrazionale, mentre cerchiamo di interpretare un sogno, di dargli un significato, di trovare un senso che equivalga a quello che ha o che non ha la vita.
Se da giovani non è poi così importante scoprirlo, a una certa età questa ricerca può diventare una inconsapevole necessità, se non addirittura un tormento quotidiano o un’ossessione ricorrente.
E svelarsi simbolicamente, sotto mentite spoglie, in un bizzarro sogno che sa tanto di inconfessato misticismo.
16 maggio 2013
                                                                        (Alfredo Laurano)

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