venerdì 7 luglio 2017

TIMBUKTU, PER CAPIRE DI PIU’

Da una parte, la tranquilla vita quotidiana della popolazione nella città di Timbuktu, in Mali, dall’altra il folle regime degli jihadisti, che impongono la sharia, attraverso una serie di divieti.
L’Islam normale, pacifico e moderato da una parte, il fondamentalismo religioso e ottuso dall’altra.
Tutto è proibito. Non si può fumare, non si può cantare, suonare o ascoltare musica, non ci si può sedere davanti l’uscio delle case, né giocare al calcio. Le donne devono indossare il velo e i guanti (anche nel lavoro e per pulire il pesce).
Frustate a volontà per tutti. 
L’adulterio è punito con la lapidazione: una coppia di fedifraghi viene interrata fino al collo e colpita nella faccia e nella testa, che fuoriesce, da continue sassate, fino alla morte. 
È la civiltà e la volontà del loro Dio.

Questo il contrasto stridente che il regista africano, Abdurrahman Sissako, racconta e mette in evidenza nel suo bel film Timbuktu, girato nel 2014 (nelle sale, nel 2015), messo in onda ieri sera da Raitre.
Un dualismo incomprensibile e sconvolgente, non solo agli occhi del mondo laico e occidentale, che convive in anime diverse, pur dello stesso credo.
Ma lo fa con garbo, con delicatezza e quasi con rispetto, senza rabbia, né clamore spettacolare. Non sceglie il sensazionalismo, la crudeltà delle immagini e delle situazioni, il resoconto della violenza: sarebbe la strada più semplice, più immediata, più diretta alla pancia dello spettatore
È, invece, un invito a prendere coscienza, a capire a fondo il dramma delle popolazioni musulmane vessate e represse da altri islamici, in nome di un Allah, prepotente, vendicativo e intollerante.

Ogni sequenza è comunque pervasa da una forte intensità emotiva, dove l’orrore è sempre presente sullo sfondo o in posizione defilata. Ogni scena è carica di tensione, ogni fotogramma racchiude i piccoli gesti delle attività umane, regolate dal tempo naturale, dall’alternanza del giorno e della notte.

Come la drammatica storia di Kidane e della sua semplice famiglia, che vive fra le dune del deserto in una tenda, con i suoi buoi e con i suoi sani sentimenti, non lontano dalla città, invasa e controllata dagli usurpatori integralisti.
Come la straordinaria partita di pallone, su un campo sabbioso, dove i giovani calciatori corrono, scattano, dribblano, colpiscono di piede e di testa, tirano in porta, segnano, parano in tuffo, esultano…immaginando di giocare.
Ma il pallone non c’è, è nella loro fantasia.

Quella vita in armonia con la natura, con il paesaggio e con altri esseri viventi, che si scontra ripetutamente con il dogma che diventa legge, rappresenta il dramma di intere popolazioni di fronte alla barbarie di un potere perverso che giudica, pregiudica e punisce e di una visione religiosa, ferocemente intollerante e ipocrita, imposta dal suono dei kalashnikov.
Che consente agli stessi suoi interpreti e aguzzini di fumare, di danzare sui tetti, di parlare di calcio, di ridere, cantare e di abusare di donne e fare sesso mercenario.
Fra proclami e devozione, fra telefonini, motociclette e pick-up che scorrazzano nel deserto.
(Alfredo Laurano)


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