sabato 30 aprile 2016

BERTO-LASCIO

Ormai è ufficiale: Forza Italia - che per vent’anni ha condizionato il panorama politico italiano e raccolto milioni di voti di devoti credenti berluscones - non avrà un suo rappresentante nella corsa per il sindaco della capitale.
Dopo averlo inventato dal nulla e dopo averlo rassicurato fino a poche ore prima, l’ex premier d’Arcore, in avanzato stato di confusione senile e, sicuramente, illuminato da realistici sondaggi, ha ritirato all’improvviso la candidatura dell’ex capo della Protezione Civile, Bertolaso,  “incarnazione postuma dell’emergenzialismo berlusconiano spacciato per arte di governo”, per portare le ceneri del suo partito a convergere sulla candidatura di Alfio Marchini, rifiutando l’alleanza con la destra estrema di Salvini e Meloni. 
Roma non è più in emergenza? Non è più terremotata come L’Aquila, non ha più bisogno del grande salvatore-protettore?
Come osserva con distacco Ezio Mauro, quei manifesti ora strappati di Bertolaso, sorridente sui muri della città, sono la lapide alla memoria di un’avventura politica che non ha più ragioni per vivere, ma non sa come morire.

Dopo le note vicende giudiziarie, le condanne, i patti nazareni, gli strappi di Fini, di Alfano, di Fitto e, perfino di Bondi, fino a quelli di Meloni e Salvini, Berlusconi, per anni leader indiscusso di una coalizione di moderati, di ex fascisti, di leghisti secessionisti e vari, ha di fatto perso il suo ruolo egemone e non è più padrone del partito e di nessuno.
Per questo aveva scelto Bertolaso, il male minore per contare sulla carta ancora qualcosa e non abdicare in via definitiva. Una specie di esperimento dinastico - come dice ancora Ezio Mauro - il primo vero trasferimento diretto di sovranità, per un berlusconismo senza Berlusconi.
Ma Bertolaso, come era scontato e prevedibile, non è mai decollato come candidato sindaco e non sarebbe mai arrivato  al ballottaggio. 
Come scrissi a suo tempo, chi lo avrebbe votato con il suo curriculum e contemplando le sue gesta? Sarebbe stata una disfatta, la ratifica ufficiale dell’ormai inconsistente peso politico del vecchio Silvio.

Ma, più o meno per le stesse ragioni, non poteva scegliere la ruspantissima Meloni, perché avrebbe significato riconoscerne la nuova leadership e cedere lo scettro del comando: un’investitura d’autorità, con tanto di benedizione e di imprimatur del ex sovrano abdicante.
Allora ben venga l’Alfio, il  palazzinaro "Ridge", archetipo del piacionismo capitolino, belloccio ed elgante, che almeno eviterà di mandarla al ballottaggio col PD.
Una scelta di sopravvivenza a favore di un candidato non politico - d’origine “calce&martello”, nipote di un gappista, ferito in battaglia e medaglia d'argento, e di un ex presidente (Alvaro) della Roma  - a cui non dovrà cedere alcuna delega o potere. 

Ciò che resta del suo partito e dei suoi brandelli, però, dovrà comunque guardare anche a Storace e alla Mussolini, nonché alla stessa “mamma” Giorgia e decidere, soprattutto, con chi schierarsi al quasi certo ballottaggio.  
Quegli elettori senza più riferimenti, orfani di promesse e di certezze che solo Silvio garantiva, sono ormai in libera uscita, disorientati, allo sbando o alla deriva, come nave senza nocchiere o come gregge senza pastore.
E non sono pronti a tanta libertà e a tutta questa inusuale autonomia.
(Alfredo Laurano)

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