giovedì 18 dicembre 2014

SONO DIECI, MA SEMBRANO MILLE

Quelli della mia generazione sono cresciuti a pane pallone e catechismo, nel timore di un Dio-arbitro inflessibile, che giudica, punisce e che pretende l’assoluta obbedienza ai suoi regolamenti. 
Pena ammonizioni, cartellini gialli o espulsioni dalla riconosciuta comunità: un oratorio, come palestra di vita, di gioco e di conoscenza.

Poi, siamo maturati, abbiamo studiato, imparato, contestato e molto dubitato. Abbiamo allargato spazi e mente e cominciato a pensare in maniera autonoma e libera da lacci e vincoli dogmatici.

Abbiamo rifiutato ogni tipo di indottrinamento e di assurde superstizioni, anche se altri, tuttora, ne portano il folle peso, attraverso forme di esiziale fanatismo e pericolosa intolleranza.
Ci siamo fatti, più o meno, un’idea del mondo, dell’umanità, della religione e, quindi, di un dio, diverso in ogni latitudine, più buono o più severo, che premia o che castiga, a seconda dei casi e delle urgenze politiche o sociali. Un totem da adorare per giustificare i nostri limiti, la nostra impotenza.

Abbiamo anche scoperto che non sempre, e non necessariamente, un qualsiasi credo religioso rappresenta la risposta ad un bisogno innato e primitivo, che nasce dalla voglia di sapere, di capire, di dare un senso a tutto.
Forse, lo costruiamo, su misura, nel disperato tentativo di un'esegesi, personale o collettiva, di ciò che ci circonda: dagli incredibili fenomeni della natura che ci avvolgono e ci dominano - dove il divino e il trascendente sono presenti ovunque, nei cicli, nel giorno e nella notte, nelle piante, nei fiumi, nella terra, in cielo e in ogni cosa - al mistero della nascita, della vita e della morte, a cui cerchiamo di dare una pur approssimativa, ma confortante risposta, assieme agli altri milioni di perché dell’universo, della creazione o del big bang.

Sullo sfondo di questo antico e irrisolvibile dilemma, che vive a confine fra pensiero scettico e razionale e visione spirituale e mistica, Roberto Benigni, con oltre dieci milioni di spettatori al seguito - “grazie ai tanti che sono ai domiciliari” - ha dato vita a un’interpretazione personale, vibrante, passionale e stupendamente poetica dei Dieci Comandamenti: un inno appassionato all'amore, allo spettacolo della vita, dove la realtà dell’esperienza sensoriale si fonde e si intreccia con una dimensione sacra e soprannaturale, alla ricerca della felicità.

Per alcuni, e lo riporto con non poco fastidio, “uno spettacolo di una noia biblica, di catechismo spicciolo e privo di qualsiasi fondamento teologico, un concentrato di buonismo e faziosità cattocomunista, zeppo di pippotti moraleggianti”
Al di là dei commenti di certi “aspiranti” opinionisti, in cerca di gloria e pubblicità - che, parlando di noia da “nuova Corazzata Potemkin”, deridono una delle più alte opere della cinematografia russa e confessano un madornale esempio di ignoranza della storia del cinema - le due serate in TV del geniale “toscanaccio” hanno rappresentato, a mio avviso, il garbato racconto della contraddizione e della fragilità umana, attraverso la bellezza delle parole e la magia dell’immagine evocata. Tutto dipinto con i delicati colori della sensibilità e sull’onda sempre viva dell’emozione.

Anche se ci propone un mirabile affresco spirituale del rapporto con il divino, che oscilla tra amore sacro e profano, fra estasi mistica e contemplazione filosofica, resta comunque una lettura profondamente laica, oltre che di forte attualità, perché, attraverso quei comandamenti, ci guida alla riscoperta di valori umani, sociali e immateriali, troppo spesso dimenticati.

Anche senza la raffigurazione iconografica di Dio che sul monte Sinai consegna le tavole a Mosè, resta integro e assolutamente convincente il significato sociale di quelle norme di buon senso e di giustizia che regolano la convivenza e i rapporti umani, oltre che con il sovrannaturale, senza doverle per forza riferire all’idea di un dio dispotico e intransigente.

Per l’uomo, che si muove scompostamente nel mistero della sua esistenza, i dieci comandamenti, secondo Benigni, rappresentano il bisogno di una legge per essere se stesso: libero di relazionarsi con Dio o di confrontarsi e riconoscersi nel prossimo.
Ulteriore conferma della aconfessionalità e della autonomia del suo libero pensiero, è stata anche la capacità di condannare su certi temi la Chiesa “che si è permessa il lusso di cancellare le parole di Dio per metterci le proprie" e di criticarla per l'uso distorto che per secoli ha fatto del concetto di Dio.

Roberto Benigni ha scritto tante pagine importanti nella storia della televisione e del cinema, da Dante, all’Inno di Mameli, alla Costituzione (“la più bella del mondo”).
Ieri, con i dieci comandamenti ha proposto una affascinante lezione di etica e ha chiarito concetti universali che nemmeno la stessa Chiesa ha mai saputo divulgare.
Ci ha fatto riflettere ed emozionare, con la sua intima religiosità e con l’autentica commozione che lui stesso ha provato: “Stavolta o mi arrestano per vilipendio alla religione o mi fanno cardinale”.

Di fronte a un’umanità sempre più perduta nel male e nella violenza, ci ha parlato di Dio e dell’uomo, con semplicità, con gioia e con rinnovato stupore. E con un pizzico di giusta ironia. 
Forse ho esagerato un po', la gente oggi mi ha fermato: chi si voleva confessare, chi mi ha chiesto se ero libero per un battesimo, c'è gente che vuole destinarmi l'8 per mille addirittura, un altro mi ha chiesto l'indirizzo della parrocchia o mi ha prenotato per la messa di Natale".

Senza veleni, senza arroganza e, soprattutto, senza quella maledetta, distaccata aria di superiorità, professorale, cinica e sprezzante, che oggi dilaga e consente a chiunque di criticare tutto e tutti, per moda e con irritante saccenteria.
Solo i grandi artisti sanno farlo.
 18 dicembre 2014                                   (Alfredo Laurano)

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