lunedì 15 dicembre 2014

MELE MARCE



In tutti i Paesi del mondo c’è delinquenza e corruzione. Crimini, misfatti, ricatti, narcotraffico e mafie varie fioriscono e si diffondono dappertutto.
Dove ci sono uomini e potere, dove c’è da gestire la cosa e la finanza pubblica, c’è sempre qualcuno che abusa di ruoli e posizioni, che ignora e viola la normale convivenza civile e democratica.
Qualcuno che va ben oltre lo steccato del bene e del male, dell’incerta integrità morale e che calpesta con prepotenza le regole dell’onestà e della trasparenza. Che compra o che si vende, che ruba, che specula e che costruisce immense fortune sul fertile terreno dell’illegalità: sono tante le occasioni di frode criminale che l’articolata fiera della bassezza umana fornisce a larghe mani.
C’è chi è mercenario o prezzolato per indole e natura, chi per vizio acquisito, chi per sete di ricchezza. O chi delinque per avidità, per esaltazione o mania di grandezza, per sentirsi potente e realizzato, appagato dal profumo del denaro!

Si dice che il malaffare trovi molto spazio e consenso tra le pieghe della miseria, dell’emarginazione e della clandestinità e in chi vive in condizioni di ricattabilità. Ma ciò, se è vero, vale solo per chi voglia reperire e acquistare manovalanza criminale, a basso costo, al florido mercato dell’indigenza e del disagio sociale, non per ingaggiare chi è già più che garantito di suo, chi è pronto a vendersi, non per bisogno, ma per accrescere quello che già possiede, il suo patrimonio, la sua sicurezza, la sua condizione di benessere e privilegio.
Sono gli ingordi adepti della filosofia dell’avere.

Secondo gli immorali parametri sociali, oggi si giudica qualcuno non per quello che è, che esprime e rappresenta, ma per quello che ha: chi non fa i soldi è considerato un poveraccio, un incapace, un fallito o un cretino. E’ per questo che lucro, tangenti e mazzette segnano i passi del percorso della corruzione. Fino al trionfo dell’egoismo puro.
Il denaro ti fa bello, bravo e importante, a prescindere da ogni altra eventuale qualità - non necessaria ed essenziale - e da come l’hai ottenuto, rubato o guadagnato. Ti da prestigio, nobiltà e stima sociale.

Ma in questa Italia deviata e perduta, deprivata di valori e degenerata nei principi e nei costumi, la delinquenza si fa sistema, sposando la politica e le istituzioni e assurge al ruolo di “Mafia Capitale”.
Alla mafia storica “coppola e lupara” - quella del tritolo, delle stragi e che fa affari con lo Stato - si sostituiscono, o meglio si aggiungono, altre forme di criminalità organizzata che si riproducono e si propagano per talea: quelle locali, tante piccole “cosa nostra” spontanee e occasionali, che controllano i gangli vitali e i canali di spesa di aree circoscritte. Ogni regione, ogni comune ha la sua “banda della Magliana”, la sua camorra “provinciale” che vigila, presidia il territorio e impone il pizzo e le sue leggi.
Un fenomeno in continua crescita che va sempre più a collocarsi tra le tipicità e le tradizioni del nostro grande Paese, trovando spazio accanto a quelle storiche, artistiche, gastronomiche e di folclore, per le quali un tempo eravamo conosciuti ed apprezzati.
La disonestà è lo strumento di una nuova egemonia culturale, che oggi ci distingue e ci pone al primo posto di quella speciale categoria, nel nostro continente. E ci fa vergognare.

E’ vero che non tutti i politici sono corrotti; che non tutti i grandi appalti odorano di mafia e di tangenti; che non tutti i funzionari e i vigili prendono la mazzetta; che non tutti i professori si vendono, anche in natura, gli esami all’università; che non tutti i rettori sono nepotisti e fanno vincere cattedre e concorsi da primario a figli, mogli e affini; che non tutti i chirurghi operano le vecchiette con scarse aspettative di vita per avere i rimborsi della regione; che qualche centro di identificazione per rifugiati e immigrati funziona decentemente e che qualche cooperativa spende per i rom i soldi che per i rom riceve.
Ma è altrettanto vero che la gestione della cosa pubblica, o di qualsiasi banchetto di potere, sia sempre più vista come l’irripetibile occasione per conseguire profitto e vantaggi personali, per ricevere e scambiare favori, per acquisire consenso, rendite di prestigio e scalare posizioni. Un multiforme contenitore da usare come proprietà privata, da trattare o svendere, quando e come più conviene, in un processo che eccita l’autostima, favorisce il vizio e annacqua la coscienza.
Come dice Travaglio, non sono marce le mele, ma il cestino che le contiene.

A questa distorta e fuorviante mentalità - che a volte suscita persino invidia e ammirazione per chi ha la fortuna di praticarla (ricordiamo, solo per esempio, l’apprezzamento di molti poveri italiani per le promiscue imprese pubblico-private dell’indomito Berlusconi) - ci stiamo un po’ tutti adeguando e abbandonando, forse per noia, forse per stanchezza.
O, forse, perché manca nel popolo-nazione l’idea fondamentale del bene comune, della cosa che è di tutti e che da tutti va difesa e rispettata.
La concezione che chi ruba denaro pubblico, lo sottrae alle nostre tasche. Che chi corrompe o si vende, lo fa sfruttando le nostre risorse, le nostre sicurezze.
Come chi sporca le strade e i monumenti insulta la storia e deturpa la nostra casa.
Farabutti, truffatori, criminali e parassiti sono spesso l’altra faccia della nostra indifferenza.
Se vogliamo liberarcene, dobbiamo estirparla dalla nostra consapevolezza e, forse, dal nostro DNA.

14 dicembre 2014                                          (Alfredo Laurano)


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