In tutti i Paesi del mondo c’è delinquenza e
corruzione. Crimini, misfatti, ricatti, narcotraffico e mafie varie fioriscono
e si diffondono dappertutto.
Dove ci sono uomini e potere, dove c’è da
gestire la cosa e la finanza pubblica, c’è sempre qualcuno che abusa di ruoli e
posizioni, che ignora e viola la normale convivenza civile e democratica.
Qualcuno che va ben oltre lo steccato del
bene e del male, dell’incerta integrità morale e che calpesta con prepotenza le
regole dell’onestà e della trasparenza. Che compra o che si vende, che ruba,
che specula e che costruisce immense fortune sul fertile terreno
dell’illegalità: sono tante le occasioni di frode criminale che l’articolata
fiera della bassezza umana fornisce a larghe mani.
C’è chi è mercenario o prezzolato per indole
e natura, chi per vizio acquisito, chi per sete di ricchezza. O chi delinque
per avidità, per esaltazione o mania di grandezza, per sentirsi potente e
realizzato, appagato dal profumo del denaro!
Si dice che il malaffare trovi molto spazio e
consenso tra le pieghe della miseria, dell’emarginazione e della clandestinità
e in chi vive in condizioni di ricattabilità. Ma ciò, se è vero, vale solo per
chi voglia reperire e acquistare manovalanza criminale, a basso costo, al
florido mercato dell’indigenza e del disagio sociale, non per ingaggiare chi è
già più che garantito di suo, chi è pronto a vendersi, non per bisogno, ma per
accrescere quello che già possiede, il suo patrimonio, la sua sicurezza, la sua
condizione di benessere e privilegio.
Sono gli ingordi adepti della filosofia
dell’avere.
Secondo gli immorali parametri sociali, oggi
si giudica qualcuno non per quello che è, che esprime e rappresenta, ma per
quello che ha: chi non fa i soldi è considerato un poveraccio, un incapace, un
fallito o un cretino. E’ per questo che lucro, tangenti e mazzette segnano i
passi del percorso della corruzione. Fino al trionfo dell’egoismo puro.
Il denaro ti fa bello, bravo e importante, a
prescindere da ogni altra eventuale qualità - non necessaria ed essenziale - e
da come l’hai ottenuto, rubato o guadagnato. Ti da prestigio, nobiltà e stima
sociale.
Ma in questa Italia deviata e perduta,
deprivata di valori e degenerata nei principi e nei costumi, la delinquenza si
fa sistema, sposando la politica e le istituzioni e assurge al ruolo di “Mafia
Capitale”.
Alla mafia storica “coppola e lupara” -
quella del tritolo, delle stragi e che fa affari con lo Stato - si
sostituiscono, o meglio si aggiungono, altre forme di criminalità organizzata
che si riproducono e si propagano per talea: quelle locali, tante piccole “cosa
nostra” spontanee e occasionali, che controllano i gangli vitali e i canali di
spesa di aree circoscritte. Ogni regione, ogni comune ha la sua “banda della
Magliana”, la sua camorra “provinciale” che vigila, presidia il territorio e
impone il pizzo e le sue leggi.
Un fenomeno in continua crescita che va
sempre più a collocarsi tra le tipicità e le tradizioni del nostro grande
Paese, trovando spazio accanto a quelle storiche, artistiche, gastronomiche e
di folclore, per le quali un tempo eravamo conosciuti ed apprezzati.
La disonestà è lo strumento di una nuova
egemonia culturale, che oggi ci distingue e ci pone al primo posto di quella
speciale categoria, nel nostro continente. E ci fa vergognare.
E’ vero che non tutti i politici sono
corrotti; che non tutti i grandi appalti odorano di mafia e di tangenti; che
non tutti i funzionari e i vigili prendono la mazzetta; che non tutti i
professori si vendono, anche in natura, gli esami all’università; che non tutti
i rettori sono nepotisti e fanno vincere cattedre e concorsi da primario a
figli, mogli e affini; che non tutti i chirurghi operano le vecchiette con
scarse aspettative di vita per avere i rimborsi della regione; che qualche
centro di identificazione per rifugiati e immigrati funziona decentemente e che
qualche cooperativa spende per i rom i soldi che per i rom riceve.
Ma è altrettanto vero che la gestione della
cosa pubblica, o di qualsiasi banchetto di potere, sia sempre più vista come l’irripetibile
occasione per conseguire profitto e vantaggi personali, per ricevere e
scambiare favori, per acquisire consenso, rendite di prestigio e scalare
posizioni. Un multiforme contenitore da usare come proprietà privata, da trattare
o svendere, quando e come più conviene, in un processo che eccita l’autostima, favorisce
il vizio e annacqua la coscienza.
Come dice Travaglio, non sono marce le mele,
ma il cestino che le contiene.
A questa distorta e fuorviante mentalità -
che a volte suscita persino invidia e ammirazione per chi ha la fortuna di
praticarla (ricordiamo, solo per esempio, l’apprezzamento di molti poveri
italiani per le promiscue imprese pubblico-private dell’indomito Berlusconi) -
ci stiamo un po’ tutti adeguando e abbandonando, forse per noia, forse per
stanchezza.
O, forse, perché manca nel popolo-nazione
l’idea fondamentale del bene comune, della cosa che è di tutti e che da tutti
va difesa e rispettata.
La concezione che chi ruba denaro pubblico,
lo sottrae alle nostre tasche. Che chi corrompe o si vende, lo fa sfruttando le
nostre risorse, le nostre sicurezze.
Come chi sporca le strade e i monumenti
insulta la storia e deturpa la nostra casa.
Farabutti, truffatori, criminali e parassiti
sono spesso l’altra faccia della nostra indifferenza.
Se vogliamo liberarcene, dobbiamo estirparla
dalla nostra consapevolezza e, forse, dal nostro DNA.
14 dicembre 2014 (Alfredo Laurano)
Nessun commento:
Posta un commento